Erminio Fonzo *

 

L’interesse di Antonio Gramsci per la cultura classica risale agli anni della sua formazione scolastica. Infatti, quando frequentava il liceo in Sardegna, dovette scegliere una materia tra la matematica e il greco e optò per la seconda, anche perché il cattivo insegnamento ricevuto al ginnasio gli aveva fatto perdere la passione per le scienze esatte [LC 181][1].

Nel 1911 si iscrisse alla facoltà di lettere dell’università di Torino, dove rivelò uno spiccato interesse per la glottologia, soprattutto grazie alle lezioni di Matteo Bartoli[2], del quale fu l’allievo prediletto. Seguì, inoltre, le lezioni di letteratura e grammatica latina e greca di Luigi Valmaggi e Angelo Taccone: il primo era uno dei latinisti più insigni del tempo e si era messo in luce soprattutto grazie a un’edizione commentata dei frammenti degli Annales di Quinto Ennio; il secondo era un grecista, autore di numerose edizioni critiche di autori antichi[3]. Tra gli esami che Gramsci superò durante il «garzonato universitario», vi erano quelli di grammatica greca e latina e di letteratura greca[4]. All’ateneo torinese, inoltre, lo studente sardo si trovò di fronte a un ambiente intellettuale legato alla tradizione positivista, che gli consentì di sviluppare una propensione per lo studio rigoroso e lo spingerà a criticare la scarsa attenzione filologica di alcuni studiosi[5]. Gramsci, tuttavia, era influenzato anche dall’idealismo di Croce ed egli stesso ammetterà in una nota dei Quaderni del carcere: «Io ero tendenzialmente piuttosto crociano» [Q 1233].

Nei primi anni del soggiorno a Torino, la passione dello studente sardo per le lingue e le lettere era superiore a quella politica, tanto che un giovane socialista ricordava: «Quando lo conobbi [nel 1916] egli era un filologo più che un rivoluzionario»[6]. Con il passare degli anni, però, l’impegno politico spinse Gramsci a mettere gradualmente da parte gli studi universitari. Nel novembre del 1915 intraprese la carriera di giornalista, iniziando a collaborare al settimanale «Il Grido del Popolo», e nel successivo mese di dicembre entrò nella redazione torinese dell’«Avanti!». Sull’edizione locale di questo quotidiano scriveva spesso per la rubrica Sotto la Mole, dedicata alle vicende torinesi. I suoi articoli erano testi brevi e spesso satirici, nei quali l’autore fece spesso riferimento al mondo antico.

In uno dei primi di questi articoli, pubblicato l’11 gennaio 1916, elogiò la grandezza di Vercingetorige e di Arminio, condottieri germanici, per contestare la retorica antitedesca di una conferenza del medico Ernesto Bertarelli[7]:

Arminio difendeva la sua patria che il tallone romano voleva schiacciare, e Vercingetorige, seguente incatenato il carro dei trionfatore, è più grande, o signori avvocati del Belgio, di Cesare rosso del sangue di migliaia di Galli, incendiatore di città, devastatore di intiere regioni [Intellettualismo, CT 62-64].

Il giudizio negativo e «anti-imperialista» su Cesare, come si vedrà, cambierà negli anni successivi.

Tra gli altri articoli di Sotto la Mole, va segnalato quello del 19 febbraio 1916, nel quale Gramsci consigliò ironicamente ai proletari di frequentare di più le conferenze degli interventisti democratici, perché «ne ritrarrebbero lo stesso insegnamento che gli spartani traevano dalla vista degli iloti ubriachi». In tal modo Gramsci riferiva, una notizia riportata da Plutarco (Vita di Licurgo, XVIII, 8), secondo la quale gli spartani costringevano gli iloti[8] a bere molto vino e poi li conducevano ai pasti in comune, per mostrare ai giovani quanto fosse degradante l’ubriachezza [Deformazioni, CT 142-143][9].

Il successivo 26 febbraio 1916, commentando la concessione della cittadinanza onoraria di un paese piemontese al sindaco di Torino, Teofilo Rossi, Gramsci osservò:

Si dice che sette città si contendessero l’onore di aver dato i natali a Omero. Evidentemente di sei di esse Omero era solo cittadino onorario, ma di lui si era ormai persa la fede di nascita, e l’onore si confuse con il fatto reale. Non crediamo che fra cinquant’anni siano tanti i casali che si contenderanno la cittadinanza di «aria ai monti» [Il cittadino onorario, CT 155-156][10].

Il 5 marzo, a proposito di uno spettacolo teatrale della compagnia Casaleggio, scrisse:

Il sano spirito paesano dovrebbe, come Ulisse quando ritornò nella sua patria, dopo i dieci anni del suo lungo errare, purificare coi vapori di zolfo il teatro dove per tanto tempo i Proci della compagnia Casaleggio hanno abbrutito i cittadini dei sobborghi [Ridicolo e comico, CT 763-764].

Tre giorni dopo citò invece Catone, «il segaligno e bilioso romano», per criticare la pratica della censura, in vigore negli anni della guerra [Catonismo, CT 180-181]. Con un verso della Medea di Euripide introdusse un articolo del 4 aprile [La maschera, CT 199-200], mentre il 22 marzo paragonò allo sbarco degli Iperborei[11] l’infondata notizia, data dalla «Gazzetta del Popolo», dell’arrivo di 200.000 soldati russi in Europa [Il mito degli iperborei, CT 271-272]. Il giorno dopo scrisse che il sindaco di Torino, uno dei bersagli preferiti di Sotto la Mole, «mangia e beve epicureamente» [«Aria ai monti» über alles, CT 273-274], usando questo avverbio con il significato che ha assunto nel senso comune. Il 13 agosto menzionò una frase attribuita all’oratore Cassio Severo, che all’inizio del I secolo d. C., quando vide il rogo dei libri del suo maestro Tito Labieno, avrebbe esclamato: «Buttate anche me nel fuoco, perché quel libro lo conosco a memoria» [Una commemorazione, CT 485-486]. Il 20 agosto osservò che, sebbene ammirasse gli antichi e il loro rispetto per i discorsi dei vecchi, come quelli dell’eroe omerico Nestore, non sopportava la logorrea dell’anziano presidente del consiglio Boselli [Nestore e la cicala, CT 501-502]. Poco più di un mese dopo, il 30 settembre, paragonò il prefetto di Torino a Quinto Fabio Massimo, il dittatore romano del III secolo a.C. noto come «il temporeggiatore», perché aveva lasciato ai suoi sottoposti mano libera di reprimere una manifestazione antimilitarista [Lettera semi-seria all’illustrissimo signor prefetto, CT 563-565]. Il 19 gennaio 1917 la figura di Prometeo gli servì per spiegare «lo spirito umano mai contento dei risultati ottenuti, che cerca sempre, migliora sempre» [Prometeo monopolizzato, S2 43-44] e il successivo 10 maggio menzionò il protagonista di una commedia di Plauto, Sosia, a proposito di uno scambio di persona [Sosia, S2 276-278]. Cenni simili si trovano in alcuni articoli del 1918: il 9 marzo commentò la morte del senatore Angelo Muratori, definendolo ironicamente «un uomo di Plutarco» [L’uomo di Plutarco, CF 724-725]; il 18 aprile il personaggio mitologico Tiresia, un cieco che aveva il dono della preveggenza e che è stato messo in scena da vari autori antichi e moderni, divenne l’alter ego di un fanciullo marchigiano con presunte virtù profetiche [Il cieco Tiresia, CF 833-835][12]; il 17 novembre scrisse che i democratici e liberali che sostenevano le ragioni della borghesia dipendevano «dalla mentalità del cuoiaio Cleone della commedia aristofanesca» [La manifestazione per i caduti in guerra e le associazioni proletarie, NM 403-406], con riferimento ai Cavalieri di Aristofane (il cui protagonista, in realtà, si chiamava Paflagone, ma simboleggiava Cleone, l’uomo politico atenese più in vista alla fine del V secolo)[13].

Alcuni riferimenti al mondo antico si trovano anche in altri scritti gramsciani degli anni ‘10, non pubblicati nella rubrica Sotto la Mole. Per esempio, il 7 ottobre 1917 fece cenno al regolo usato nell’isola di Lesbo (uno strumento malleabile che si adattava alla pietra), menzionato da Aristotele nell’Etica a Nicomaco (V, 10), a proposito del recente decreto del governo che inaspriva le pene per chi compiva atti «pregiudizievoli dell’interesse nazionale» [Il regolo lesbio, S2 528-529]. Il successivo 12 ottobre, intervenendo sulla stessa questione, scrisse che l’esecutivo agiva «come quel mentecatto, che s’illudeva di punire il mare, frustandolo», con riferimento alla cosiddetta flagellazione dell’Ellesponto, ordinata dal re persiano Serse nel 480 a. C. e narrata da Erodoto (VII, 35) [Nel mondo degli illusionisti… e degli illusi, S2 534-535]. Nel luglio del 1918, invece, richiamò un episodio raccontato da Senofonte:

Io, che non manco di fantasia epica, vedo i czeco-slovacchi sotto un altro punto di vista. Io mi sono formato la convinzione che essi siano dei poveri buoni diavoli, i quali si muovono e lottano solo per procurarsi il cibo. Credo che essi siano sperduti nel territorio russo, proprio come i diecimila greci di Senofonte si trovarono sperduti nel territorio persiano dopo la morte di Ciro il giovane [Il nulla, NM 178-180].

L’articolo, che era una replica alle critiche mosse a Lenin dal fondatore del nazionalismo italiano, Enrico Corradini, faceva riferimento alla Legione cecoslovacca, che aveva combattuto in Russia al fianco dell’Intesa e nel maggio del 1918 si era sollevata contro il governo bolscevico. Il cenno ai greci, invece, si riferiva all’Anabasi di Senofonte, nella quale lo storico ateniese raccontò la ritirata dei diecimila mercenari greci, assoldati da Ciro il giovane per conquistare il trono di Persia. Dopo la morte di Ciro nella battaglia di Cunassa (401 a. C.), i diecimila furono costretti a ritirarsi in direzione del Mar Nero, sotto la guida dello stesso Senofonte. Per Gramsci, la Legione cecoslovacca si trovava nella medesima situazione di sbandamento[14].

Un altro cenno a un’opera antica si trova in un articolo pubblicato il 9 ottobre 1918, nel quale Gramsci, che a quel tempo non aveva ancora definito la sua adesione al materialismo storico, scrisse: «Che Marx abbia introdotto nelle sue opere elementi positivistici non meraviglia e si spiega: Marx non era un filosofo di professione, e qualche volta dormicchiava anch’egli» [Miseria della cultura e della poesia, 9 ottobre 1918, NM 346-350]. In tal modo, si citava un celebre passaggio di Orazio Flacco, che nei versi 358-359 dell’Ars Poetica aveva scritto: «Et idem indignor quandoque bonus dormitat Homerus» (mi indigno ogni volta che il grande Omero dormicchia)[15].

Invece il 21 settembre 1918, commentando il XV congresso socialista, tenuto a Roma all’inizio del mese, Gramsci osservò che «l’azione per l’azione potrà servire come paradimma della felicità e della virtù a Nicomaco, figlio di Aristotele» [La vera crisi, NM 300-302][16], ma non per il Psi. Il militante sardo intendeva dichiararsi soddisfatto del congresso, nonostante da esso non fosse scaturito un preciso programma d’azione, come avrebbero voluto gli esponenti riformisti.

Altri riferimenti al mondo antico scaturirono dalla critica alla retorica patriottica che si era diffusa durante la guerra mondiale e che dipingeva i nemici, in particolare i tedeschi, come portatori di tutti i mali. Per contestare tale «opera assidua di incretinimento nazionale»[17], Gramsci citò più volte, con ironia, la vittoria di Caio Mario sui Cimbri e i Teutoni nel I secolo a. C. Per esempio, nel marzo del 1917 a Torino fu pubblicato il numero unico La Riscossa italica[18], opera della Lega d’azione antitedesca e Gramsci osservò che esso conteneva «due o tre nomi di persone intelligenti, abusivamente riprodotti; contorno di una trentina di Stenterelli che si riattaccano a Mario, il vincitore dei Cimbri e dei Teutoni» [Stenterello, 10 marzo 1917, S2 171-174]. Un membro della Lega antitedesca, Cesare Foà, protestò per le critiche ricevute e Gramsci ribadì la sua posizione, facendo menzione dell’origine ebraica del suo interlocutore e citando ancora la storia di Caio Mario:

Il socialismo ha superato la questione delle razze e dei sangui. Invece: italico, ha un valore essenzialmente di razza. Italico è persino diverso da italiano. Italici erano i romani, gli osci, gli umbri e non lo erano invece i liguri, i celti dell’Italia settentrionale ecc., ciò che adesso non impedisce a tutti quelli che parlano italiano, e hanno affetti, volontà, sentimenti che si realizzano spe1cificamente in Italia, di chiamarsi italiani. Ciò non impedisce anche ai semiti che lo vogliano di chiamarsi e sentirsi italiani. Ma questa italianità è sostanziata di elementi ben diversi dal sangue e dalla stirpe. È italianità che, basata sui principi liberali, ha una tendenza spiccatamente cosmopolitica. E Cosmopoli non domanda alberi genealogici che ai soli cavalli del turf. Ora, la guerra europea, almeno in Italia, ha portato a questa curiosissima incongruenza: a parlare di virtù della stirpe italica con maggiore sazievolezza, sono precisamente un paio di dozzine di semiti. È serio e intelligente ciò? Dovrebbero ricordare i vari Foà torinesi che seccano in gusto (in questo caso, e solo in questo, italico, perché si esprime in una buona lingua italiana), che se l’Italia fosse ancora solo italica, cioè fosse ancora solo romana, essi sarebbero degli schiavi, o dei tenitori di bordello nella Suburra. Nell’esercito di Mario, il vincitore dei Cimbri e dei Teutoni, non vi erano semiti: i semiti, tutt’al più, seguivano le legioni romane per offrire a buon prezzo, ai centurioni stanchi di strage, qualche bianca fanciulla dell’Arcipelago, o profumi e oli del Libano [Stenterello risponde, S2 183-84].

Il militante sardo riteneva che, se l’ideologia nazionalista si fosse imposta, gli ebrei, come Foà, sarebbero stati i primi a essere discriminati (il che si sarebbe effettivamente verificato nel 1938, con l’emanazione delle leggi razziali). Nell’articolo è interessante il riferimento all’Italia come Paese cosmopolita, che sarà ripreso nei Quaderni. Gramsci, del resto, rifiutava la retorica razzista e antisemita, che nei primi decenni del ‘900 era diffusa in alcuni ambienti intellettuali[19]. Anche negli scritti successivi ribadì la sua posizione e nei Quaderni definì il razzismo come un «ritorno storico al romanesimo, poco sentito oltre la letteratura» [Q 711] [20]. Le razze umane, intese in senso biologico, per l’intellettuale sardo non esistevano, tanto che in una lettera del 12 ottobre 1931 a Tatiana precisò: «Io stesso non ho nessuna razza», perché i suoi familiari provenivano da origini diverse [LC 478-479].

Oltre a queste dotte spigolature, tra gli scritti giovanili di Gramsci va menzionato l’articolo apparso il 24 marzo 1916 nella rubrica Sotto la Mole, dal titolo Storia antica e democrazia, nel quale l’autore commentò l’assegnazione del premio Bonaparte a Guglielmo Ferrero[21] da parte della Société des gens des lettres. Il giudizio sui suoi libri di storia romana era totalmente negativo:

La pubblicazione dei suoi volumi su Roma coincise con un periodo di infatuazione democratica, che, se procurò all’Italia alcune libertà indispensabili, mise anche in circolazione una quantità di gente che molto più utilmente avrebbe potuto rimanere nell’ombra. Pressappoco, ciò che in piccolo successe a Tommaso Monicelli per il teatro e ad Enrico Ferri per la scienza criminale. Applaudire una commedia di Tommaso Monicelli era affermazione di partito; esaltare la scienza ferriana era affermazione di partito. Tramontati dall’orizzonte socialista, i due tramontarono anche dall’orizzonte intellettuale. Le «speranze» del nuovo teatro e della nuova scienza rimasero quelle che erano: degli stopposi manipolatori di parole senza possibilità di sviluppo, dei palloncini che il proletariato aveva gonfiati del suo entusiasmo sincero e che si sgonfiarono appena venne a mancare in loro la fede. Cosí fu per Guglielmo Ferrero. L’inquadramento che egli fece della storia romana nei cliché democratici del tempo, sembrarono una grande novità e furono esaltati come un progresso. Come potevano sapere i lettori delle migliaia di esemplari dei libri ferreriani che tutte quelle costruzioni erano in gran parte cervellotiche, che l’autore aveva, per esempio, del greco solo una nozione superficiale che lo faceva cadere in errori grossolani e ridicoli? Gli studiosi sorridevano, punzecchiavano, ma i loro appunti erano fatti passare per rivolta accademica contro chi si faceva leggere e, d’altronde le riviste erudite non potevano competere in popolarità con le edizioni Treves. L’aneddoto del tiranno che Ferrero diceva un Menelik dell’antichità e che era soltanto… una misura di lunghezza, non ebbe quella fortuna che si sarebbe meritata. Eppure poteva servire da indice. Immaginate un francese che scriva la storia d’Italia e in un testo trovi citata la Regia Gabella, e confondendo regia con regina, imbastisca tutto un romanzo sulla ipotetica signora Gabella, ricordando per metterla in rilievo Messalina o la Pompadour, o Giovanna di Napoli! Chissà che risate! Ebbene: il Ferrero fece uno sproposito simile. Trovò il nome di una misura lineare accompagnata dall’aggettivo regio, che i greci repubblicani usavano per tutte le cose persiane o asiatiche e costrusse su quel disgraziato nome il romanzo biografico di un Menelik dell’antichità [CT 213-216].

I libri di Ferrero ai quali si riferiva Gramsci erano i cinque volumi intitolati Grandezza e decadenza di Roma, pubblicati tra il 1901 e il 1907 dalle edizioni Treves e dedicati agli anni compresi tra la morte di Silla (78 a. C.) e quella di Augusto (14 d. C.). L’opera, basata su un uso disinvolto delle fonti, ottenne un ampio successo, grazie alla facile fruibilità, ma fu criticata da molti studiosi. Particolarmente duro fu il commento del giovane Gaetano De Sanctis, destinato a diventare uno dei maggiori antichisti italiani, che accusò l’autore di «dilettantismo»[22].

La fonte di Gramsci per le critiche a Grandezza e decadenza erano due articoli dello storico Ettore Pais, che aveva messo in evidenza gli errori di Ferrero, compreso quello della misura lineare[23]. Dall’articolo gramsciano emerge come il giovane militante socialista fosse attento al rigore del metodo di studio, propendendo per l’attenzione filologica alle fonti. Per altro, un anno dopo si occupò di nuovo di Grandezza e decadenza nell’articolo Curiosità di guerra [1 giugno 1917, S2 304-305], riportando le inesattezze rilevate da Pais. Ferrero, inoltre, sarò criticato in alcuni articoli successivi[24] e nei Quaderni, in alcuni casi insieme a Corrado Barbagallo[25].

In sostanza, dagli articoli degli anni giovanili emerge come Gramsci avesse «familiarità» col mondo antico. Si consideri che all’inizio del Novecento la conoscenza dell’età greco-romana era decisamente maggiore rispetto a oggi: il latino era studiato sin dalle elementari e non vi era alcuna persona istruita che non ne avesse una discreta padronanza; tutta la cultura classica, inoltre, aveva un ruolo maggiore nella formazione scolastica dei cittadini. Gramsci non faceva eccezione, soprattutto grazie ai suoi studi universitari, e negli anni seguenti il mondo antico sarà «presente» con una discreta frequenza nella sua elaborazione teorica.

Inoltre, come si è accennato, lo studente sardo aveva sviluppato una predisposizione per il rigore filologico degli studi e seppe coniugare la formazione positivista con le suggestioni che provenivano da altre correnti di pensiero, in primis dall’idealismo di Croce e Gentile.

Com’è naturale, gli scritti gramsciani degli anni successivi saranno condizionati dalla formazione intellettuale del periodo giovanile.

 

* Primo capitolo del libro Il mondo antico negli scritti di Antonio Gramsci, prefazione di Peter Mayo, Paguro, 2019.

[1] Tra i testi antichi che studiò a scuola vi erano il Brutus di Cicerone, la Germania di Tacito, i carmi di Catullo, il Panegirico e l’Areopagitico di Isocrate, la Medea di Euripide, l’Iliade di Omero e l’epitaffio di Pericle per i caduti del primo anno della guerra del Peloponneso, inserito nelle Storie di Tucidide. Lo si apprende da due lettere, scritte nel novembre 1909 e nell’ottobre 1910, nelle quali comunicò ai genitori l’elenco dei libri che gli servivano [E1 25-26 e 47-49].

[2] A Matteo Bartoli, nato in Istria nel 1873 e morto a Torino nel 1947, si devono le quattro norme areali sulla formazione della lingua, che costituiscono la sostanza della «neolinguistica» o «linguistica areale». Il legame del glottologo con Gramsci fu molto forte, anche dopo che lo studente ebbe terminato di frequentare le sue lezioni. Bartoli si aspettava che Gramsci proseguisse gli studi e diventasse «l’arcangelo destinato a profligare definitivamente i neogrammatici», come l’intellettuale sardo scrisse in una lettera alla cognata Tatiana Schucht il 19 marzo 1927 [LC 56].

[3] Cfr. Cinquant’anni di vita intellettuale italiana, Scritti in onore di Benedetto Croce per il suo ottantesimo anniversario, ESI, Napoli 1966, a cura di Carlo Antoni e Raffaele Mattioli, soprattutto i contributi di Augusto Rostagni, Gli studi di letteratura greca, I, pp. 435-457 ed Ettore Paratore, Gli studi di latino negli ultimi cinquant’anni, I., pp. 459-493.

[4] Cfr. Giancarlo Schirru, Antonio Gramsci studente di linguistica, «Studi Storici», a. 52, n. 4, pp. 925-973, che riporta anche l’elenco dei corsi frequentati da Gramsci.

[5] Su questi aspetti della formazione di Gramsci cfr. soprattutto Angelo D’Orsi, Lo studente che non divenne «Dottore». Gramsci all’Università di Torino, «Studi Storici», a. 40, n. 1, 1999, pp. 39-75; Id., Gramsci. Una nuova biografia, Feltrinelli, Milano 2017, pp. 57-79.

[6] Antonio A. Santucci, Gramsci, Newton & Compton, Roma 1996, p. 31. Va segnalato che negli ultimi anni gli studiosi hanno dedicato molta attenzione al periodo giovanile di Gramsci. Tra le ricerche pubblicate: Leonardo Rapone, Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo, Carocci, Roma, 2011; Id., Gramsci giovane: la critica e le interpretazioni, «Studi Storici», a. 52, n. 4, 2011, pp. 975-991, che propone una rassegna dei principali lavori sugli anni giovanili; Giovanna Savant, Bordiga, Gramsci e la Grande Guerra (1914-1920), La città del sole, Napoli 2016; Fiamma Lussana, Gramsci e la Sardegna. Socialismo e socialsardismo dagli anni giovanili alla Grande guerra, «Studi storici», a. 47, n. 3, 2006, pp. 609-635.

[7] Ernesto Bertarelli, nato ad Arona (Novara) nel 1873 e morto a Milano nel 1957, era un medico e un docente di igiene, autore di numerosi studi sulle vaccinazioni e anche di lavori di carattere divulgativo.

[8] Gli iloti erano la parte della popolazione del Peloponneso che viveva in stato di semi-schiavitù.

[9] Gramsci menzionò la vicenda anche nell’articolo «Il sinodo socialista» [3 marzo 1917, S2 154-155].

[10] «Aria ai monti» era il soprannome con il quale era spesso designato Rossi, che fu senatore e sindaco di Torino tra il 1909 e il 1917.

[11] Secondo il mito, gli Iperborei erano gli abitanti dell’estremo nord del mondo.

[12] Su questo articolo cfr. Fabio Frosini, Gramsci e la filosofia. Saggio sui Quaderni del carcere, Carocci, Roma, 2002, p. 36.

Va ricordato che Gramsci menzionò l’articolo Il cieco Tiresia nei Quaderni, discutendo della figura dantesca di Cavalcante de’ Cavalcanti, per l’accostamento tra la cecità di Tiresia e la condizione degli eretici dell’Inferno [Q 527] (alla quale aveva già fatto cenno nell’articolo di Sotto la Mole). L’articolo fu cercato (e trovato) da Palmiro Togliatti nel 1931, dopo che Piero Sraffa lo informò degli studi di Gramsci sul canto decimo dell’Inferno (com’è noto, le lettere scritte da Gramsci a Tatiana durante la detenzione erano inoltrate a Sraffa, che a sua volta le trasmetteva al Centro estero del Partito comunista d’Italia). Si veda la lettera inviata da Sraffa a Tatiana il 2 maggio 1932, in Piero Sraffa, Lettere a Tania per Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, Editori Riuniti, Roma 1991, pp. 64-65. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che le lettere di Gramsci sul canto decimo contenessero un codice di comunicazione del prigioniero, che, discorrendo di Dante, voleva far conoscere ai compagni di partito la sua condizione. Cfr. Giuseppe Vacca, Vita e pensieri di Antonio Gramsci 1926-1937, Einaudi, Torino 2014, pp. 121-129; Angelo Rossi, Fra Gramsci e Togliatti. Dante corriere segreto, «La Rivista del Manifesto», febbraio 2001.

[13] Sui riferimenti al mondo greco-romano della rubrica Sotto la Mole cfr. Giovanni Viansino, Gramsci e l’antichistica, cit., pp. 52-53.

[14] Un cenno alla marcia dei Diecimila è anche nell’articolo Un eroe [28 agosto 1920, ON 641-642].

[15] Molti anni dopo, Gramsci menzionerà gli stessi versi in una lettera al figlio Giuliano (senza data, ma del 1936), per spiegargli che gli scrittori non devono essere giudicati solo da una parte delle loro opere [LC 799]. Altri riferimenti alle opere di Orazio si trovano negli articoli Il tumulto della concordia discorde [11 dicembre 1916, CT 645-646], il cui titolo menziona il celebre verso «quid velit et possit rerum concordia discors» («Quale sia il significato e il potere dell’armonia discorde delle cose»), Epistolae, I, 12, 19; Piazza della pace [8 maggio 1916, CT 297-298], nel quale è citata l’espressione «multa renascentur» («molte cose rinasceranno»), tratta dall’Ars poetica, 70-71.

[16] Aristotele aveva scritto: «Nella vita è giusto che conseguano ciò che è bello e buono coloro che agiscono» (Etica a Nicomaco, I, 8).

[17] Così si espresse nell’articolo Faracovi, 20 ottobre 1916 [CT 586-587].

[18] La Riscossa italica, pubblicazione della Lega d’azione antitedesca, tipografia corso Ponte Mosca, Torino,1917. Sebbene l’opuscolo rechi la dicitura «Marzo 1917», non risulta che siano stati pubblicati altri fascicoli. Gramsci, in ogni caso, polemizzò con la Lega d’azione antitedesca e contro i suoi membri in numerosi articoli (cfr. infra, cap. 3).

[19] Cfr., tra gli altri, Michele Battini, Il socialismo degli imbecilli. Propaganda, falsificazione, persecuzione degli ebrei, Bollati Boringhieri, Torino 2010; Ilaria Pavan, L’impossibile rigenerazione. Ostilità antiebraiche nell’Italia liberale (1873-1913), «Storia e problemi contemporanei», n. 50, 2009, pp. 36-63.

[20] Sul razzismo si veda anche il paragrafo 43 del Quaderno 17 [Q 1943-1944]. Gramsci, inoltre, si soffermò sull’antisemitismo in diverse lettere a Tania negli ultimi mesi del 1931 e nei primi del 1932, discutendo con lei del film Due mondi (diretto da Ewald Dupont, 1930), e in una nota del Quaderno 15 [Q 1801]. In proposito si veda Giuseppe Vacca, La questione ebraica in Europa e in Italia, in Id., Vita e pensieri di Antonio Gramsci, cit., pp. 192-199. Gramsci accettava la tesi che in Italia non esistesse antisemitismo. Per molti anni questa idea (che fu sostenuta dallo stesso Mussolini: Emil Ludwig, Colloqui con Mussolini, Mondadori, Milano 2000, pp. 55-56) è stata accolta dagli studiosi, soprattutto sulla base del noto libro di Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino 1961. Oggi gli storici tendono a vedere la questione in termini diversi, sostenendo che già prima delle leggi razziali del 1938 l’Italia fascista mettesse in atto delle forme di discriminazione nei confronti degli israeliti. Si vedano, in particolare, Michele Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino 2000; Giorgio Fabre, Mussolini razzista. Dal socialismo al fascismo: la formazione di un antisemita, Garzanti, Milano 2005.

[21] Guglielmo Ferrero, nato a Portici nel 1871, era uno storico, giornalista e romanziere. Da giovane si avvicinò al socialismo e collaborò alla «Critica sociale» di Turati dal 1891 e a «Il Secolo» dal 1897. Sposò Gina Lombroso, figlia di Cesare, e nel 1925 partecipò alla redazione di un volume commemorativo di Matteotti. Nel 1930 emigrò in Svizzera, dove fu assunto come professore all’Istituto di studi internazionali di Ginevra. Dopo le ricerche di storia romana, che gli valsero la notorietà internazionale (tra i suoi lettori vi fu persino Theodor Roosevelt), dedicò gli ultimi anni allo studio della rivoluzione francese e dell’età napoleonica. Morì in esilio nel 1942 a Mont Pelerin sur Vevey (Svizzera).

Di Ferrero, Gramsci criticava anche l’idea che esistessero «civiltà quantitative» contrapposte alle «civiltà qualitative». Per l’autore di Grandezza e decadenza, infatti, la civiltà occidentale aveva subito un’evoluzione a partire dal Rinascimento ed era diventata «quantitativa», cioè basata sulla produzione industriale sempre crescente, perdendo lo spirito qualitativo che la aveva animata fino ad allora (Guglielmo Ferrero, Fra i due mondi, Treves, Milano 1913). Per Ferrero, inoltre, la «rivoluzione quantitativa» era alle origini della prima guerra mondiale. Gramsci non poteva accettare un simile ragionamento: «Poiché non può esistere quantità senza qualità e qualità senza quantità (economia senza cultura, attività pratica senza intelligenza e viceversa) ogni contrapposizione dei due termini è un non senso razionalmente. E infatti quando si contrappone la qualità alla quantità, con tutte le variazioni melense alla Guglielmo Ferrero e Co., in realtà si contrappone una certa qualità ad altra qualità, una certa quantità ad altra quantità, cioè si fa una certa politica e non si fa un’affermazione filosofica» [Q 1340].

[22] Gaetano De Sanctis, Scritti minori, VI, a cura di Aldo Ferrabino e Silvio Accame, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1972, pp. 37-41.

[23] Ettore Pais, Poche osservazioni alla risposta di G. Ferrero, «Rivista d’Italia», a. 15, n. 1, 1912, pp. 347-348; Id., A proposito della «Grandezza e decadenza» di Guglielmo Ferrero, ivi, pp. 699-702.

[24] Il tabacco, 28 maggio 1918, NM 66-68; Prete pero, 19 luglio 1918, NM 190-192; Consulta araldica, 22 agosto 1918, NM 259-261; Q 75, 300, 2158-2159, 2180 e 2332 (in quest’ultima nota è citato di nuovo l’errore sulla misura lineare).

[25] Corrado Barbagallo, nato a Sciacca (Agrigento) nel 1877, insegnò storia in vari licei, occupandosi anche dell’organizzazione sindacale degli insegnanti, per poi ottenere la cattedra di storia economica all’università di Catania. Successivamente insegnò nelle università di Messina, Napoli e Torino. Nel 1917 fondò la «Nuova rivista storica», che diresse per quattordici anni, prima di passare a occuparsi della stesura di una Storia universale (Utet, Torino 1950-1954), dalla preistoria all’età contemporanea, in dieci volumi. Collaborò per breve tempo alla terza pagina del «Popolo d’Italia», ma in seguito divenne un oppositore del regime. Si interessò sia del mondo antico, sia di quello moderno e contemporaneo, animato da una concezione anti-filologica, antidealista e materialista, che rese le sue opere oggetto di non poche discussioni. Nel corso degli anni attenuò progressivamente il suo marxismo, fino a pervenire a una interpretazione irrazionale della storia. Morì a Torino nel 1951.

L’autore dei Quaderni ascriveva Ferrero e Barbagallo alla categoria del «lorianismo» (dal nome di Achille Loria), caratterizzata da «disorganicità, assenza di spirito critico sistematico, trascuratezza nello svolgimento dell’attività scientifica, assenza di centralizzazione culturale, mollezza e indulgenza etica nel campo dell’attività scientifico-culturale ecc.» [Q 2321]. Riteneva, però, che Barbagallo fosse il migliore della sua «scuola».

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