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Leonardo Pegoraro

 

I crimini contro gli indigeni per i quali Papa Francesco ha recentemente e coraggiosamente chiesto perdono nel corso del suo pellegrinaggio penitenziale in Canada si sono verificati attraverso e all’interno di una rete di ‘scuole residenziali indiane’. Ossia istituti ‘educativi’ - campi di concentramento e sterminio, secondo le vittime - che, ispirati al motto assimilazionista: ‘uccidi l’indiano, salva l’uomo’, miravano a eliminare le culture indigene, bollate come 'subumane', e rimpiazzarle coercitivamente con quella ‘superiore’ dei coloni bianchi. Creati e finanziati dal governo canadese e operativi a partire dalla fine dell’Ottocento fino alla fine del secolo scorso, queste scuole vengono date in gestione a chiese cristiane di diversa denominazione: in gran parte alla chiesa cattolica ma anche a chiese protestanti come quella anglicana. 

I circa 150.000 bambini strappati a forza dalle braccia dei genitori e deportati in questi luoghi di sofferenza e di morte per essere ‘civilizzati’ hanno subito una serie di violenze psicologiche e fisiche orribili. Dalle torture e l’obbligo di assistervi o prendervi parte, allo stupro, passando per la sterilizzazione e la sperimentazione medico-farmaceutica. Per non parlare degli elevati tassi di mortalità (in media, e agli inizi del Novecento, del 50% e quindi persino più devastanti di quelli dei campi concentrazionari nazisti) dovuti in gran parte alla diffusione (anche intenzionale) di malattie e a condizioni di vita disumane, tra cui sovraffollamenti, lavori forzati e malnutrizione.

Per inciso, le scuole residenziali rappresentano solo uno degli strumenti di cui si sono servite le autorità nel tentativo di portare a compimento la ‘soluzione finale del problema indiano’ per via assimilazionista (si veda la proibizione di religioni, usi e   costumi indigeni come la danza del sole e la pratica del potlatch). Inoltre, non si tratta di un unicum canadese. Politiche di distruzione culturale del tutto simili sono state perpetrate dagli Stati Uniti contro i ‘loro’ indiani (in scuole residenziali istituite ben prima che in Canada e a cui Ottawa si sarebbe ispirata), ma anche dall’Australia nei confronti dei popoli aborigeni (si parla a questo proposito di ‘generazioni rubate’) e dalla Nuova Zelanda a danno dei maori (attraverso istituti che prendevano il nome di ‘scuole native’). Infine, queste tecniche di annichilimento culturale degli indigeni si inseriscono in un più ampio e variegato ventaglio di politiche eliminazioniste che comprendono anche atti genocidari più ‘tradizionali’ e meno ‘sofisticati’: guerre, massacri, deportazioni, carestie indotte.

Il pellegrinaggio del Pontefice è un evento storico importante che ha giustamente attirato su di sé molta attenzione e speranza. Esso contribuisce a quel processo di ‘riconciliazione’ tra gli indigeni e il resto della popolazione canadese iniziato ufficialmente nel giugno 2008 con le scuse rilasciate da parte dell’allora primo ministro (Stephen Harper). E, pochi giorni prima, con l'istituzione della ‘Commissione per la verità e riconciliazione’, la quale, dopo sei anni di udienze, ha emesso una serie di richieste d’azione tra cui, per l’appunto, l’intervento diretto del Papa. 

Le scuse ufficiali a nome del mondo cattolico e porte in situ rappresentano una svolta e un atto dal forte carico simbolico che i popoli indiani attendevano da tempo. E fa ben sperare il fatto che lo stesso Pontefice abbia sottolineato come le sue esternazioni rappresentino soltanto l’inizio di un percorso più lungo. L’auspicio è infatti che si facciano passi concreti. La chiesa dovrebbe abiurare formalmente la ‘dottrina della scoperta’, ancella ideologica della conquista e dell’espropriazione coloniali; aprire i suoi archivi; rivelare i nomi dei responsabili e punirli; restituire beni indigeni di cui si è appropriata; e risarcire le vittime. 

Richieste simili sono state rivolte dai popoli indiani anche alle altre chiese cristiane coinvolte, a partire da quella anglicana. Disgraziatamente, la regina Elisabetta II, doppiamente responsabile in quanto monarca e capo di stato canadese e capo supremo della chiesa anglicana, non sembra nemmeno interessata a porgere le scuse. E il connivente governo Trudeau preferisce sorvolare su questo punto, nonostante un recente sondaggio abbia rivelato come gran parte dei canadesi ritenga che la Corona dovrebbe invece scusarsi. Motivo per cui puzzano di doppiopesismo le critiche del governo rivolte in questi giorni al Pontefice per non aver detto e fatto abbastanza.

Ma anche laddove le chiese coinvolte onorassero tutte le richieste di cui sopra, ciò risulterebbe soltanto in una temporanea e superficiale riduzione del danno, in quanto si limiterebbe all’epifenomeno del problema (eccezion fatta forse per l’abiura della dottrina della scoperta, che potrebbe avere ripercussioni legali importanti). Urgerebbe invece risalire a monte della tragedia indigena (ancora in corso: basti pensare ai preoccupanti tassi di suicidio, tra i più alti al mondo, e alle percentuali sproporzionate di incarcerazione) e affrontarne realmente l’origine. La quale è da identificarsi in una triade esiziale per gli indiani: il colonialismo di insediamento di marca britannica (che non si è mai arrestato ma che certo ha assunto forme diverse nel tempo); il modo di produzione capitalista (vedi le riflessioni di Marx sull’‘accumulazione originaria’ e il nesso colonialismo-capitalismo); e, da ultimo, il liberalismo, l’ideologia organica ai primi due e che pertanto continua a giustificarli, edulcorarli e promuoverli (e quindi a ignorare, negare o minimizzare i genocidi indigeni).

Più che sulla riconciliazione, che comporta rischi di cooptazione all'interno del sistema e quindi di subalternità mascherata e imbellettata, si dovrebbe allora insistere su altre parole d’ordine di ‘rottura’ e autentico riscatto: e cioè de-colonizzazione, autodeterminazione e post-capitalismo. Secondo una strada già tracciata a suo tempo da un intellettuale e attivista indigeno canadese (Howard Adams), il quale chiamava gli indigeni alla lotta anticolonialista e rivoluzionaria, coniugando la lezione di Frantz Fanon con quella di Lenin e guardando a paesi quali Cuba e il Vietnam come ad esempi di emancipazione nazionale e socialismo cui ispirarsi.

È superfluo osservare che questo scenario non è perseguibile nell’immediato orizzonte. I rapporti di forza sono sfacciatamente sfavorevoli ai popoli indiani e gran parte della comunità non-indigena non accetterebbe mai di vedere intaccati i pilastri fondanti del paese, sia quelli materiali che quelli ideologici. Verrebbe infatti messa in discussione la stessa fondazione del Canada e dunque la sua sovranità sulle terre occupate, con il rischio concreto di veder ridimensionati i suoi confini geografici o comunque di perdere il controllo completo su vaste aree del paese. Nonché il suo modello economico, le sue tradizioni e istituzioni politiche ritenute orgogliosamente ‘democratiche’ e altri confortanti miti autorappresentativi. 

Ben vengano allora gesti simbolici apprezzati e apprezzabili quali le scuse ufficiali e altri obiettivi tattici di breve periodo, ma questi non dovrebbero distogliere l’attenzione dalla strategia di lungo termine. La quale - in Canada come negli Stati Uniti, in Australia e in Nuova Zelanda - richiederebbe un’agenda politica più ambiziosa e radicale, in grado di perseguire concreti percorsi di autonomia ed emancipazione. Un’agenda che promuova e si faccia forza di un’alleanza politica tra gli indigeni e la minoranza più progressista e illuminata della comunità non-indigena. E aperta a interlocutori e possibili alleati anche sul fronte internazionale. 

 

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