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Manfredi Alberti

 

(da: “il manifesto”, 23.10.18)

 

Il documento sottoscritto dalle società scientifiche degli storici, pubblicato su queste colonne il 17 ottobre, ha duramente polemizzato con la scelta del Miur, apparentemente incomprensibile, di eliminare il tema di storia dalle tipologie della prima prova dell’esame di maturità, riservando agli argomenti di carattere storico una presenza (soltanto eventuale) nell’ambito delle altre forme di elaborato.

Si tratta di una decisione che sembra voler convalidare l’attuale tendenza alla marginalizzazione della storia come disciplina, da anni trattata come una Cenerentola sia negli ordinamenti scolastici sia nei piani di studio dei corsi di laurea universitari. Ne sono una prova, a livello scolastico, la riduzione delle ore di storia nella gran parte degli indirizzi liceali e l’attribuzione dell’insegnamento della disciplina a docenti che spesso non hanno una specifica formazione storica; a livello universitario la riduzione delle cattedre di storia nei vari dipartimenti, nonché il rischio di estinzione di alcune discipline fra cui la storia economica, fondamentale per la formazione dei futuri economisti.

La scelta di abolire il tema di storia all’interno dell’esame di maturità sembra essere figlia di questi tempi, insensibili allo studio del passato e ignari delle lezioni che la storia può dare a chi si trova a operare nel presente. Un’epoca segnata dalla diffusa ignoranza delle coordinate generali dello sviluppo storico, riscontrabile anche tra gli studenti dei primi anni dell’università. Il fatto che negli ultimi tempi solo l’1% degli studenti abbia scelto il tema storico all’esame di maturità dovrebbe costituire una valida ragione per rafforzare l’insegnamento della storia in tutti gli indirizzi delle superiori. Accade invece che la Commissione Serianni, che ha lavorato all’ultima riforma dell’esame di maturità, individui nello scarso gradimento del tema storico una buona motivazione per abolirlo. Come se i programmi scolastici e le modalità di verifica delle conoscenze dovessero rispondere a una logica da audience televisiva, o da sondaggio di mercato. Si tratta di una prospettiva aberrante, del tutto coerente con la deriva aziendalistica che da molti anni sta stravolgendo la scuola italiana.

In una società fondata sul predominio incontrastato del mercato capitalistico anche la scuola (come l’università) risulta sempre più “infettata” da una logica privatistica, che sta lentamente trasformando il sistema scolastico da istituzione rispettata, capace di formare i futuri cittadini, in un servizio che eroga “competenze” per i futuri lavoratori/consumatori, soddisfacendo il più possibile i desiderata delle famiglie e degli studenti, intesi sempre più come “clienti”. Come spiegare altrimenti il dilagare incontrastato del lessico finanziario e aziendalistico nelle nostre scuole? L’organizzazione e la gestione degli istituti scolastici, sempre più a corto di risorse, non sono più affidate alla vecchia figura del preside, bensì a quella del “dirigente scolastico”, costretto a gestire al meglio le risorse monetarie e umane a disposizione per garantire al proprio istituto, in virtù di meccanismi di finanziamento di tipo premiale, un numero quanto più alto possibile di iscrizioni. In un contesto siffatto il sapere, per riprendere celebri parole di Marx, tende a tramutarsi in un mero “pagamento in contanti”: come altro definire la riduzione delle conoscenze o delle difficoltà degli alunni a “crediti” e “debiti”? La funzione del docente, di anno in anno più burocratizzata, è sempre più schiacciata fra le prescrizioni dell’“offerta formativa” e la “domanda” (spesso capricciosa) di un’utenza scolastica indifferente all’obiettivo che dovrebbe stare veramente a cuore di tutti: l’educazione degli studenti come futuri cittadini. Imprescindibile a questo riguardo dovrebbe essere proprio lo studio critico della storia, potente antidoto sia all’intolleranza, sia all’idea che la realtà sia sempre uguale a se stessa, e quindi immodificabile: un antidoto, verrebbe fatto di pensare, non gradito alla classe dirigente che da anni governa l’Italia.

 

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