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 Lelio La Porta

 

Antonio A. Santucci (Cava de’ Tirreni, 2 ottobre 1949 – Roma, 27 febbraio 2004) ha lasciato un vuoto intellettuale incolmabile nell’ambito degli studi gramsciani ma anche umano, per chi fu a lui più vicino come amico e come compagno di militanza politica. Quest’anno avrebbe compiuto 70 anni e, ancora quest’anno, ricorre il 15° anniversario della scomparsa.

            La sua attività di studio e di ricerca è riassunta nella bibliografia in appendice al volume Affermare la verità è una necessità politica. Scritti di Antonio Santucci, a cura di Diego Giannone (Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2011) che va integrata con un titolo lì assente, ossia l’Introduzione a Ritorno alla natura di Diderot (Laterza, Roma-Bari 1993). Nel frattempo è stata ripubblicata una raccolta di scritti gramsciani, precarcerari e carcerari, curata da Santucci, intitolata, alla sua prima uscita, Le opere (Editori Riuniti, Roma 1997), e rimessa in circolazione con il titolo A. Gramsci, Antologia (Editori Riuniti university press, Roma 2012), con una Prefazione di Guido Liguori in cui si legge, con riferimento a Santucci: “Che la ripubblicazione di questa antologia valga a ricordare la passione e l’intelligenza con cui lavorò per buona parte della sua vita alla diffusione dell’opera e del pensiero di Antonio Gramsci”.

            Un ulteriore riconoscimento a Santucci curatore dell’opera di Gramsci è la nuova edizione in unico volume delle Lettere dal carcere (Sellerio Editore, Palermo 2013) già pubblicate dalla stessa casa editrice in due volumi nel 1996. L’edizione delle Lettere curata da Santucci è stata definita dallo stesso Liguori “la più completa e complessivamente la migliore tra quelle disponibili in lingua italiana”. Scriveva Santucci nella sua Introduzione che “l’intera vita di Gramsci è gravata dalla prevalenza di situazioni imposte dalla necessità e dalla costrizione” (p. XVI). Probabilmente soltanto l’adesione al socialismo e la scelta di schierarsi dalla parte dei subalterni furono decisioni autonome. La stessa stesura dei Quaderni sortisce da una situazione di necessità e di costrizione da cui trapela la riflessione intorno ad una sconfitta collettiva, quella della rivoluzione in Occidente, come dalle Lettere emerge il carattere di un uomo che ha subito una sconfitta personale. É arduo, sembra suggerire Santucci, leggere le due opere separatamente: “D’altro verso, in specie dopo la pubblicazione dell’edizione critica dei Quaderni, l’approfondimento dell’elaborazione teorica gramsciana non può prescindere dallo studio rigoroso delle Lettere dal carcere, introduzione insostituibile a un pensiero consapevolmente non «disincarnato»” (p. XXII). Lo “studio rigoroso”: è stato questo il segno distintivo di Santucci editore e curatore delle opere di Gramsci. É questa l’eredità che ha lasciato a chi volesse percorrere le pagine gramsciane: cogliere in esse “il ritmo del pensiero in isviluppo” senza forzature e senza sollecitazioni, senza trascuratezza ma con la composta consapevolezza di trovarsi davanti ad un autore complesso per sua stessa ammissione.

            Lo stesso editore palermitano ha proposto, nel 2017, ossia in occasione dell’80° anniversario della morte di Gramsci, in una nuova edizione, il volume di Santucci intitolato Antonio Gramsci 1891-1937, già pubblicato nel 2005 (a cura di L. La Porta, Premessa di E. J. Hobsbawm, con un intervento di J. A. Buttigieg intitolato Un dialogo aperto); si tratta di un volume composto da Antonio Gramsci. Guida al pensiero e agli scritti (Editori Riuniti, Roma 1987) e dal primo capitolo di Gramsci (Newton Compton, Roma 1996), che nel volume della Sellerio compare con il titolo di Gramsci di fine secolo. Il testo degli Editori Riuniti compariva nella gloriosa collana dei “Libri di base” e ha contribuito in modo notevole alla divulgazione dell’opera di Gramsci; il capitolo dal libro della Newton Compton costituisce, a sua volta, una delle riflessioni più attente ed acute intorno alla sorte di Gramsci dopo il 1989.

            Alle pagine 172-174 del libro compare il paragrafo intitolato Perché due Gramsci. Il primo Gramsci a cui Santucci faceva riferimento era il giornalista, il dirigente di partito, il deputato; ma già lo stesso Togliatti faceva presente, nel 1964, che Gramsci doveva essere collocato “in una luce più viva, che trascende la vicenda storica del nostro partito”. Infatti, la pubblicazione delle sue opere (le Lettere dal carcere e i Quaderni del carcere) contribuì decisamente alla definizione di un profilo universale di Gramsci mostrandolo come un intellettuale interessato alla politica, alla filosofia, alla letteratura, all’antropologia e i suoi concetti fondamentali (egemonia, filosofia della prassi, riforma intellettuale e morale ecc.) cominciarono a fare il giro del mondo. Certamente l’arresto fu un fatto decisivo nella vita di Gramsci, dividendola in due momenti: eppure è sufficiente questo per distinguere due Gramsci oppure, come ricordava Santucci, nonostante il carcere, la sua coerenza ideale e teorica, schierato sempre dalla parte dei subalterni, rimane inalterata? Quindi, mentre il primo Gramsci appartiene di certo “a un’epoca delimitata e per molti versi tramontata”, l’altro Gramsci, riportando le parole di Gerratana, proprio come faceva Santucci a p. 174 del suo libro, “è un autore postumo, la cui opera è entrata nel circolo della cultura italiana e internazionale in un’epoca diversa da quella in cui egli è vissuto, la cui opera anzi ha potuto essere pubblicata solo perché l’epoca in cui era stata scritta – l’epoca del fascismo trionfante – era finita”. E Santucci chiosava nel modo seguente: “…un classico del pensiero politico contemporaneo e, pensando alle Lettere, della letteratura italiana del Novecento. E si sa che ogni autentico classico, sebbene espressione di un tempo, resiste alla contingenza e resta aperto al dialogo con le generazioni future”.

            Santucci, oltre ad essere stato curatore ed editore di Gramsci, ha lavorato nella prospettiva di una conoscenza diffusa del pensiero gramsciano. In questo senso si ricorda un suo intervento presso un noto Liceo romano. Aula Magna affollata; sguardi turbati di giovani che per la prima volta avrebbero sentito parlare di Gramsci; sui loro volti la tensione procurata dall’attesa di sentirsi aggredire con parole desuete, appartenenti ad un vocabolario da loro molto distante. Dopo essere stato presentato, Santucci prese la parola: “Avete mai visto un film di Peppone e don Camillo?” Panico, silenzio; ma qualche mano timidamente si alza; “Fateci caso! Nelle scene che si svolgono nelle sezioni del Pci vedete affissi al muro dei ritratti. Chi sono?” Qualcuno, e non di certo per aver letto “Uomini e no” di Vittorini, si avventura dicendo che appare la foto di un uomo con grandi baffi: “Stalin”, aggiunge Santucci, “e l’altro che compare di solito è Togliatti!”. Santucci voleva semplicemente creare un clima per nulla accademico e mostrare che l’attesa di sentir qualcuno parlare dei massimi sistemi teorici gramsciani poteva e doveva confliggere con la necessità di sapere inizialmente chi fosse stato Gramsci e come la sua foto fosse diventata importante come quelle due, una delle quali destinata, peraltro, a scomparire ben presto.

            Ancora un episodio che descrive bene l’uomo e l’intellettuale. Si presentava a Roma un inserto speciale della “Rinascita della sinistra” dedicato a Gramsci. Santucci, in quanto ideatore sia del numero sia della presentazione, si era seduto per introdurre l’incontro. Si sa come vanno queste cose: al termine della sua introduzione chiese se qualcuno volesse intervenire. Silenzio in sala! Inventò una cosa di assoluta genialità: “Allora vi interrogo! Anzi tu [ed indicò proprio l’autore di questo ricordo], avvezzo a sottoporre gli studenti alle tue interrogazioni, vieni qui così capisci cosa si prova ad essere interrogati!” Si sciolse il ghiaccio e la discussione si animò. Poche ma importanti erano le sue indicazioni di metodo: pignoleria con i libri, nessuna sollecitazione dei testi, accuratezza e pazienza; trascuratezza e pressappochismo sono i maggiori nemici dell’operosità.

            Proprio nel rispetto di queste indicazioni di metodo, venne riproposta proprio per l’anno gramsciano l’opera che dell’attività di Santucci studioso rappresenta la “summa”: Senza comunismo. Labriola, Gramsci, Marx. 

            Dunque Labriola, Gramsci, Marx: il primo, teorico del comunismo critico e sostenitore se mai altri ce ne furono della necessità di una solida base teorica per la costruzione di un Partito operaio in Italia, primo diffusore nel nostro Paese dei contenuti del Manifesto del Partito comunista di Marx ed Engels con i suoi Saggi sulla concezione materialistica della storia pubblicati a cavallo fra XIX e XX secolo in un’Italia prima crispina, poi liberticida e, alla fine, giolittiana e, quindi, ben lontana da qualsiasi prospettiva di transizione al socialismo, anzi neanche a quella ad un capitalismo del volto umano; il secondo visse in pieno la crisi del movimento operaio italiano ed internazionale dalla Rivoluzione d’Ottobre all’avvento del fascismo al potere il quale, per impedirgli di pensare, lo rinchiuse nel carcere dal quale uscì soltanto morto; il terzo scriveva di comunismo dalla capitale del più capitalista dei paesi europei rivolgendosi in specie ai lavoratori del Reich bismarckiano nel quale non è che il Partito socialdemocratico si adoperasse per il sovvertimento rivoluzionario. Allora, com’è facile verificare, tutti e tre vissero senza comunismo: ce lo ricorda, invitandoci a valutare il comunismo anche sotto il punto di vista più propriamente teorico, proprio la raccolta di saggi di Santucci la cui ripubblicazione cadeva, peraltro, anche nell’anno del centesimo anniversario della rivoluzione d’Ottobre.

            Il cuore della raccolta può essere considerata la famosa formulazione del comunismo contenuta nella marx-engelsiana Ideologia tedesca: “Il comunismo non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”.

Al ricordo di Antonio si unisce anche quello del suo grande amico Joseph “Joe” Buttigieg, scomparso da poco. Mi sovviene un particolare dell’amicizia, oltre che del sodalizio intellettuale, fra Antonio e Joe: quest’ultimo, alla scomparsa del primo, mi chiese di mettergli da parte la copia dei Quaderni del carcere su cui Antonio stava lavorando. Joe sapeva benissimo che quello di Antonio su Gramsci era un lavoro ancora da portare a termine. Inoltre Joe si adoperò affinché il libro di Antonio edito da Sellerio fosse tradotto e pubblicato negli Usa: cosa che accadde nel 2010 per la Monthly Review Press di New York (esiste anche un’edizione svedese del libro edita nel 2014 dalla Celanders Förlag di Lund).

Affido la conclusione di questo ricordo ad un fatto di cui fui testimone diretto. Era il 1987 e si teneva a Roma, presso la Sala Consiliare della Provincia, un Convegno su Gramsci. Antonio intervenne citando un passo di Gramsci (tratto da Margini, uno degli articoli che compongono La Città Futura dell’11 febbraio 1917): “Quando discuti con un avversario prova a metterti nei suoi panni. Lo comprenderai meglio e forse finirai con l’accorgerti che ha un po’, o molto, di ragione. Ho seguito per qualche tempo questo consiglio dei saggi. Ma i panni dei miei avversari erano così sudici che ho concluso: è meglio essere ingiusto qualche volta che provare di nuovo questo schifo che fa svenire”. Era la descrizione di Antonio A. Santucci.

 

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