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Franco Bianco ([1]

 

Il premio Nobel per l’economia Wassily Leontief nel 1983 dichiarò che “l’importanza degli esseri umani come fattore di produzione è destinata a diminuire come quella dei cavalli nell’agricoltura, che sono stati eliminati con l’introduzione dei trattori”.

Con questa teoria è d’accordo anche Martin Ford, uno studioso americano di intelligenza artificiale e robotica, che già in un suo libro del 2009 - intitolato The Lights in the Tunnel (Le luci nel tunnel) - dichiarava: “A un certo punto nel futuro, forse anche tra molti anni o decenni, le macchine riusciranno a svolgere le mansioni di buona parte della popolazione media e, di conseguenza, per queste persone non esisteranno più nuovi posti di lavoro”.

Ma in realtà la previsione è molto più antica, se ne trovano espressioni già nell'opera di Marx ([2]), poi in Keynes, come sarà richiamato più avanti.

E' già avvenuto con la prima e la seconda rivoluzione industriale. La prima rivoluzione industriale era iniziata con l'invenzione della macchina a vapore, che apparve nel 1712 e fu poi perfezionata da James Watt a partire dal 1765, fino alla versione più efficiente che fu da lui brevettata nel 1782. La seconda rivoluzione industriale avvenne tra il 1875 e il 1900; ad essa dobbiamo le centrali elettriche, le lampadine, il motore a combustione interna, il telefono, la radio, la musica registrata e il cinema. Si può aggiungere, per completezza di esposizione, che ad esse sono seguite la «terza rivoluzione industriale, nata intorno al 1980, legata alla microelettronica e all'automazione industriale a essa stretamente connessa» (Carrozza, vedere successiva nota 4), nonché quella  il cui inizio stiamo vivendo, la «quarta rivoluzione industriale, basata sulla robotica, sull'intelligenza artificiale e sulle più avanzate tecnologie di telecomunicazione» (ivi). Quanto ai terminini utilizzati: per “intelligenza artificiale” (“disciplina che studia se e in che modo si possano riprodurre i processi mentali più complessi mediante l'uso di un computer”) è utile consultare il sito dell'Enciclopedia Treccani al lemma corrispondente“, così come per il termine “robotica” (che individua “il settore delle scienze dell'ingegneria che si occupa dello studio e della realizzazione dei robot”) ([3]).

La legge di Moore, del 1965 (Gordon Moore, uno dei fondatori della Intel, l’azienda americana produttrice di microchip), secondo la quale la potenza dei processori raddoppia (o il loro prezzo si dimezza) ogni 18 mesi (e quindi quadruplica in 36 mesi, cioè ogni tre anni), è ancora sostanzialmente valida a mezzo secolo di distanza, benché vi siano segni di un suo “affaticamento” ([4]). Nella storia dell’umanità non è mai esistita un’invenzione che sia migliorata a questa velocità per un periodo di tempo così lungo. Nel giro di dieci anni un computer che poteva essere fabbricato solo dal governo del paese più ricco del mondo, per scopi al limite delle possibilità di calcolo, è diventato un oggetto che qualsiasi adolescente potrebbe trovare sotto l’albero di Natale: secondo la legge di Moore, infatti, il prezzo del computer si riduce, in dieci anni, a meno di 1/100° di quello iniziale.

Il successo del supercomputer IBM Watson - che nel 2011 ha battuto due campioni storici del quiz televisivo Jeopardy! (già nel 1997 il computer IBM Deep Blue aveva battuto il campione mondiale di scacchi Gary Kasparov) - è un segno dei progressi che ha fatto l’apprendimento automatico, il processo grazie al quale gli algoritmi di un computer migliorano da soli [!] la propria capacità di analisi e previsione. Il metodo è essenzialmente di tipo statistico: la macchina impara per tentativi ed errori quale risposta è più probabile che sia corretta; dato che, come prevede la legge di Moore, i computer sono diventati sorprendentemente potenti, la capacità di fare tentativi e correggere gli errori è così alta che la macchina migliora molto rapidamente. Ne è la prova il traduttore di Google, in cui si può scrivere un testo e vederlo tradotto in una serie di lingue: i suoi progressi sono il trionfo dell’apprendimento automatico. Il programma confronta in parallelo testi in varie lingue e il suo processo di apprendimento consiste nel trovare quale testo è statisticamente più probabile che corrisponda a quello in un’altra lingua.

Se mettiamo insieme tutte queste cose, possiamo cominciare a capire perché molte persone pensano che sia in arrivo un grande cambiamento basato sull’influenza dell’informatica e della tecnologia nella nostra vita quotidiana. I computer sono diventati molto più potenti e ormai costano così poco da essere praticamente onnipresenti. Secondo Brynjolfsson e McAfee (due economisti e scienziati del famoso MIT - Massachussetts Institute of Technology - di Boston/USA) siamo alla vigilia di una nuova rivoluzione industriale il cui impatto sul mondo sarà pari a quello della prima. L’automazione dei processi produttivi minaccia l’occupazione nelle fabbriche e negli uffici. E potrebbe far nascere un mondo in cui la ricchezza è nelle mani di chi controlla le macchine, mentre la vita di tutti gli altri diventa più precaria. In realtà, due sono stati i lavori principali dei due studiosi; il primo, in forma di e-book, nel 2011, intitolato "Race against machines" ("In gara con le macchine"); il secondo in versione cartacea, del 2014, intitolato "The Second Machine Age" ("La seconda era delle macchine"), che qualcuno ha definito "L'età delle macchine intelligenti". E' molto interessante un'intervista, del Febbraio 2014, di Massimo Gaggi, del Corriere della Sera, ai due Autori ([5]).

Disoccupazione tecnologica”: questo termine fu coniato da John Maynard Keynes (il grande economista inglese, 1883-1946, che nel 1937 pubblicò la celeberrima "Teoria generale") per definire il fatto che “la scoperta dei mezzi per ridurre l’uso di manodopera procede più rapidamente della scoperta di nuovi usi per la manodopera”. È un tipo di progresso che fa sparire posti di lavoro grazie alla semplice rapidità dei suoi effetti: perciò Keynes teorizzò, nell'opera citata, la necessità che lo Stato dovesse intervenire con la spesa pubblica, anche affrontando un deficit di bilancio per creare reddito e conseguente domanda di beni, quando la domanda del mercato non fosse sufficiente a garantire la piena occupazione dei lavoratori disponibili (che è, va osservato, quello che, con la modifica dell'art. 81 - introdotta nel 2012 dal Governo Monti e non rivista da nessuno dei Governi successivi, nemmeno da quello Renzi che voleva modificare ben 47 articoli della Costituzione, ma non questo -, è reso ora impossibile, poiché la nuova norma impone, a partire dal 2014 e salvo deroghe sporadiche, il pareggio di bilancio).

L’azienda taiwanese Foxconn è la più grande produttrice al mondo di elettronica di consumo; ha 1,2 milioni di dipendenti in tutto il mondo, molti dei quali in Cina. Almeno questo è il loro numero al momento, ma il fondatore dell’azienda, Terry Gou, ha detto che un giorno spera di usare nelle sue fabbriche un milione di robot. Non sta ancora succedendo, ma esiste un progetto. Siamo già abituati all’idea che il compito degli operai alla catena di montaggio di una fabbrica prima o poi sarà completamente automatizzato, ma siamo meno abituati a pensare che il lavoro degli impiegati, degli avvocati, degli analisti economici, dei giornalisti o dei bibliotecari possa essere svolto da un automa. In realtà è possibile, e in molti casi sta già succedendo. Negli anni sessanta i grandi computer hanno cominciato a sfornare resoconti bancari e bollette telefoniche, facendo diminuire il lavoro d’ufficio. Negli anni settanta le macchine da scrivere dotate di memoria hanno sostituito eserciti di impiegati che dovevano riscrivere sempre le stesse cose. Negli anni ottanta sono arrivati i computer dotati di sistemi di scrittura, i bancomat hanno rimpiazzato i cassieri delle banche e gli scanner dei codici a barre hanno sostituito un buon numero di commessi.

Il testo citato di Maria Chiara Carrozza (nota 4) cita due fatti interessanti, che danno un contenuto numerico alle previsioni: a) si prevede che il numero di robot installati nel mondo arriverà a 2,6 milioni di unità nel 2019; b) definito “densità” il numero di robot installati in un Paese per ogni 10.000 lavoratori, la Federazione Internazionale di Robotica (IFR) ha calcolato che nel 2015 tale rapporto valeva 160 per l'Italia, 301 per la Germania, 305 per il Giappone e addirittura 531 per la Corea del Sud, il che dà una rappresentazione precisa del contesto nel quale le Aziende devono muoversi, a livello globale, e delle tendenze che caratterizzeranno gli scenari competitivi futuri sul piano industriale e su quello commerciale.

Se avessero ragione gli economisti e i futurologi quando dicono che “i robot stanno per rubarci tutti i posti di lavoro”? Uno studio approfondito, ponderato e sconcertante è stato condotto da due economisti di Oxford, di nome Carl Benedikt Frey l'uno e Michael Osborne l'altro, e presentato in un saggio del settembre 2013 con una ricchissima bibliografia (il saggio fa anche riferimenti al primo dei saggi di Brynjolfsson e McAfee, quello del 2011) intitolato “Il futuro della disoccupazione. Quanto sono minacciati i posti di lavoro dalla computerizzazione?” ([6]). I due studiosi hanno usato alcune nuove tecniche matematiche e statistiche per calcolare il probabile effetto dell’innovazione tecnologica su un’ampia gamma di occupazioni, 702 in tutto (sono tutte riportate, e descritte, nell'Appendice conclusiva, pagg. 57-72 del saggio). La conclusione di Frey e Osborne è brutale: nel giro di una ventina d’anni il 47 per cento dei posti di lavoro rientrerà nella “categoria ad alto rischio”, cioè sarà potenzialmente automatizzabile ([7]). La computerizzazione sostituirà soprattutto i lavori meno specializzati e a basso salario. Quelli più specializzati e ad alto salario, invece, rischiano meno di sparire. Quindi i poveri saranno i più colpiti, la classe media se la caverà leggermente meglio di ora mentre – c'è da meravigliarsene? –  i ricchi non avranno problemi.

In questo mondo del futuro, inoltre, la produttività aumenterà notevolmente. La produttività è calcolata in base a quanto produce un lavoratore in un’ora (oppure, in termini più strettamente economici, è espressa dal valore di beni o servizi mediamente prodotti dal singolo lavoratore nell'unità di tempo prescelta, sia essa ora o giorno o mese o anno). È il dato più importante per capire se un paese sta diventando più ricco o più povero. Dal 1979 il reddito del lavoratore statunitense medio non è quasi aumentato (anzi, dal 1999 è diminuito), mentre la produttività ha continuato a salire abbastanza regolarmente. Questo vuol dire che la quantità di lavoro svolta in un’ora è aumentata, ma il salario no. Quindi è il capitale che ha tratto maggior profitto dalla produttività, non la forza lavoro. È una tendenza preoccupante. Se i posti di lavoro scompaiono, la maggior parte delle persone ha meno soldi in tasca, e quando questo succede, i prezzi scendono (deflazione). Cosa produrrà questa perdita così rapida dei posti di lavoro combinata con la deflazione, dato che il calo costante dei prezzi spinge i consumatori a rimandare i consumi in attesa di prezzi più bassi, facendo così diminuire gli scambi e quindi preparando l'ulteriore riduzione dell'occupazione e con essa una ancora maggiore diminuzione dei consumi, in una spirale perversa?

E' un quesito inquietante, che interroga politica e classi dirigenti e che riguarda il problema centrale del tempo che viviamo: il lavoro e tutto ciò che ne consegue. Ad esso non possono venire fornite risposte fondate su ricette antiche, né con un “luddismo” aggiornato al XXI secolo (non è il progresso scientifico-tecnologico il problema, come non lo era all'epoca della prima rivoluzione industriale, ma l'uso che se ne fa), ma occorre uno sforzo potente di tipo culturale per capire bene i fenomeni - senza trascurare né sottovalutare i molti aspetti positivi che pur essi comportano (il recente testo di Carrozza è estremamente illuminante, al riguardo) - ed immaginare soluzioni socialmente adeguate: come è stato opportunamente notato ([8]), “non si può affrontare il progresso tecnologico da un punto di vista meramente tecnico”.

 

[1]          ) L'articolo, pur conservandone la struttura, è un libero riadattamento, anche con inserimenti di note integrative e di dati ad esso successivi, di un breve saggio intitolato "Il capitalismo dei robot", di John Lanchester, saggista e scrittore britannico, pubblicato su "Internazionale" del 27 Marzo 2015. Il testo tradotto in italiano dell'articolo originario, molto interessante da leggere nella sua interezza, è pubblicato a http://www.eltamiso.it/nov13/wp-content/uploads/2015/03/IL-CAPITALISMO-DEI-ROBOT-da-Internazionale-1095.pdf

[2]          ) "nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro,................ma dipende invece dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione. … ” (Karl Marx, “Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica”)

[3]          ) Rispettivamente: http://www.treccani.it/enciclopedia/intelligenza-artificiale/  per il primo, e per il secondo   http://www.treccani.it/enciclopedia/robotica_(Enciclopedia-Italiana 

[4]          ) In un testo recentissimo, intitolato “I Robot e noi” (Il Mulino, Luglio 2017, 93 pagg., 10 euro), la scienziata Maria Chiara Carrozza, già Ministro dell'Istruzione con il Governo Letta, professore ordinario di Bioingegneria Industriale presso la prestigiosa Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, che ha anche diretto dal 2007 al 2013, scrive: «E' possibile che la spinta propulsiva alla miniaturizzazione della microelettronica e all'aumento della velocità di processing stia arrivando al suo termine e, di conseguenza, il capitale dovrà impegnarsi nella trasformazione di scoperte scientifiche in tecnologia innovativa per alimentare una successiva rivoluzione e innescare un nuovo ciclo di espansione industriale» (pag. 17).

[5]          ) riportata a http://lettura.corriere.it/solo-lidraulico-battera-il-robot/].

[6]             ) Il testo, di 72 pagine in lingua inglese, è integralmente riportato a http://www.oxfordmartin.ox.ac.uk/downloads/academic/The_Future_of_Employment.pdf.  Il titolo è "THE FUTURE OF EMPLOYMENT: HOW SUSCEPTIBLE ARE JOBS TO COMPUTERISATION?" (quindi in realtà i due autori inglesi titolano "Il futuro del lavoro..........", non quello della disoccupazione).

[7]          ) Gli autori scrivono testualmente: "We refer to these as jobs at risk – i.e. jobs we expect could be automated relatively soon, perhaps over the next decade or two" ("Definiamo questi tipi di lavoro 'a rischio', cioè lavori che ci aspettiamo possano essere automatizzati relativamente presto, forse entro dieci o vent'anni", pag. 44)

[8]          ) “Noi restiamo. Automazione e disoccupazione tecnologica, alcuni spunti di riflessione”, http://noirestiamo.org/wp-content/uploads/2017/01/automazione.pdf

 

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