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Riccardo Canaletti

 

Sta facendo discutere la lettera di Massimo Cacciari e Giorgio Agamben uscita sul sito dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, seguita da un ulteriore commento del primo su La Stampa e preceduta da numerosi interventi del secondo (tra cui un Requiem per gli studenti in cui i professori favorevoli alla didattica a distanza vengono paragonati ai docenti che giurarono fedeltà al regime fascista per poter insegnare).

Si parla di una lettera firmata da due dei più famosi filosofi italiani, uno dei quali osannato anche fuori dall’Italia per la sua opera più importante, Homo Sacer. Due filosofi da cui ci si aspetterebbe, almeno, il rispetto per la disciplina sul piano dell’argomentazione e dell’onestà intellettuale.

In un articolo pubblicato nel sito «Scienza in rete», il filosofo della scienza Giovanni Boniolo ha elencato le fallacie argomentative e i problemi strutturali della lettera. Tutto questo fa avere nostalgia di libri come The Uses of Argument (1958) di Stephen Toulmin. Mettiamo tuttavia da parte questi errori e anche gli errori concernenti il cattivo uso dei dati (rilevati per esempio da Enrico Bucci su Il foglio, che risponde anche allo slogan sempre più diffuso dell’importanza di “coltivare il dubbio”, dal momento che il dubbio va coltivato fin quando non lo si può superare con la conoscenza, pena il renderlo un feticcio anti-argomentativo, uno scudo da qualunque confutazione delle proprie tesi). Cerchiamo di comprenderne le ragioni politiche.

La richiesta di Agamben e di Cacciari è di tenere in vita qualcosa che sembra essere morto da almeno vent’anni, a partire dalla crisi della democrazia rappresentativa in Italia. Questo qualcosa, che ha ancora i contorni sfumati, inizia man mano a prendere forma, fino a diventare un oggetto perfettamente definibile: la società liberale. Come ha notato su MicroMega Giorgio Cremaschi, i due filosofi ripuliscono il discorso no-vax dal paragone insostenibile con il nazismo e l’olocausto, sostituendogli una difesa anticomunista della causa no-vax/no-green pass. Questo meccanismo, crearsi il nemico comunista in casa quando non c’è nulla, di per sé, di comunista in ciò che si vuole attaccare, era già stato rilevato nel 1998 da Noam Chomsky e Edward S. Hermann, nel saggio sui media statunitensi e sulla narrativa liberale, La fabbrica del consenso. Tipico infatti della cultura americana di destra era additare i Democratici come comunisti, solo perché un po’ meno a destra di loro. Giorgio Agamben e Massimo Cacciari restaurano così l’avversario politico di tutti coloro che sono scesi in piazza a protestare, facendo sì che la causa no-vax/no-green pass riscuotesse consensi anche tra chi aveva bisogno del benestare di un’autorità intellettuale, di qualcuno che scansasse il rischio di essere visti come incolti o ignoranti. In un certo senso, quindi, Cacciari e Agamben creano lo muro di cinta psicologico contro il biasimo della società per chiunque scelga di prendere le parti di quella compagine per cui parteggiano segretamente ma che avevano paura di appoggiare apertamente. Ora i no-vax/no-green pass diventano difensori della libertà, persone che lottano contro un rischio che non è più solo nella testa degli individui senza aggettivi, ma anche degli intellettuali, ovvero di quegli individui che si presuppone debbano e siano in grado di dare un’interpretazione del reale solida e inoppugnabile.

A questo punto è giusto chiedersi, dunque, di che libertà si stia parlando. Lasciando da parte il fatto che, come ha scritto Slavoj Žižek, «senza girarci attorno, è un errore interpretare riflessivamente ogni tecnica di rilevamento e modellazione come ‘sorveglianza’ e la gestione alacre della cosa pubblica come ‘controllo sociale’» (Monitorare e punire? Sì, grazie; in Virus: catastrofe e solidarietà, Ponte alle Grazie, 2020), e che si sta rifiutando la realtà della pandemia attraverso un esercizio di riduzione del fenomeno a un puro evento di tipo sociale (analizzabile quindi a prescindere dalla realtà biologica e matematica che caratterizza l’epidemia come tragedia di tipo naturale); la libertà che si sta difendendo è non solo la libertà individuale, ma la libertà individuale e liberale, quella che andrebbe vista propriamente come una risposta antidemocratica alla Rivoluzione americana e a quella francese (questa l’idea di Annelien de Dijn nel suo Freedom: An Unruly History, Harvard University Press, 2020). Questo elemento ci permette di unire i punti del paragrafo precedente con la seconda questione da rilevare: il movente reazionario della lettera di Agamben e Cacciari.

La premessa è proprio la tesi di de Dijn, che lega sul piano storico-filosofico reazione antidemocratica e liberalismo. La difesa della libertà di stampo liberale proposta da Agamben e Cacciari non fa che riprodurre attraverso uno spauracchio diverso (non più il nazismo ma il comunismo cinese e quello sovietico) gli stessi sentimenti delle piazze che nei giorni scorsi sono scese a manifestare contro un provvedimento giustificato ampliamente sul piano sanitario e che non può essere ridotto a mero dispositivo politico. E questi sentimenti sono profondamente reazionari. A notarlo è stata anche Donatella di Cesare, che in un articolo per L’Espresso dice:

L’idea che siamo liberi e autonomi è ingenua. Ma chi nelle piazze grida “libertà” crede anche che il vaccino sia una subdola alterazione del proprio corpo, a cui perciò intende sottrarsi. La fede nell’identità, il morbo identitario, attecchisce nella nuova destra che infatti mette il sigillo alla protesta. È indubbio che oggi viviamo la insolita condizione per cui il nostro corpo può essere arma di contagio e morte per gli altri. Proprio ciò dovrebbe spingere a mettere al primo posto la responsabilità. Questo - e non altro - è il messaggio del greenpass. Se è un grande errore denigrare o insultare i no vax, se occorre sempre il confronto, non sembra però che ci siano cittadini di seconda classe. La discriminazione è una barriera rigida. Non è questo il caso. A meno di non voler dire che siano, ad esempio, discriminati i fumatori.

Vale la pena sottolineare il problema di questa ‘fede nell’identità’. La nostra società infatti vive l’identità su un doppio binario. Il primo è quello del tribalismo, che può declinarsi in varie forme, come nazionalismo, come maschilismo, come xenofobia, ecc. Il secondo è quello dell’autoidentità, dell’autoaffermazione: l’individuo come monade da affermare incontrastabile, come pura volontà di potenza (anche quando si nega tale volontà di potenza e la si trasforma nel suo contrario; si pensi al vittimismo dell’uomo bianco, alimentato dai discorsi di Ratzinger e dei suprematisti bianchi). Queste due forme di identitarismo si compenetrano, viaggiano insieme, spesso si confondo. È il caso del nazionalismo di stampo liberale, quello dell’America imperialista, in cui gli individui in nome dei propri valori (tra cui quelli della democrazia giuridica, dell’uno che conta perché può votare) accettano di buon grado le cosiddette missioni di pace, fieri di sentire in tv i successi dell’esercito statunitense, mentre sventola in giardino la bandiera a stelle e strisce. Ma è anche il caso proprio dei no-green pass. Qui a compenetrarsi sono l’individualismo estremo (che distorce l’analisi costi-benefici ingigantendo i rischi per la salute personale, rischi che sono innumerevoli volte inferiori e più rari dei rischi che avrebbero con il covid e che gli altri avrebbero se infettati per via dei non vaccinati, enormemente più contagiosi dei pochi vaccinati positivi) e l’identità della classe media. Se è vero che i no-vax/no-green pass sono distribuiti tra le varie fasce di popolazione divise per istruzione, è altrettanto vero che le loro proteste si riducono proprio a quella serie di valori tipici dei ceti medi.

Per questo si può parlare di queste proteste come di un evento caratterizzato dal massimalismo dei ceti medi, espressione con cui Emilio Gentile inquadra l’impalcatura ideologia della classe media che ricevette l’appoggio totale del fascismo storico. Se a vincere è il massimalismo dei ceti medi, inutile teorizzare troppo sopra le cose, coprendosi gli occhi di fronte al fatto che in quelle piazze si affaccino i sistemi ideologici che storicamente hanno davvero aperto la strada alla dittatura. Ecco che cade ogni denuncia del fatto che il green pass potrebbe creare un precedente per uno Stato che si autoriproduce e diventa sempre più pervasivo e securitario. Intanto, perché lo Stato è già securitario ai limiti della praticabilità. Poi, perché sono proprio quelle voci in piazza che mettono insieme disinformazione scientifica, esternazioni di destra e ideologia liberale e reazionaria allo stesso tempo che, se legittimate, diventeranno un precedente a favore della giustificazione di qualunque reazione irresponsabile e identitaria che potrebbe toccare altri temi, come quello dei confini, o dei diritti civili (come già in questi anni ha iniziato a fare). Basti pensare alle proteste dei Black Lives Matter negli Stati Uniti. Cosa impedisce di giustificare, se giustifichiamo le proteste no-green pass, le possibili proteste della classe media americana in favore dei diritti di proprietà e del rispetto dovuto al ceto produttivo bianco americano, su cui poggia, nella narrativa conservatrice e repubblicana, il sistema economico degli States? Dovremmo ritenere l’attacco al razzismo sistemico, realizzatosi sul piano materiale nell’attuale conformazione giuridica e storica dei diritti di proprietà individuale (si veda a proposito In Defense of Looting di Vicky Osterweil, uscito per Bold Type Books nel 2020), come qualcosa di illegittimo, come una deriva autoritaria? Se il problema è invece il fatto che il green pass sia una risposta politica a un problema reale arrivata dall’alto, dallo Stato, allora cosa dire delle proteste che potrebbero nascere a partire da leggi simili al DDL Zan, in cui la classe media italiana potrebbe vedere non solo un attacco alla propria identità (ancora ampliamente mescolata al cattolicesimo, al concetto di famiglia tradizionale, a una visione culturale binaria in tema sessuale e di ruoli di genere), ma addirittura un attacco che arriva, stavolta sì, dall’alto? In fondo il meccanismo sarebbe lo stesso: la classe media si solleva in nome della propria apparentemente e contraddittoriamente immodificabile ed eterna manifestazione storica (una volta in nome delle libertà individuali, questa volta in nome del binarismo di genere e della difesa della famiglia eterogenitoriale), e lo fa contro una volontà espressa dall’alto e vista come autoritaria (una volta il green pass, questa volta una legge a favore delle unioni civili, o contro la violenza di genere, o a favore dell’adozione a coppie LGBTQ+).

Ecco che, a partire da Agamben e Cacciari, per arrivare alle opinioni delle piazze dei giorni passati, è importante impedire che vinca il massimalismo della classe media, a favore non tanto del green pass in sé, quanto di una nuova relazione con la realtà, da cui non si può e non si deve prescindere, neanche per difendere dei valori artificiali e recenti, come quelli della società liberale.

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