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Danilo Carboni*

 

Un aspetto fondamentale delle società industriali è che esse si basano sulla creazione del sovraconsumo, questo significa che la domanda di “risorse” si alza criticamente, ma questo significa anche che così si vanno a distruggere le risorse e gli ecosistemi che supportano le comunità locali. Il secondo modo in cui la globalizzazione crea povertà, avviene distruggendo il sistema di produzione delle economie locali.

Vandana Shiva

 

Il Minas Gerais è uno stato brasiliano contiguo allo stato di Rio de Janeiro. Stiamo parlando di un territorio grande quanto la Francia e le sue città tra le più antiche del Brasile, oltre ad essere uno dei territori più densamente popolati.

La mia prima visita in questo stato mi diede un grande senso di familiarità con il paesaggio circostante; infatti le dolci colline verdeggianti rimandano a quelle del centro Italia, il cibo è, senza tema di smentita, il migliore del Brasile. Città storiche come Sao Joao del Rey, Tiradentes, Ouro Preto sono autentiche perle appoggiate tra corsi d’acqua e strade acciottolate, con chiese antiche e case di stile coloniale colorate di bianco e giallo, dai cui balconi si può godere della frescura delle notti e dei cieli azzurri durante il giorno.

Come dice il nome però, il Minas Gerais è stata ed è soprattutto terra di miniere. Qui nel 1700 i portoghesi vennero e cominciarono la corsa all’oro e ai diamanti, schiavizzando la popolazione locale indigena, trasferendo grandi quantità di africani destinati a diventare schiavi. Dagli anni ‘60 del XX secolo si svilupparono le industrie del ferro e dell’acciaio, dell’estrazione di manganese, stagno, bauxite, piombo, zinco, grafite, amianto. Proprio la grande ricchezza di risorse del sottosuolo ha determinato negli anni una continua crescita della diseguaglianza tra la popolazione povera e i possidenti dei grandi latifondi e la forbice si allarga sempre più di anno in anno. Inoltre, la quasi totale distruzione del territorio e delle sue foreste originarie, ora sostituite quasi interamente da monocolture di eucalipti, grande risorsa per le industrie della carta, della cellulosa e del legno, usato sia per la costruzione che come materia prima per la produzione di carbone.

Attraversando lo stato dalla città di Ouro Preto, passando per Santa Barbara e arrivando fino alla città di Governador Valadares, ho incontrato solo foreste di eucalipto che hanno sostituito la flora originaria. L’eucalipto, qui come nel Carajas una regione povera del nord del Brasile, fu introdotto circa 30 anni fa dalle industrie siderurgiche per la produzione di carbone. Imprese come la Vale si fanno vanto della “riforestazione” del territorio, ma come e perché questa pianta è nociva per l’ambiente e per le persone? Gli eucalipti in questione sono una monocoltura, geneticamente modificati, coltivati solo per farne carbone per quanto riguarda la regione del Carajas (in Minas sono anche usati per la cellulosa e le costruzioni), occupano sempre maggiori spazi di terreno, divenendo così un grande problema per i piccoli produttori agricoli, circondati da questa monocoltura, che espropria i contadini, incentivando la fuga dalle campagne verso la città. Ciò in genere prevede un destino di una vita misera e ai margini senza più storia, senza lavoro. La foglia dell’eucalipto inoltre ha una componente acida molto forte che alla fine distrugge la fertilità del terreno, non contando poi i veleni utilizzati per la crescita delle piante. Le piantagioni, infatti, ospitano solo gli eucalipti. A questo proposito le genti del luogo chiamano le piantagioni “Deserto verde”, una espressione che indica l’assoluta mancanza di altre forme di vita eccetto gli eucalipti, non ci sono uccelli, non c’è vita, tra i filari di alberi regna il silenzio, in un’atmosfera di quiete spettrale che avvolge tutto l’ambiente circostante. Gli eucalipti sono coltivati in vivai appartenenti alle imprese siderurgiche e trattati con potentissimi erbicidi, poi, una volta cresciuti, vengono trattati col veleno da trattori che passano tra i filari. Il veleno portato dal vento si spande nell’aria, ricoprendo i piccoli villaggi tutt’intorno, le conseguenze per la popolazione locale sono disastrose, causando morti tra atroci dolori a causa del contatto e dell’inalazione prolungata a questi agenti chimici.

Il Rio Doce è un grande fiume che attraversa gli stati del Minas Gerais e dell’Espirito Santo, lungo 853 km, scorre attraverso 228 comuni, e comprende una popolazione di circa 3 milioni di persone che vive nei pressi del suo bacino, il quale è inoltre sede del più grande complesso di produzione d’acciaio del Sud America.

Il pomeriggio del 5 novembre 2015 la biodiversità del fiume già compromessa in precedenza dai composti chimici riversati nelle sue acque dalle industrie in loco, dalla pesca indiscriminata, dal costante approvvigionamento di acqua per le irrigazioni, dal consumo di acqua per la monocoltura dell’eucalipto, subisce un colpo letale: crolla la diga costruita per contenere i residui minerari dell’industria Samarco. I residui derivanti dagli ossidi di ferro della regione si riversano nel Rio Carmo, inondando completamente la città di Bento Rodrigues, causando 30 morti, decine di feriti e 600 sfollati in un primo momento. Da lì 62 milioni di metri cubici di rifiuti tossici viaggiano attraverso il Rio Carmo e arrivano al fiume Rio Doce, contaminandone le acque normalmente fornite alla popolazione del Minas Gerais e dell’Espirito Santo per l’approvvigionamento idrico. Si sta parlando del maggior disastro ambientale della storia del Brasile. Nei giorni seguenti viene constatata la moria della quasi totalità della fauna ittica del fiume, i cittadini delle città interessate dall’area del disastro rimangono isolati e senz’acqua. Il danno ecologico e umano è incalcolabile, alcune tribù indigene come i Krenak, ad esempio, perdono tutto, poiché con il fiume, vivevano la loro vita.

Paulo Randow, responsabile della riserva biologica Augusto Ruschi, situata alla foce del Rio Doce nei pressi della città di Aracruz, mi ha riferito di come il fiume fosse già in grande sofferenza a causa dell’inquinamento già presente. Randow mi spiega di come le condizioni del fiume siano nettamente peggiorate in seguito al disastro; ora ci sono aree di desertificazione che prima non c’erano, e la vita faunistica del fiume è stata quasi completamente annientata.

Di chi la colpa?

L’industria Samarco, proprietaria della diga è controllata dalla Joint Venture di due grandi multinazionali che rispondono al nome di Vale e BHP Billiton. La Vale è una delle più grandi multinazionali al mondo per quanto riguarda lo sfruttamento minerario, nata nel 1942 in seno allo stato brasiliano, è stata poi privatizzata nel 1997.

La Vale è tristemente famosa per essere stata riconosciuta come peggior multinazionale del mondo secondo il Public Eye Award. La Vale opera in tutto il mondo, il suo ferro arriva anche all’Ilva di Taranto attraverso una gigantesca ferrovia, fatta costruire allo scopo, attraversa la regione del Carajas nel nord del Brasile e poi imbarcato verso l’Europa dal porto di Sao Luis.

Nel Carajas, come nel Minas Gerais, la multinazionale è arrivata promettendo il sogno di una vita migliore ai poveri tra i poveri, soprattutto nel nord, dando un lavoro mal pagato e ad altissimo coefficiente di consunzione. Chi lavora per la Vale, nel Carajas ha casa e lavoro, fino a quando proprio per le condizioni lavorative (turni massacranti in fabbriche ad alto rilascio di inquinanti per la lavorazione del ferro) non si ammala. Quando ciò avviene (e accade spesso), la Vale manda i suoi operai da medici compiacenti che non rilevano mai infermità troppo gravi o condizionanti, concede alcuni giorni di riposo e poi spedisce nuovamente i propri operai al lavoro, fino a quando questo è possibile; poi, quando le infermità diventano troppo invalidanti e il lavoratore non può più adempiere al suo dovere, il lavoratore viene licenziato, tolta la casa e ovviamente lasciato solo con le spese mediche insostenibili a cui fare fronte. Nonostante ciò, nelle regioni rurali del Brasile, un lavoro in fabbrica viene sempre considerato un posto di prestigio rispetto al lavoro dei campi, cosicchè la fabbrica ha un serbatoio di manodopera pressoché infinito dal quale attingere.

La Vale arriva in un luogo, privatizza i terreni, li recinta, si appropria delle risorse naturali, li avvelena e poi offre lavoro. La Vale dà uno e prende un milione, quell’uno che dà è transitorio, mentre quel milione che prende è per sempre.

La Vale è padrona dell’unica ferrovia che attraversa lo stato del Minas Gerais da Belo Horizonte a Vitoria nello Espirito Santo, padrona della ferrovia sulla quale corrono treni merci lunghi fino a 4 km dal Carajas fino alla città di Sao Luis. Questi treni causano spesso vittime tra la popolazione locale perchè non ci sono barriere di protezione lungo i binari di un territorio tanto vasto, e succede che spesso le persone siano investite dal treno e uccise.

La tragedia del Rio Doce ha risvegliato però una piccola parte della popolazione, sono sorte associazioni che comprendono lavoratori, pescatori, giornalisti, professori che hanno creato un network che parte dalla città di Mariana, dove è sorto il Jornal Da Sirene, un giornale finanziato dalla municipalità, nonché dalla diocesi di Mariana. Un gruppo di giornalisti si occupa di fare uscire mensilmente questo periodico nato appena dopo la tragedia, allo scopo di informare e di tenere la guardia alta e di fare pressione sulla Samarco. Se è vero che dopo la tragedia la Samarco ha provveduto almeno a fare arrivare acqua potabile alle genti delle zone colpite dal disastro, è però piuttosto avversa all’idea di rifondere le persone dei piccoli villaggi che vivevano di pesca e che ora non hanno più alcun sostentamento; è stato inoltre stabilito un risarcimento che però è ben lontano dal riparare anche solo in minima parte il danno commesso. Il governo brasiliano subito dopo la tragedia ha istituito una commissione d’inchiesta chiamata “Commissione straordinaria per la diga dell’assemblea legislativa del Minas Gerais” volta ad indagare le cause e le conseguenze del disastro. Poco dopo si scoperto che 19 dei 22 membri di questa commissione hanno ricevuto forti finanziamenti dalla Samarco per le loro campagne elettorali. Ho avuto la fortuna di incontrare personalmente alcuni dei giornalisti del Jornal da Sirene che mi hanno detto che questa battaglia di giustizia è appena iniziata e che sono in atto diverse cause giudiziarie. L’unico modo sembra cercare di portare in tribunale la Samarco caso per caso. Il cammino è lungo e irto di difficoltà, ma la strada per la giustizia non si ferma, come non si ferma lo scorrere del fiume.

 

* Dal libro di Danilo Carboni, Controstorie dall’Occidente, Tight Ropes 2018.

 

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