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Categoria: Recensioni
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Fosco Giannini

 

È lecito parlare di un romanzo e del suo autore se né dell’uno né dell’altro cade un anniversario? È lecito rompere con la liturgia delle rievocazioni ad orologeria, per la quale non è la qualità intrinseca dell’opera o la sua possibile interazione con la fase storica in atto a suggerirne un’aggiornata presentazione critica alle nuove generazioni, ma - appunto – solo un algido e burocratico decennale, trentennale?

Credo sia assolutamente giusto ed anzi necessario, una controtendenza da assumere quale tendenza, specie se decidiamo di togliere dalla polvere un – seppur misconosciuto - capolavoro letterario come Il comunista, di Guido Morselli.

Misconosciuto capolavoro: quasi un ossimoro che può elevarsi a cifra emblematica dell’intera opera di un altrettanto misconosciuto scrittore, credo, invece, tra i più grandi del ’900 italiano: Guido Morselli, appunto.

Presentare Morselli alle nuove generazioni – e anche alle meno nuove, peraltro – presentare la sua opera vasta e scandagliare i motivi profondi dell’emarginazione e della rimozione che tale opera ha subito richiederebbe un lavoro a parte, uno spazio non contemplabile in questo concessoci, un lavoro che potrebbe essere assunto da “Marxismo Oggi”, dal PCI nella sua interezza, proprio perché molti temi posti da Morselli avrebbero piena cittadinanza in un processo culturale e politico di nuova “costituente” comunista.

Morselli nasce a Bologna il 15 agosto del 1912 e si toglie la vita, con un colpo di pistola, a Varese il 30 luglio del 1973. In quest’arco temporale si sviluppa – in modo drammaturgicamente classico, direi, “pavesiano” – un’esistenza di dolore, solitudine - subita e cercata - e strenuo lavoro intellettuale e letterario che segna – non crocianamente, non romanticamente, né tantomeno da poeta maudit – la stessa opera morselliana. Questo intreccio tra il dolore vissuto (nei primi anni ’50, tra l’altro, il suo amore di una vita, Carla, respinge la sua proposta di matrimonio e si sposa con un altro), l’ombrosa obliquità esistenziale (nel ‘52 si fa costruire una piccola casa, da lui stesso disegnata, a Gavirate, Varese, e lì si mura a studiare e scrivere) e la materia stilistico-concettuale dell’opera letteraria di Morselli è questione grande e degna di essere affrontata, non ora e altrove.

Ciò che possiamo dire è che Morselli è uno scrittore totale, che la sua vita è dedicata completamente alla letteratura, è un corpo unico con lo studio, vasto e profondo, la ricerca e la produzione letteraria. E che i suoi anni migliori sono i sessanta, quelli dei grandi romanzi: Un dramma borghese, Il comunista, Roma senza Papa, Contropassato-prossimo, Divertimento 1889 e più avanti Dissipatio H.G. Tra il ’71 e il ’72 cerca disperatamente, in profonda solitudine, di pubblicare, ma ogni porta gli sarà, drasticamente, chiusa; la sua opera e la sua vita verranno dolorosamente e ferocemente mortificate e solo dopo la morte i suoi romanzi potranno vedere – uno dopo l’altro - la luce, tra la fascinazione stupita di chi non lo conosceva ed è disposto ad amarlo, e il gelo reiterato di chi lo aveva avversato. Il mistero di tanta, determinata, emarginazione – che tuttora, in qualche modo, prosegue – è degno di essere analizzato, e con esso l’egemonia della cultura dominante e quella della “società letteraria” italiana, raramente libera da tale egemonia. Qui, possiamo solo ricordare le parole di Giuseppe Pontiggia, secondo il quale il caso Morselli è una “proiezione esemplare dello scrittore postumo, respinto in vita dall’incomprensione dei giudici...”. Chi scrive crede che non si tratti solo di “incomprensione” ma di diffidenza vera e crudele verso chi non rispetta le regole, verso chi si avventura in terreni analitici considerati non consoni dalle “cupole” letterarie e privi di mercato dalle case editrici, verso chi rompe – come fa Morselli - conformismo e liturgie, innanzitutto letterarie, ma non solo, e per questo paga.

Il comunista, il romanzo che le giovani generazioni dovrebbero, debbono conoscere, viene scritto da Morselli tra il ’64 ed il ’65. La storia si svolge tra il ’58 ed il ’59, tra i “protagonisti” centrali vi è l’intero PCI: nelle sue dinamiche e nella sua (ancora carsica e protetta) discussione interna, nei suoi dirigenti, nella sua grandezza politica, sociale e culturale, nella sua iniziale involuzione istituzionale, nel suo iniziale distacco dal progetto rivoluzionario, nel suo appena accennato, ancora lieve, appannamento morale (stupisce la conoscenza profonda del PCI da parte di Morselli, che non è un militante comunista, ma “solo” un romanziere che prima di mettersi al lavoro - rara avis – studia, nelle sue pieghe più intime, il soggetto).

Il personaggio principale, tuttavia, con nome e cognome è Walter Ferranini, un “comunista di base”, dirigente autorevole della Federazione di Reggio Emilia e da lì eletto alla Camera dei deputati. Ferranini - un operaio intellettuale, avremmo detto un tempo, una di quelle figure ormai scomparse ma che in quella grande scuola gramsciana e togliattiana del PCI fiorivano – scopre ben presto, in Parlamento, la sua nuova natura di “votatore silente”, di automa parlamentare, nel senso che il suo ruolo – da capopopolo dei contadini emiliani – si riduce a quello di pigiatore di tasti, per un “si” o per un “no”. “Il comunista” di Morselli si trova, dunque, per la prima volta nella sua vita, ad avere molto tempo per sé, per studiare e riflettere (e il tempo sottratto alla lotta di classe – insieme – è gradevole libertà e tormento per il suo moralismo). Autodidatta, innamorato di Darwin quanto di Marx, scientista quanto culturalmente segnato dal materialismo dialettico (dal Diamat, si sarebbe detto in quel contesto), Ferranini ha provato in tutto il corso della propria vita – sulla sua stessa carne - la durezza animale del lavoro, della fatica. Ha letteralmente, concretamente, incorporato la condizione schiavistica del lavoro contadino e operaio e ha coniugato tale consapevolezza estrema con la concezione scientista (e leopardiana) della crudeltà oggettiva che ha in sé l’intero blocco della natura inorganica, pronta a distruggere e disfarsi – senza pietà e ripensamenti – di quell’eccezione che è la vita, entro la quale vi è anche la “nostra vita”, che, dunque, è un puro e penoso resistere all’onnipresente pulsione distruttiva dell’onda oscura dell’ inorganico. E da ciò concordare sino all’estremo limite (estendendola persino oltre i confini materialistici segnati da Marx ed Engels) con la concezione marxiana secondo la quale il lavoro è la lotta dell’uomo contro la natura e come ogni forma di lotta anch’essa – il lavoro – è sofferenza e pena. Sofferenza e pena del lavoro, del resistere - inizia ad aggiungere Ferranini - che nemmeno il socialismo (che pure è la necessaria ed unica antitesi alla barbarie - nelle sue diverse forme capitalistiche - e l’unica diga possibile, non solo contro i padroni, ma anche contro l’egemonia dell’inorganico) potrà debellare completamente.

Ferranini è personaggio complesso, sfaccettato, multidimensionale (ecco la grandezza letteraria di Morselli: i suoi personaggi escono dalle pagine per assurgere a contraddittorie verità viventi, secondo le lezioni più alte: Balzac, Dostoevskij, Faulkner ): da una parte la sua austerità morale (berlingueriana , si sarebbe detto più avanti; comunista, si sarebbe detto, più semplicemente, in quegli anni) gli mette addosso oscure inquietudini, compresa quella secondo la quale la destalinizzazione in corso altro non sarebbe stata che il cavallo di Troia per l’imborghesimento del PCI; dall’altra parte egli corre molto più avanti degli altri, dei suoi stessi compagni di Partito ed inizia a porsi questioni (come quella del “carattere ontologicamente maledetto del lavoro” e dunque della sua natura alienante) che quasi nessuno si pone ancora.

Ferranini studia, riflette, elucubra. Gli capita a volte di parlare di tali, “stravaganti” questioni con alcuni compagni e intellettuali. Una sera, a cena, incontra Alberto Moravia (che appare in quanto tale – una sorta di cammeo - nel romanzo di Morselli). Moravia lo ascolta nel suo discutere sulla maledizione del lavoro e gli chiede un articolo per “Nuovi Argomenti”. Ferranini lo scriverà (“Il lavoro, il mondo fisico, l’alienazione”) e Moravia lo pubblicherà. Per Ferranini, dentro il PCI, inizierà un calvario, poiché nel suo articolo egli riassumerà, sì, la grandezza liberatrice del pensiero marxiano (“Marx ha portato il mondo extra-soggettivo – scrive Ferranini su “Nuovi Argomenti” - , ossia il mondo dell’azione (del lavoro), nella sfera del concreto, lo ha esplorato. Ha mostrato che quel mondo doveva essere reso abitabile, umano. Questo è il rovesciamento che già nelle sue prime opere Marx introduce rispetto alle elucubrazioni esplorative di Hegel...”); ma aggiungendo, più avanti: “Chiamiamo pure, se così ci piace, alienazione la semivita (e chi scrive ne ha un’idea diretta e personale) dell’operaio che si consuma giorno dopo giorno alla catena di montaggio, al tornio o alla fresatrice. Ma alienazione è una parola che presuppone una fase precedente, espansiva, dell’uomo e della sua attività, e questo a me pare ottimistico, più che realistico. Quella dell’operaio preferirei chiamarla: mortificazione. E secondo me bisogna renderci conto che essa è solo un aspetto di una condizione umana più generale... Siamo coatti. Lavorare, produrre, non è mai qualcosa di spontaneo, non è l’affermarsi di una nostra personalità; è soltanto una necessità, che non dà tregua... . Il lavoro, con la sua penosità, è dunque qualcosa di universale, insopprimibile. Senza riscatto”.

Per il PCI, che fa del lavoro (e non può fare altrimenti, all’interno di una cultura dominante scientemente volta a cancellare il mondo operaio e contadino e con esso la contraddizione capitale/lavoro) e persino della mitizzazione del lavoro, l’architrave del proprio progetto strategico, le parole di Ferranini suonano eretiche, da espellere dal proprio orizzonte politico e culturale. E il deputato-operaio di Reggio Emilia sarà emarginato e politicamente condannato dal proprio Partito.

Ora, è del tutto evidente che, scritto tra il ’64 ed il ’65, il romanzo di Morselli – con le questioni che pone – è di una forza anticipatrice straordinaria, inconsueta. Un romanzo, oltretutto, che pur ponendo al centro problematiche politico- teoriche pregnanti, mai si riduce ad un pamphlet, ma rimane, sempre, opera letteraria alta, coinvolgente nella sua trama (che si sviluppa ben al di là della questione da noi enucleata: l’anatema moralistico che cattolicamente il Partito scaglia contro Ferranini poiché questi ha una relazione con Nuccia, separata da un altro compagno, è di per sé materia bruciante ed oltremodo contemporanea) e popolata di figure, maggiori e minori, che davvero sembrano fatte in carne, ossa e (per superare la tautologia gramsciana) spirito.

E’ di straordinaria forza anticipatrice poiché pone un tema – quello dell’alienazione – che Marx aveva evocato, annunciato (proponendolo nella sua forma disumanizzante) nei Manoscritti economico-filosofici del 1844; che avrebbe ripreso - in forma ben più legata alla teoria del valore, all’espropriazione della ricchezza e della vita dei lavoratori nei processi produttivi capitalistici - ne Il Capitale, il cui I libro è pubblicato nel 1867; tema che sarebbe, nell’essenza, caduto nell’oblio per circa un secolo (anche se alcuni gli danno ancora, prestigiosamente, voce : il Lucáks di Storia e coscienza di classe, ad esempio, negli anni ’20) e sarebbe stato poi ripreso e rilanciato (in forme interessanti ma contraddittorie e parziali, che lasciarono e lasciano profonde perplessità) dal Marcuse dell’Uomo a una dimensione, dalla Scuola di Francoforte e dal movimento del ’68.

La questione sollevata dal comunista Ferranini è così grande che può essere solo sfiorata in questo spazio. Tuttavia: è verosimile la lettura che Morselli fa del PCI della fine degli anni ’50, e cioè di un Partito (di parte del suo gruppo dirigente) infastidito da quei ragionamenti (apparsi oltretutto – “incongruamente” - sulla rivista borghese di Moravia) e intollerante verso il dissenso culturale di un suo intellettuale-operaio che si azzarda a smitizzare il totem del lavoro, nel momento in cui ne esplora, ne mette in luce, il carattere di alienante, ripetitiva azione sofferente? Senza togliere, peraltro, al lavoro il suo carattere intrinseco di emancipatore sociale? È certamente verosimile: era, quello, un PCI di natura e di cultura non solo operaia (la qual cosa lo legava e tratteneva ad una posizione di classe) ma anche segnato, in sue non secondarie parti, da un sansimonismo produttivista come valore escatologico, come valore in sé, non tatticamente transeunte ma miticamente e strategicamente interiorizzato.

Era, è anche oggi, pericolosa, potenzialmente deviante una torsione, una deviazione “esistenzialista” che sbocchi nella concezione del lavoro come maledizione per molti versi irreparabile? Si, con questo carattere sarebbe perniciosa, poiché il lavoro rischierebbe di essere svuotato della sua ricchezza di valore sociale e tale taglio “esistenzialista” ci collocherebbe temporalmente prima e culturalmente “a destra” di Hegel, della positiva concezione sociale del lavoro che il filosofo tedesco propone nella “Fenomenologia dello Spirito”, nel momento in cui afferma che il lavoro è essenziale nel momento sorgivo dell’affermarsi dell’autocoscienza, “come autonoma e signora”. Concezione che sarà poi sviluppata da Marx nella sua lettura del lavoro come caratteristica essenziale dell’uomo, che lo distingue da tutti gli altri esseri viventi.

Ma il punto è che al Ferranini operaio comunista che alza un grido di dolore e lancia un’accusa contro l’orrore della fatica disumanizzante, contro la bestializzazione della condizione umana (sia che essa si verifichi nel capitalismo o che si replichi nella transizione al socialismo) non si poteva (e tantomeno si potrebbe ora) rispondere con l’apologia dello storicamente “necessario” produttivismo antioperaio nella fase borghese né con una difesa sorda e acritica di uno stesso produttivismo bruto volto al conseguimento di una mancante accumulazione originaria nella fase di transizione al socialismo. E ciò, naturalmente, senza precipitare in quel meccanicismo antileninista e antigramsciano che ha demonizzato “ i tempi sbagliati delle rivoluzioni” (compresa quella dell’Ottobre) o nell’ambigua, e per molti versi regressiva, concezione della “decrescita” di Latouche, ma ricordando che la storia dell’umanità ha già impresso, depositato nel proprio linguaggio – da quello classico dei greci e dei latini, a quello moderno dei francesi, degli spagnoli – la memoria profonda del lavoro nella sua forma disumanizzata: ponos, labor (dal greco e dal latino: sforzo, pena, sofferenza), travail, trabajo; in ogni parola è racchiuso per sempre il dolore, “il travaglio” che ha, in ogni tempo e in ogni latitudine, ricondotto gli esseri umani alla loro condizione animale.

Sappiamo che, dialetticamente (Hegel, Marx) il lavoro ha anche e profondamente liberato uomini e donne (“Arbeit macht frei”, il motto che i nazisti posero all’ingresso di Auschwitz, suona, in quel luogo dell’orrore, ferocemente sarcastico: ma, in sé, è totalmente vero). Ma il compito del socialismo, dei comunisti, dei rivoluzionari, non è solo contemplare la dialettica della liberazione: è, invece, quella di parteciparvi attivamente e – dentro essa – sedimentare e progettare scientemente la completa “scarcerazione” umana, anche dal lavoro. Per un tempo umano liberato.

 

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