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Paolo Ciofi
 
(da: La rivoluzione del nostro tempo. Manifesto per un nuovo socialismo, Roma, Editori Riuniti, 2018)
 
 
Nonostante la ricerca di fantasiose e accattivanti denominazioni volte a occultarne la natura, la società in cui viviamo ha un nome che la definisce con chiarezza: si chiama capitalismo. Capitalismo perché è il capitale che dà a questa formazione economico-sociale il soffio della vita, ed è il propulsore che la spinge e la diffonde nel mondo. Ma cos’è il capitale? La domanda ci porta ai fondamenti, e proprio per questo è quanto mai attuale. È una cosa? Un insieme di merci, di macchinari e di materie prime? Un algoritmo? Un accumulo di titoli e mezzi finanziari ben nascosti nei paradisi fiscali con un semplice click?
 
Prima di tutto – come ha messo in chiaro Karl Marx al cui pensiero bisogna tornare per avviare un nuovo inizio – il capitale è un rapporto sociale ben definito e storicamente determinato, fondato sulla divisione degli esseri umani in due classi contrapposte: tra chi è proprietario dei mezzi di produzione, di comunicazione e di scambio che usa per ottenere un profitto e chi è proprietario delle proprie abilità fisiche e intellettuali, la forza-lavoro che vende in cambio dei mezzi per vivere: lo sfruttamento di esseri umani da parte di altri esseri umani sulla base di determinati rapporti di proprietà è dunque la sua caratteristica inconfondibile.
 
Questo è il fondamento della società in cui viviamo. Un dato di realtà confermato da un intero percorso storico durante il quale il capitale si è mostrato con sembianze diversificate e imprevedibili, e il capitalismo ha subito continue mutazioni ma sempre fondandosi sullo sfruttamento del lavoro, che a sua volta ha assunto forme mai uguali e se stesse. Nella «immane raccolta di merci» che caratterizza il modo di produzione capitalistico nella fase della rivoluzione digitale, la merce forza-lavoro non è stata cancellata, al contrario si è generalmente diffusa. Una merce particolare, il cui uso in cambio dei mezzi per vivere genera per chi la compra un valore superiore al suo costo, un plusvalore determinato dal lavoro non pagato. È il cuore del capitale, poiché il plusvalore misura il grado di sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori, da cui hanno origine il profitto e l’accumulazione capitalistica.
 
Lo sfruttamento umano, quindi, non è un’anomalia o una “asimmetria” del capitalismo degenere del nostro tempo, come sostengono alcuni economisti liberal e anche coraggiosi esploratori ed esploratrici delle forme più aberranti di precarietà e di disoccupazione che ci propongono un ritorno al passato, bensì la condizione di normale esistenza e riproduzione del capitale, ovviamente in forme diverse e di diversa intensità che nella sostanza dipendono dai rapporti di forza tra le parti. Deve essere però chiaro che senza il lavoro da sfruttare il capitale cesserebbe di esistere. E senza le lavoratrici e i lavoratori che generano plusvalore il capitalismo sarebbe condannato a morte certa.
 
Ma, osserva Marx, «il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza». Se consideriamo la «ricchezza reale», vale a dire i beni d’uso necessari al soddisfacimento dei bisogni umani, allora ci accorgiamo che la natura è la fonte di tale ricchezza effettiva «altrettanto quanto il lavoro». Anche per questa ragione va salvaguardata e tramandata ai posteri migliorata, evitandone la privatizzazione che sarebbe una vera assurdità, «come la proprietà privata di un uomo da parte di un altro uomo». Per altro verso, essendo il lavoro un processo insopprimibile, e in perenne mutamento, di interazione degli esseri umani con l’ambiente naturale, non è pensabile di poterlo sopprimere per salvaguardare la natura. È invece necessario controllare come, con quale intensità, in quali forme e per quali scopi il processo di interazione con l’ambiente naturale si riproduce, in modo da qualificare il lavoro e arricchire la natura.
 
Poiché il fine cui è sottomesso l’intero l’ordinamento dell’economia e della società imposto dal capitale consiste nell’incremento indefinito del profitto privato, ovvero nell’estrazione del massimo profitto dal lavoro e dalla natura, risulta allora evidente che il sistema può reggersi solo su un meccanismo unico di sfruttamento degli esseri umani e dell’intero ambiente naturale. Perciò è pura fantasia ritenere che si possa salvaguardare la natura senza mettere in discussione il capitale, nel suo scopo e nel rapporto sociale che lo rende possibile.
 
In un mondo sempre più deturpato e inquinato, instabile e corroso dalla povertà, percorso dai rischi di una guerra totale, si riduce il tasso di libertà e la disuguaglianza cresce. È l’effetto della straordinaria potenza distruttiva del capitale, incapace di soddisfare bisogni umani emergenti che non generino immediatamente profitto. Non i bisogni reali della comunità ma solo quelli solvibili, espressi in domanda pagante valida per incamerare il profitto, vengono presi in considerazione in questa società. In altri termini, la produzione capitalistica non considera la domanda sociale complessiva, ma solo quella di chi paga ed è riconosciuto dal mercato. Emerge così in modo clamoroso il paradosso del capitale, per cui, in presenza di una crisi da sovrapproduzione per difetto di domanda pagante, si assiste in pari tempo al diffondersi della povertà in conseguenza di bisogni reali insoddisfatti.
 
La crisi del sistema non è un malaugurato accidente, o un colpo a tradimento del destino cinico e baro. È insita nella natura stessa del capitale, nel rapporto di produzione che gli dà il soffio della vita e al tempo stesso ne condiziona l’esistenza. Il capitale entra in crisi se non comprime i salari per alzare i profitti; ma i bassi salari comprimono il potere d’acquisto e riducono la domanda pagante, e quindi impediscono la realizzazione dei profitti. Il capitale vittima di se medesimo? In questo senso sí. La storia del capitalismo è la storia delle sue crisi e dei tentativi, talora geniali e imprevedibili, di attenuare e superare questa contraddizione insuperabile del capitale che è la condizione della sua stessa vita.
 
Perciò cercare l’origine delle crisi del sistema nella sfera dei consumi e della finanza, o nello “squilibrio” della ripartizione dei redditi e della ricchezza, è un esercizio che non porta lontano. Questa è precisamente la ragione per la quale, non avendo indagato sulla natura del capitale e sul suo funzionamento, gli economisti si sono confermati emissari di una «scienza triste», se non di una pretenziosa apologia, che non ha previsto né prevenuto – perché non poteva farlo – la crisi in cui siamo precipitati.
 
Decisiva rimane la visione che si ha del capitale. Infatti, se si assume che il capitale non è una “cosa”, materiale o immateriale, bensì un determinato rapporto di produzione sociale nel quale, a fronte di una minoranza di proprietari che monopolizza le condizioni tecnologiche e strumentali, finanziarie e naturali del processo produttivo, sta una maggioranza di lavoratrici e di lavoratori che monopolizza solo il possesso della propria forza-lavoro, allora dovrebbe risultare comprensibile anche agli economisti di chiara fama che la distribuzione del reddito e della ricchezza dipendono in ultima analisi dalla distribuzione della proprietà. Ma la proprietà, nel tempo di grandiose conquiste della scienza e della tecnica, invece di essere socializzata e distribuita, è stata massimamente concentrata nelle mani di pochi proprietari universali. Ed è tornata a essere sacra e inviolabile come un dogma indiscutibile della fede.
 
Nelle mani dei detentori del capitale le innovazioni scientifiche e tecniche servono per accrescere i profitti attraverso l’intensificazione del lavoro, il prolungamento della giornata lavorativa, la riduzione del numero degli occupati. Nell’insieme, la quota degli investimenti destinata ai salari, ossia alla riproduzione della forza-lavoro generatrice del plusvalore, tende a decrescere rispetto alla quota investita in macchinari e strumenti di lavoro. Ciò fa sì che tendenzialmente si riduca il saggio del profitto, che è il rapporto tra il plusvalore e la totalità delle risorse investite nel processo della produzione. Storicamente diminuisce non la quantità dei profitti, bensì il livello di remunerazione del capitale rispetto all’ammontare complessivo degli investimenti.
 
Il segnale è chiaro: il rendimento del capitale cala. Un segnale indiscutibile della perdita di efficienza del sistema. Una tendenza pienamente confermata, contro la quale lottano con tutti i mezzi i moderni proprietari universali e la classe dirigente che li rappresenta. Ma il rapporto di produzione capitalistico, che si identifica con il rapporto di proprietà, è conformato in modo tale che gli stessi fattori messi in atto per contrastare la caduta del saggio dei profitti e la sostanziale stagnazione del sistema generano, a loro volta, nuove contraddizioni e conflittualità. Lo stato di crisi tende a coincidere con lo stato di normalità, e l’equilibrio del sistema con una condizione di eccezionalità piuttosto casuale. Come accade con la finanziarizzazione e la digitalizzazione nella fase del dominio globale del capitale.

 

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