Milena Fiore *
Vorrei portarvi, per qualche minuto, dentro una sala cinematografica che nessuno di noi ha mai visto, ma che esiste.
È a Gaza, nel cuore del genocidio. Una sala-territorio ferita, bombardata, improvvisata, forse senza sedie, senza corrente stabile, che sarà allestita in mezzo alle macerie, tra le tende dei sopravvissuti.
Eppure, quando sullo schermo comincia a muoversi un’immagine, lì accade qualcosa di straordinario: un atto di resistenza. Una comunità che, nonostante tutto, continua a vivere, e con quello che le rimane, tra tanta distruzione, riesce a organizzare un momento di unità e resistenza culturale.
Parliamo del Gaza International Festival for Women’s Cinema, che si terrà a Deir al-Balah, nel cuore della Striscia di Gaza, a metà strada tra Gaza City e Khan Younis, e a pochi chilometri dal mare, dal 26 al 31 ottobre 2025.
La prima edizione del festival si svolgerà, con i mezzi artigianali imposti dalla situazione, in concomitanza con la Giornata Nazionale della Donna Palestinese, che ricorda la prima Conferenza delle Donne Palestinesi svoltasi a Gerusalemme nel 1929.
Un festival nato in condizioni che dovrebbero rendere impossibile anche solo pensare di fare cultura. E invece, la cultura accade. Il festival è prima di tutto un gesto civile e politico, un modo per affermare che la vita, la memoria e la creazione non si possono bombardare.

Settantanove film provenienti da ventotto paesi – tra lungometraggi e cortometraggi, fiction e documentari – raccontano le vite, le voci e le lotte delle donne. Autrici, autori, tecniche e tecnici scelgono di non interrompere il racconto. E quando questo racconto si compone di settantanove film, diventa un coro: voci di lavoro, di maternità, di corpo, di amore, di libertà; sguardi intimi e collettivi; frammenti di dolore e di speranza. È, forse, la definizione più alta di resistenza culturale.
In questa idea di resistenza risuonano le parole di Mahmoud Darwish:
Su questa terra c’è ciò che merita la vita,
su questa Terra, la Signora della terra,
madre degli inizi e madre delle fini.
Si chiamava Palestina.
Continua a chiamarsi Palestina.
Oggi, quella poesia è anche la voce del Gaza International Festival for Women’s Cinema.
In un tempo in cui case e corpi vengono distrutti dai bombardamenti e dalle violenze inenarrabili di Israele, a Gaza c’è ancora chi insiste nel voler organizzare un festival del cinema: un festival della vita, della libertà, dell’autodeterminazione. Il dr. Ezzaldeen Shalh, fondatore e presidente del festival, che ha perso la casa e parte della famiglia e oggi vive in una tenda, non si è mai fermato.
Crede che la cultura e l’arte siano forme di resistenza, e che dalla morte possa nascere una nuova vita.
Il suo impegno non è solo organizzativo, è una dichiarazione politica e morale. Il cinema, in Palestina, è una forma di sopravvivenza, una prova di esistenza. Questo non è un festival su Gaza, ma con Gaza, e da Gaza verso il mondo.

La serata inaugurale, con The Voice of Hind Rajab della regista tunisina Kaouther Ben Hania, ha un significato che va oltre il cinema.
Scegliere Gaza come luogo per la prima proiezione del film nel mondo arabo è un gesto potente: significa dire che la ferita di Gaza non è marginale, che la sua dignità non è calpestabile. È un atto di alleanza artistica e umana.
Un altro segno importante è la presidenza onoraria di Monica Maurer, regista e ricercatrice che da decenni lavora sulla memoria visiva palestinese. La sua presenza ricorda che il cinema serve a custodire, tramandare, mantenere viva una responsabilità collettiva. Parafrasando Cesare Zavattini: le immagini continuano a vivere anche oltre il loro tempo. Il cinema deve riattivare, rimettere in circolo, far vivere le immagini del passato.
Questo primo appuntamento è ancora più valorizzato dalla composizione delle giurie internazionali, annunciate ufficialmente dal comitato organizzatore del festival in collaborazione con il Ministero della Cultura Palestinese.
Due giurie, una per i film di finzione e una per i documentari, composte da personalità di rilievo del cinema a livello internazionale, incarnano lo spirito di dialogo e di autentica solidarietà che attraversa il festival.
La giuria dei film di finzione è presieduta dalla regista e sceneggiatrice francese Céline Sciamma; accanto ci sono il regista marocchino Mohamed El Younsi, l’attrice italiana Jasmine Trinca, il regista e scrittore palestinese Fajr Yacoub, e l’attrice e regista teatrale algerina Moni Boualam.
La giuria dei documentari è invece presieduta dalla regista palestinese Annemarie Jacir, autrice tra l’altro del film appena uscito e candidato all’Oscar, “Palestine 36”. Con lei, il regista e produttore bahreinita, Bassim Al Thawadi, la produttrice italiana, Graziella Bildesheim, presidente dello European Women’s Audiovisual Network, il regista kuwaitiano, Abdulaziz Al-Sayegh, e la montatrice cubana, Maricet Sancristobal, oggi coordinatrice del dipartimento di montaggio all’EICTV di Cuba.
Un mosaico di esperienze e sguardi che conferma la dimensione internazionale e corale del festival: un dialogo che unisce Gaza al resto del mondo, intrecciando lingue, estetiche e politiche della resistenza culturale.

Tra le iniziative più significative c’è anche il progetto “Dare potere alle donne a Gaza”, un programma di formazione rivolto a giovani donne che desiderano lavorare nel cinema. Ventidue partecipanti seguiranno un percorso di cinque mesi tra scrittura, regia, fotografia, produzione e montaggio, realizzando quattro documentari brevi interamente ideati da loro. Il workshop, inizialmente previsto durante il festival, è stato rimandato alle prossime edizioni, ma resta un tassello fondamentale del percorso del GIFWC. L’obiettivo è duplice: dare voce a chi vive ogni giorno l’assedio e offrire strumenti concreti di indipendenza e autodeterminazione. Perché anche imparare a raccontarsi, in un luogo dove tutto viene negato, è un atto di cura e di resistenza.
Il Gaza International Festival for Women’s Cinema nasce e cresce dentro una rete internazionale di solidarietà culturale, che continua ad allargarsi come una costellazione viva. Tra i partner ci sono il Ministero della Cultura Palestinese, l’European Women’s Audiovisual Network, il Leeds Palestinian Film Festival, l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico (AAMOD), Nazra – Palestine Short Film Festival, la Casa Internazionale delle Donne, il Festival di Cinema delle Donne di Firenze, l’Associazione Cultura è Libertà, la Resistance Culture Foundation di Yara Lee, l’EICTV di Cuba, e molte altre strutture e realtà. Una rete che dimostra come la solidarietà possa diventare infrastruttura culturale, e come la cultura possa ancora tenere insieme ciò che la violenza tenta di distruggere.
Perché continuare a parlare di Gaza e del Festival in tutte le sedi?
Perché un festival che nasce nel cuore del genocidio ci costringe a guardarci dentro. Ci ricorda che il cinema è relazione di responsabilità, e che ogni relazione, quando si muove in un contesto di occupazione, apartheid e crimini contro l’umanità, porta con sé una domanda inevitabile: da che parte stiamo?
Non possiamo più continuare come se nulla fosse. Non basta dichiarare solidarietà: bisogna riallineare le scelte, decidere come pubblico cosa accettare e cosa rifiutare, e come operatori della cultura con chi collaborare e dove investire risorse.
Il Gaza International Festival for Women’s Cinema offre una direzione, una traccia operativa: costruire ponti concreti di collaborazione, aprire una corsia preferenziale per Gaza, per la Palestina, per chi continua a creare dentro l’assedio.
Le immagini e l’arte, da sole, non cambiano il mondo, ma cambiano ciò che il mondo è disposto a vedere. E quando centinaia di professioniste e professionisti scelgono la coerenza, la cultura smette di coprire l’ingiustizia e torna a fare il suo mestiere: dire la verità con la forma dell’arte e del cinema.
Questo è il patto che il Gaza International Festival for Women’s Cinema ci propone: non distogliere lo sguardo.
Prendiamoci allora questo impegno: scrivere, produrre, condividere storie che continuino ad aprire varchi nell’assedio più difficile da spezzare, quello dell’assuefazione e dell’indifferenza. Perché il cinema, quando smette di essere una cornice decorativa e passiva, torna a essere un campo di responsabilità e di lotta culturale.
* Montatrice, Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico.
