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Categoria: Articoli
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Carla Filosa

L’occasione di rispondere, per così dire, all’articolo di Federico Rampini sul Corriere dell’8 aprile 2022, dal titolo Gli Usa traggono vantaggio dalla guerra in Ucraina? Gli «equivoci pacifisti» sull’America, riapre l’autostrada già ampiamente praticata della “guerra mediatica” sempre in atto. La decisione di entrare nel merito degli argomenti trattati non riguarda aspetti personali del giornalista, per cui ad esempio appare nella satira di Crozza tra gli “autoriferiti”, ma emerge dalla necessità di riprendere il patrimonio teorico dei comunisti dispersi nella lettura anche di quest’ultima guerra, ultima forse non solo in ordine di tempo.

Innanzi tutto c’è da specificare, nel caso dell’articolo, che il genere di guerra delle informazioni è di classe, e non interno alla proletarizzazione “di sinistra”, anche se l’autore si colloca in quest’area variegata e multiforme. Si potrebbe forse considerare tra gli esponenti della borghesia “illuminata”, o meglio deputata alla confusione della ipotetica “sinistra” ormai tramontata nella perdita identitaria, e di chi ancora prova a resistere col bagaglio culturale una volta acquisito da classe dominata. Nonostante i condizionamenti ideologici ricevuti, infatti, a tutt’oggi quest’ultima continua ad essere, a sua insaputa, funzione della produzione della ricchezza sociale continuamente appropriabile dai detentori dei capitali in conflitto. Infine, si lascia ad altri esperti dell’integrazionismo sociale l’ecumenismo pacifista imbelle.

Non c’è bisogno quindi di appartenere al “fronte dei pacifisti equidistanti” – come scrive Rampini – per provare a fare valutazioni sulla guerra attuale condotta in Ucraina, scegliendo consapevolmente di chiamarla guerra in quanto definibile come imperialista, termine ignorato nell’articolo in questione. Tale omissione, che prendiamo come deliberata e non dimenticata, fornisce già lo schieramento di parte capitalistica che il giornalista, e pertanto la sua argomentazione, da sempre sostiene. Eliminata siffatta “equidistanza” arriviamo alla dizione di pacifismo, proveniente dal concetto di pace. I nostri padri, di cui ci ricordiamo, definivano la pace come la stabilizzazione dei risultati conseguiti mediante la guerra. Solo così, semplicemente, si capisce che i due momenti, fasi, o come si vogliano considerare, sono inscindibilmente connessi, o con un livello culturale ulteriore, dialetticamente uniti nella loro opposizione reale. Indipendentemente da siffatto dualismo complesso, si perde altrimenti la comprensione delle cause e degli effetti della funzione di queste due astrazioni, (pace/guerra) che rappresentano solo alternati comportamenti umani. Sono invece attuazione concreta di necessità oscurate di questo modo di produzione, di cui si vogliono ignorare le leggi di esistenza e riproducibilità. Se, come crediamo, è ancora valida l’affermazione di von Clausewitz, secondo cui la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, questa distruzione umana e di ricchezza prodotta, oltreché di capitali considerati ostili, deve riconfigurare assetti egemonici mondiali rispetto al mutamento di quelli entrati in crisi in seguito al costante declino dell’accumulazione capitalistica, da cui il sistema non riesce a riprendersi. L’inconsistenza, rispetto a questo, risultata sui piani delle guerre commerciali, valutarie, diplomatiche, di controllo di aree strategiche, ecc., è all’origine delle numerose guerre militari in atto (ne sono state calcolate 170, ma ora non ne abbiamo la documentazione per verificarlo), tra cui quella in Ucraina, così più rilevante per noi perché in territorio geograficamente europeo.

Nessuna ricerca di “colpe dell’Occidente” dunque, bensì analisi della “fine della pace”, come titola il nuovo Limes di aprile, analisi di cui Rampini sembra non occuparsi nell’intento di difendere “l’Occidente”, categoria quanto mai ideologica e perciò ambigua, in cui l’Europa, con tutte le sue differenze, ostilità e prevaricazioni interne, non è chiaro se è più alleata o succube all’interno del carrozzone NATO gestito dagli Usa. Le attuali sanzioni antirusse starebbero a segnalare una contraddittoria e autolesiva partecipazione a quest’Occidente, i cui vantaggi (tipo protezione militare da parte Usa) sembrano già dileguati quanto scarsamente individuabili quelli nuovi e/o rassicuranti. Quando poi si dice Usa, non si intende qui lo stato o il popolo statunitense (non per estensione indebita “americano”!), ma i capitali con base US - di cui Rampini scopre insieme all’acqua calda essere le “aziende produttrici di gas, i loro azionisti e top manager” – nella mondializzazione transnazionale dell’attuale fase capitalistica, i quali incrementeranno i loro profitti con l’apertura del mercato europeo, costretto ad attaccarsi alla canna del gas liquido da rigassificare Usa, in seguito alla costrizione a rinunciare a quello fornito dalla Russia. Primo effetto oggettivo della guerra in Ucraina volto a rimpinguare la discesa in caduta libera del dollaro da moneta internazionale di riserva, sostituibile sempre più con euro o renmimbi (yuan) cinese, od anche probabile moneta asiatica ancora da definire. Il popolo US è chiaro che subirà l’erosione salariale dell’inflazione attuale, come nel resto del mondo, perché i vantaggi aumentati dei capitali comportano sempre l’abbassamento del salario reale, in tutte le sue forme: diretto, indiretto e differito – ovvero capacità d’acquisto del proprio reddito, welfare ovvero fruizione dei servizi sociali quali trasporti, scuole, ospedali, infrastrutture, ecc., infine pensioni e trattamenti fine rapporto (tfr). Il valore (ricchezza) prodotto dal lavoro, nella sperequata suddivisione capitalistica, si direziona sempre verso l’aumento dei profitti a discapito dei salari, soprattutto in tempi di crisi di cui il presente è espressione globale. Più chiaro sarebbe chiamarla mondiale in quanto riferita a un mercato in cui non si occulta la dominanza di capitali su altri, o su aree valutarie non comunicanti e non coincidenti necessariamente con gli stati nazionali, lasciando intendere solo la totale interdipendenza delle diverse aree produttive. Siamo poi già dentro processi inflattivi che possono anche continuare ad innalzarsi, e le condizioni di razionamento energetico, alimentare, ecc. si stanno profilando in un futuro estremamente prossimo, se non già in attuazione programmata come reale economia di guerra.

Se siamo di fronte al fallimento della tanto magnificata globalizzazione, alias forma della estensione mondiale del mercato del capitale, quale previsione scientifica marxiana dello sviluppo di questo modo di produzione specifico, l’esito bellico del mancato superamento delle contraddizioni interne al sistema presenta un conto già visto. Riorganizzazione e concentrazione dei capitali più forti con l’eliminazione o assoggettamento di quelli sconfitti o più deboli, diverso accaparramento delle materie prime (oltre gas e petrolio nichel, ferro, terre rare, zinco, ecc.) necessarie allo sviluppo delle industrie ad alta tecnologia, diversa distribuzione e/o privilegio delle zone asservite – non necessariamente paesi – di forniture alimentari e di prima necessità, generale abbassamento su base gerarchica dei livelli salariali. Se poi la corsa alla militarizzazione in atto dovesse sfociare nell’uso di armi nucleari di bassa o alta intensità, ogni previsione è ovviamente fuori portata.

Quello che la storia recente ci ha mostrato è che sin dalla guerra che ha disgregato la Iugoslavia la espansione nell’est Europa in ben tredici paesi, da parte della NATO, si stava estendendo ora anche all’Ucraina. Il suo attore-presidente Zelensky ha ripetutamente chiesto, con l’attuazione di una no fly zone e l’insistente invio di armi, pericolosi coinvolgimenti militari che innalzano la minaccia dell’innesco di un conflitto nucleare senza ritorno. Sulla responsabilità degli Usa bisognerebbe avere documenti dei piani politici del Pentagono, in mancanza dei quali si possono solo nutrire ragionevoli sospetti. Tutt’al più formulare ipotesi di scenari basati unicamente sulle pregresse guerre yankee gestite in Asia e in Medio Oriente, insieme alle continue indefinibili previsioni di lungo termine per questa guerra in Ucraina. Che il confronto che conta sia infine quello tra Usa e Cina, intendendo con ciò il conflitto egemonico tra il dollaro e lo yuan, nessuno dubita. L’interruzione, intanto, del flusso delle transazioni per quella impropriamente chiamata “la via della seta”, che avrebbe facilitato i rapporti tra la Cina e l’Europa, sembra già un primo risultato ancorché insufficiente. Se l’inizio di tali obiettivi fosse intanto quello di vanificare definitivamente il funzionamento dei gasdotti russi verso l’Europa, questo si vedrà solo in seguito.

Rampini è certamente un grande giornalista, l’articolo citato non può però essere utile a chi cerca di capire che questa guerra imperialista non può vederci schierati e tifosi come nelle partite di calcio. I comunisti si battono per la pace quando si tratta di fermare questi massacri umani, che porteranno a decidere solo quali capitali dovranno continuare lo sfruttamento di classe in tutti i paesi. Non cercano la pace però, cioè l’assuefazione, quando si tratta di lottare contro i profitti che sempre più, nella loro incessante guerra ai lavoratori salariati, generano impoverimento umano e distruzione sociale e planetaria finché non si sarà superato questo sistema. I vantaggi di questa guerra, come delle altre cui si è fatto cenno, saranno certo dei capitali più forti nella transnazionalità esistente, ma questo deve per noi evidenziare la tragica assenza, cui porre rimedio quanto prima, di un coordinamento di classe della proletarizzazione mondiale, costretta ancora alla subalternità impotente di fronte alla crescente precarizzazione della vita.

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