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Categoria: Saggi
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Donatello Santarone *

                                              

Se vuoi godere dell’arte, devi essere un uomo artisticamente educato.

Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844.

Le poesie perdono molto, a stamparle strette e inzeppate.

Karl Marx a Joseph Weydemeyer, 16 gennaio 1852

 

 Leggere Marx è come leggere un classico

Leggere Marx è concedersi, anzitutto, un “alto godimento dello spirito”. Perché è come leggere un classico del pensiero e dell’arte mondiali, è come avventurarsi nei canti di Dante, nei primi piani di Masaccio, nelle analisi storiche di Machiavelli, nei ragionamenti di Bacone, nelle fughe di Bach: geroglifici umani e storici altrettanto complessi di quelli che Marx tenta di svelarci parlando della natura misteriosa delle merci, del carattere enigmatico, imprevedibile e mutevole del capitale.

Nella discesa all’inferno del capitalismo Marx, a differenza di Dante, che avrà Virgilio, Beatrice e San Bernardo come guide preziose, non ha nessun trio privilegiato, a parte il suo grande amico e sodale Friedrich Engels, ma una moltitudine di scrittori, politici, storici, filosofi, economisti, operai, sarti, orologiai, falegnami e militanti del nascente movimento operaio che saranno le sue guide spirituali e scientifiche in quell’opera, Il capitale, che consiste nello svelamento dei meccanismi profondi, strutturali – quindi al di là delle singole determinazioni e forme relative a epoche tecnologiche e scientifiche diverse – che presiedono al funzionamento del capitale nei suoi processi di autovalorizzazione, di sfruttamento della forza-lavoro, di estrazione di plusvalore, di espropriazione e di privatizzazione della natura, del sapere e dell’essere umano. Un’opera titanica al pari di quella di Prometeo, “il più grande santo e martire del calendario filosofico”[1], secondo le parole di Marx che lo considerava uno dei suoi personaggi preferiti per la capacità di sfidare gli dei e restituire agli uomini il sapere e l’autocoscienza umana. Un’opera-mondo[2], Il capitale, paragonabile alla Divina Commedia, della quale Marx era un entusiasta ammiratore, che leggeva in italiano, e il cui autore, Dante Alighieri, metteva al primo posto tra i poeti di ogni tempo[3], il “poeta prediletto” che aveva assunto a modello di esule costretto a fuggire da Firenze per motivi politici come Marx era stato costretto a fuggire da tutte le capitali europee per rifugiarsi a Londra.

“Marx - scrisse Franz Mehring nella sua storica biografia del 1919 sul filosofo tedesco - trovava ristoro e sollievo nella letteratura, che per tutta la vita ha servito efficacemente a confortarlo. […] Come il suo capolavoro scientifico rispecchia tutta un’epoca, così anche i suoi autori preferiti erano quei grandi poeti mondiali delle cui creazioni si può dire la stessa cosa: da Eschilo e Omero fino a Dante, Shakespeare, Cervantes e Goethe. Come racconta Lafargue, ogni anno leggeva Eschilo nel testo originale; restò sempre fedele ai suoi antichi greci e avrebbe voluto cacciare dal tempio con la verga quelle meschine anime di mercanti che avrebbero voluto togliere agli operai l’interesse per la cultura antica.”[4]

 

Umanesimo socialista

Queste ultime parole di Mehring sono la migliore spiegazione di quell’umanesimo socialista di cui parla il titolo di questo saggio secondo la prospettiva di György Lukács.

“L’humanitas, – scrive Lukács – cioè l’appassionato studio della sostanza umana dell’uomo, rientra nell’essenza di ogni letteratura e di ogni arte vera; né basta, perché siano chiamate umanistiche, che esse studino con passione l’uomo, […] ma esse debbono contemporaneamente difendere l’integrità dell’uomo contro tutte le tendenze che la intaccano, la umiliano, la deformano.”[5].

Umanesimo socialista, quindi, non solo e non tanto per distinguerlo dall’umanesimo integrale del filosofo cattolico Jacques Maritain, ma per differenziarlo dal classico umanesimo europeo quattro-cinquecentesco, il quale da una parte ebbe un carattere radicalmente innovativo in tutti i campi del sapere umano rispetto alla tradizione medievale nella sua apertura verso nuovi orizzonti culturali fondati sulla moderna metodologia scientifica e storico-critica che porterà - attraverso Galilei, Bacone, Kant e l’Illuminismo, Hegel - proprio a Marx; dall’altra parte, resta fondamentalmente, come ben vide Antonio Gramsci, un patrimonio appannaggio dei ceti colti, delle classi dirigenti staccate dal popolo e quasi sempre indifferenti a connettere le classi subalterne con i più avanzati orientamenti del pensiero moderno. Marx, al contrario, si scagliava, per usare ancora le parole di Mehring, contro chi voleva “togliere agli operai l’interesse per la cultura antica”. Egli sosteneva che il proletariato doveva essere l’erede della cultura classica e che senza l’assunzione, seppur critica e selettiva, di questa tradizione il socialismo sarebbe stato povero, privo di sviluppo e incapace di dar conto della storia universale.

“D’altra parte, - ricorda ancora Lukács – se la concezione materialistica della storia afferma che la vera e definitiva emancipazione dell’umanità dagli effetti deformanti della divisione della società in classi può aver luogo soltanto col socialismo, ciò non implica per nulla una contrapposizione rigida, antidialettica, schematica, per cui si ripudi sommariamente la cultura delle società classiste e si resti indifferenti di fronte alle diverse realizzazioni di esse e alla loro azione culturale ed artistica”.[6]

L’uomo onnilaterale

Questa aspirazione di Marx non era una posizione idealistica, non era un retorico auspicio un po’ filantropico e liberale. Marx sapeva che l’impedimento fondamentale per i lavoratori nell’accesso alla cultura risiedeva - e risiede - nei rapporti capitalistici di produzione che determinano l’esclusione di milioni di esseri umani sfruttati, alienati, mercificati.

“Se vuoi godere dell’arte – scrive nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 – devi essere un uomo artisticamente educato. […]

“La musica risveglia il senso musicale dell’uomo; […] la più bella musica non ha per un orecchio non musicale nessun senso. […] Il senso, prigioniero dei bisogni pratici primordiali, ha soltanto un senso limitato. […] L’uomo in preda alle preoccupazioni e al bisogno non ha sensi per il più bello tra gli spettacoli; il trafficante in minerali vede soltanto il valore commerciale, ma non la bellezza e la natura caratteristica del minerale; non ha alcun senso mineralogico.[7]

Il suo ideale di "sviluppo integrale", il suo "bisogno di universalità", la sua determinazione ad elevare la cultura dei lavoratori anche attraverso il godimento della grande letteratura del presente e del passato, sono altrettante indicazioni per arrivare a quella figura di umanesimo socialista che è - come spesso hanno ricordato, nel corso del Novecento, storici dell’educazione come Mario Alighiero Manacorda o poeti e saggisti come Franco Fortini[8] - quella dell'"uomo onnilaterale", cioè capace di una ricca, umana e versatile disponibilità verso le più diverse attività intellettuali e manuali.

“Meraviglia il fatto che Marx – ha scritto lo scrittore e critico venezuelano Ludovico Silva, autore di un pioneristico lavoro sullo stile letterario del filosofo tedesco – realizzasse in se stesso, nella sua personalità scientifica, ciò che considerava come condizione basilare del processo di disalienazione: il superamento della divisione del lavoro. Non era né economista, né sociologo, né filosofo, né letterato, né politico puro: era uno scienziato completo della realtà sociale, che non troverebbe posto preciso in nessuna delle “sezioni specializzate” delle università odierne, come del resto non lo trovò in quelle tedesche del suo tempo, piene di accademici “petulanti e ingrugniti” che consideravano, dice lui umoristicamente, la dialettica “come il flagello della borghesia”[9].

Come scrisse Moses Hess a Berthold Auerbach in una lettera del 1841, quando Marx aveva appena ventitré anni,

“Immagina Rousseau, Voltaire, Holbach, Lessing, Heine e Hegel uniti in una sola persona (e dico uniti, non messi assieme alla rinfusa), e avrai Karl Marx”.[10]

“Tempo per un’educazione da esseri umani”

La tensione classica verso il pieno sviluppo della persona umana, presente in Goethe e Schiller, si scontra con la società classista del capitale nella quale la divisione del lavoro e lo sfruttamento impediscono alla grande maggioranza degli uomini e delle donne di realizzare concretamente lo sviluppo onnilaterale della persona. Per questo Marx si applica allo studio dell’economia classica e alla critica della sua presunta naturalità ed eternità. “Tutta questa merda”, scriverà ad Engels a proposito dell’economia politica[11]. Egli comprende lucidamente che solo il superamento del regime della proprietà privata borghese, che determina la miseria materiale e spirituale dei lavoratori, potrà consentire a questi ultimi di riappropriarsi della grande tradizione classica mondiale. La lotta per la riduzione dell'orario di lavoro doveva servire proprio a questo, a restituire ai produttori associati tempo e mente per fruire dei più alti prodotti dello spirito. 

Sappiamo quanto per Marx abbia contato, nella sua attività instancabile di organizzatore del nascente movimento operaio internazionale, l’attività pedagogica rivolta ai lavoratori per far sì che si sedimentasse una coscienza di classe colta e matura, fondata cioè sullo studio e sulla conoscenza storico-scientifica delle vicende del secolo. Wilhelm Liebknecht (1826-1900), uno dei fondatori della socialdemocrazia tedesca e della Seconda Internazionale, padre del comunista Karl Liebknecht (1871-1919) assassinato insieme a Rosa Luxemburg, esule a Londra nel 1850 dove partecipò alle attività della Lega dei comunisti e dove conobbe Marx che frequentò assiduamente fino al 1862, ci ha lasciato un ricordo vibrante del suo maestro proprio sul tema dello studio:

“A quell’epoca era stata costruita la magnifica sala di lettura del British Museum, con i suoi inesauribili tesori bibliografici. Marx, che vi si recava ogni giorno, ci spingeva a frequentarla. Studiare, studiare! Questo era l’imperativo categorico che spesso ci gridava con voce squillante. […] Mentre gli altri esuli architettavano piani per sovvertire il mondo […] noi […] eravamo chiusi nel British Museum a cercare di approfondire la nostra preparazione e di approntare armi e munizioni per le lotte future.”[12]

Le vibranti pagine del Capitale dedicate all’infimo livello dell’istruzione rivolta agli operai dalla nascente industria inglese testimoniano della sensibilità e dell’importanza che Marx attribuiva alla cultura e all’educazione. Così come, vogliamo ripeterlo, la battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro era per lui lo strumento politico per conquistare spazi di tempo liberato dalla mercificazione capitalistica, spazi necessari per guadagnare una più autentica umanità contro l’istinto vitale del capitale che, come un vampiro, succhia lavoro vivo per creare plusvalore.

“Tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per il libero gioco delle energie vitali fisiche e mentali, perfino il tempo festivo domenicale [..]: fronzoli puri e semplici! […] Il capitale, nel suo smisurato e cieco impulso, nella sua voracità da lupo mannaro […] usurpa il tempo necessario per la crescita, lo sviluppo e la sana conservazione del corpo. Ruba il tempo che è indispensabile per consumare aria libera e luce solare”.[13]

Il capitale, sostiene Marx, è un ladro di tempo che mortifica “lo sviluppo intellettuale” e impedisce, come scrive nei Grundrisse, “la partecipazione dell’operaio a godimenti più elevati, anche spirituali, come l’agitazione per i propri interessi, l’avere i propri giornali, l’ascoltar conferenze, l’educare i figli, lo sviluppare il gusto ecc.”[14].

“Marx – ha scritto il filosofo ungherese, allievo di Lukács, István Mészáros – fu il primo a far scattare l’allarme sull’alienazione artistica nella sua efficace analisi delle condizioni che opprimono l’artista. […] Altri prima di lui – specialmente Schiller ed Hegel – avevano già discusso l’opposizione esistente tra il “razionalismo” della società capitalistica e le esigenze dell’arte. Tuttavia Schiller voleva eliminare gli effetti negativi di questa opposizione per mezzo di una “educazione estetica dell’umanità”, intesa come semplice richiamo educativo limitato alla coscienza degli individui, ed Hegel, pur evitando le illusioni di Schiller, accettava questa tendenza come necessariamente inerente allo sviluppo del “Weltgeist” (spirito del mondo).

Marx sollevò il problema in modo qualitativamente diverso. Egli rappresentò questa tendenza antiartistica come una accusa al capitalismo, suggerendo dei provvedimenti – una trasformazione radicale della società – per mezzo dei quali essa può essere arrestata. Le considerazioni estetiche occupano un posto molto importante nella teoria di Marx [corsivo nostro, n.d.r.]. Esse sono così strettamente intrecciate con gli altri aspetti del suo pensiero che è impossibile capire adeguatamente persino la sua concezione economica senza afferrarne le connessioni estetiche. Questo può suonare strano agli orecchi accordati sulla chiave dell’utilitarismo. […]

E’ inutile dire che proprio come è impossibile apprezzare il pensiero economico di Marx e ignorare la sua visione dell’arte, è ugualmente impossibile afferrare il significato delle sue espressioni in materia estetica senza tener costantemente presenti le interconnessioni economiche. Ma esse sono interconnessioni e non determinazioni meccanicistiche unilaterali.”[15]

Il capitale ha una visione mercantile dei rapporti umani e per questo è nemico dell’arte e della letteratura, da esso considerate cose inutili e superflue, a meno che non diventino occasioni di profitto.

“Per esempio – scrive Marx nelle Teorie sul plusvalore – il Milton, che scrisse il “Paradiso perduto” per cinque sterline […], fu un lavoratore improduttivo. Invece lo scrittore che fornisce lavori dozzinali al suo editore è un lavoratore produttivo. Il Milton produsse il “Paradiso perduto” […] per lo stesso motivo per cui un baco da seta produce seta. Era una manifestazione della sua natura. Egli vendette successivamente il prodotto per cinque sterline. Ma il proletario letterario di Lipsia, che fabbrica libri (per esempio compendi di economia politica) sotto la direzione del suo editore, è un lavoratore produttivo; poiché fin dal principio il suo prodotto è sussunto sotto il capitale, e viene alla luce soltanto per la valorizzazione di questo.”[16]

Il baco da seta

In questo brano è presente il riferimento al baco da seta il quale produce seta non per profitto ma perché è nella sua natura. Lo stesso riferimento lo ritroviamo in un’opera divulgativa di Marx, Lavoro salariato e capitale, apparsa nel 1849 nella “Nuova Gazzetta Renana”, in cui Marx paragona, con un’immagine molto efficace, il lavoro salariato degli operai a quello del baco da seta se questo, invece di produrre naturalmente, producesse per la propria sussistenza.

“Il lavoro è però l’attività vitale propria dell’operaio, è la manifestazione della sua propria vita. Ed egli vende ad un terzo questa attività vitale per assicurarsi i mezzi di sussistenza necessari. La sua attività vitale è dunque per lui soltanto un mezzo per poter vivere. Egli lavora per vivere. Egli non calcola il lavoro come parte della sua vita: esso è piuttosto un sacrificio della sua vita. Esso è una merce che egli ha aggiudicato a un terzo. Perciò anche il prodotto della sua attività non è lo scopo della sua attività. Ciò che egli produce per sé non è la seta che egli tesse, non è l’oro che egli estrae dalla miniera, non è il palazzo che egli costruisce. Ciò che egli produce per sé è il salario; e seta, e oro, e palazzo si risolvono per lui in una determinata quantità di mezzi di sussistenza, forse in una giacca di cotone, in una moneta di rame e in un tugurio. E l’operaio che per dodici ore tesse, fila, tornisce, trapana, costruisce, scava, spacca le pietre, le trasporta, ecc., considera egli forse questo tessere, filare, trapanare, tornire, costruire, scavare, spaccar pietre per dodici ore come manifestazione della sua vita, come vita? Al contrario. La vita incomincia per lui dal momento in cui cessa questa attività, a tavola, al banco dell’osteria, nel letto. Il significato delle dodici ore di lavoro non sta per lui nel tessere, filare, trapanare, ecc., ma soltanto nel guadagnare ciò che gli permette di andare a tavola, al banco dell’osteria, a letto. Se il baco da seta dovesse tessere per campare la sua esistenza come bruco, sarebbe un perfetto salariato.”[17].

Dal punto di vista letterario questa pagina è un esempio di quello che potremmo definire lo “stile dialettico” di Marx, una sintassi tesa e stringente tutta costruita su parallelismi, riprese lessicali, enumerazioni, scansioni paratattiche fortemente assertive, inversioni. Una sorvegliatissima retorica che si risolve nel fulminante paragone finale tra l’operaio e il baco da seta.

Commentando questo brano, l’illustre germanista Siegbert Salomon Prawer, così scrive:

“L’immagine del baco da seta porta con sé, per il lettore tedesco colto, un ricordo che conferisce ulteriore forza all’argomentazione di Marx: la descrizione, che fa l’eponimo protagonista del Torquato Tasso di Goethe, del modo di vivere del vero poeta, di colui che lavora non soltanto per sfamarsi.”[18].

Riportiamo le parole di Tasso dal dramma di Goethe, parole che sono in risposta a quelle del duca Alfonso d’Este di Ferrara, protettore del poeta ma insieme preoccupato per le sue intemperanze e le sue manie persecutorie.

“ALFONSO. Le tue azioni e i tuoi pensieri non fanno

che chiuderti in te stesso. Attorno a noi

il destino scava molti abissi,

ma il più profondo si apre qui,

nel nostro cuore e ci attira.

Ti prego: liberati da te stesso.

L’uomo guadagnerà quel che il poeta perde.

TASSO. Invano freno quest’impeto

che giorno e notte agita il mio petto.

La vita non è più vita

se non posso meditare e scrivere.

Non puoi vietare al baco da seta di filare

il filo che lo conduce a morte.

Dal suo intimo ordisce

la preziosa tela e non l’abbandona  

finché non si è chiuso dentro la sua bara.

Ci permettesse un dio benigno

la sorte invidiabile del bruco:

aprire in una nuova valle di sole

le ali veloci e felici.”[19]      

“L’immagine del baco da seta – scrive Eugenio Bernardi – fa parte dell’emblematica rinascimentale. Qui essa si ricollega alla concezione della poesia come rinascita. Goethe conosceva la coltivazione dei bachi da seta fin dall’infanzia perché se ne dilettava il padre.”[20]

Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 così Marx si esprime a proposito della nuova scienza borghese, l’economia politica, che proprio in quegli anni cominciava a divenire il centro dei suoi interessi:

“La rinuncia a se stessi, la rinuncia alla vita e a tutti i bisogni umani, è il suo dogma principale. Quanto meno mangi, bevi, compri libri, vai a teatro, al ballo e all’osteria, quanto meno pensi, ami, fai teorie, canti, dipingi, verseggi, ecc. tanto più risparmi, tanto più grande diventa il tuo tesoro, che né i tarli né la polvere possono consumare, il tuo capitale. Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai; quanto più grande è la tua vita alienata, tanto più accumuli del tuo essere estraniato. Tutto ciò che l’economista ti porta via di vita e di umanità, te lo restituisce in denaro e ricchezza.”[21]

In questo furto di vita il capitale non ti consente di avvicinare i capolavori delle letterature del mondo, le quali, sostiene il filosofo tedesco, rappresentano spazi di libertà, aspirazione ad un futuro liberato dal bisogno, figure che anticipano un mondo diverso da quello tutto e solo utilitarista del capitale. Naturalmente egli era ben conscio che la letteratura era anche il frutto di privilegi di classe e di potere. Sapeva bene che la letteratura era espressione di determinate ideologie a loro volta espressione dialettica di altrettanto determinate formazioni economico-sociali, in un “rapporto ineguale – e si rifletta bene su questa importantissima frase di Marx così chiaramente antideterministica - dello sviluppo della produzione materiale con […] quella artistica”.[22] Ma sapeva anche che la grande letteratura era capace di dire la verità, di mettere a nudo le contraddizioni sociali e individuali, di essere cioè espressione compiuta di un’intera epoca storica.

“Era un lettore vorace – ha scritto il geografo marxista David Harvey - della letteratura classica – Shakespeare, Cervantes, Goethe, Balzac, Dante, Shelley e così via. Non solo arricchiva la sua scrittura (in particolare nel Libro I del Capitale, che è un capolavoro letterario [corsivo nostro, n.d.r.]) con moltissimi riferimenti al loro pensiero, ma apprezzava veramente le loro intuizioni sul funzionamento del mondo e traeva molta ispirazione dal loro metodo di presentazione.”[23]

 

Goethe e Shakespeare nei Manoscritti del ‘44

Ma proviamo ad entrare più da vicino nel laboratorio letterario di Marx, partendo proprio dai Manoscritti economico-filosofici del 1844, una serie di quaderni di annotazioni e riflessioni non destinati alla pubblicazione che il giovane ventiseienne scrisse a Parigi in uno dei periodi più belli della sua vita.

Nel capitolo dedicato al denaro, che nei Grundrisse viene definito “il Dio tra le merci”[24], Marx si serve di due tra i suo autori più amati, Shakespeare e Goethe, per spiegare la natura onnipotente del denaro. Addirittura in questo brano egli si cimenta in un commento dei brani riportati a dimostrazione di quanta importanza attribuisse alle parole dei due grandi scrittori. Ancora una volta abbiamo la conferma della profonda sensibilità di Marx verso la letteratura da lui considerata un mezzo espressivo capace di scandagliare in profondità i rapporti umani e storici e di dire cose che molto spesso l’ipocrita ideologia dominante occulta e mistifica. La letteratura, insomma, come potente strumento di conoscenza della realtà e come modello di eloquenza e stile.

“Il denaro, - scrive il giovane Marx - possedendo la caratteristica di comprar tutto, di appropriarsi di tutti gli oggetti, è dunque l'oggetto in senso eminente. L'universalità di questa sua caratteristica costituisce l'onnipotenza del suo essere; è tenuto per ciò come l'essere onnipotente... il denaro fa da mezzano tra il bisogno e l'oggetto, tra la vita e i mezzi di sussistenza dell'uomo. Ma ciò che media a me la mia vita, mi media pure l'esistenza degli altri uomini per me. Questo è per me l'altro uomo.

“Diamine, mani e piedi, è chiaro,

testa e didietro sono tuoi

ma tutto quello che mi godo

forse è per questo meno mio?

Se io mi pago sei stalloni

Non sono mie le loro forze?

Corro, eccomi un vero uomo, come

Ventiquattro ne avessi, di gambe.”

(Goethe, Faust, Mefistofele)[25]

Shakespeare nel Timone di Atene:          

“Oro? Giallo, splendente, prezioso oro?

No, dèi, non infrango il mio voto.

Datemi radici, chiari cieli!

Tanto di questo renderà bianco

il nero; bello il brutto; giusto

l’ingiusto; nobile il vile; giovane

il vecchio; coraggioso il codardo...

Questo strapperà sacerdoti e servi

dal vostro fianco, ucciderà coi cuscini[26]

uomini vigorosi. Questo giallo verme

unirà e sfalderà religioni, benedirà

i maledetti, farà adorare la lebbra

canuta, premierà i ladri con titoli,

riverenze e lodi e con gli scanni

dei senatori. Questo è ciò

che fa rimaritare la vedova stantia:

davanti a lei vomiterebbero

l'ospedale e le piaghe ulcerose, ma costui

la imbalsama e profuma e di nuovo la dona

al giorno d'aprile. Vieni, pezzo di terra

dannata, tu puttana dell'umanità

che getti discordia tra la feccia delle nazioni...”.


E più oltre:

“ [Guardando l’oro] O tu, dolce regicida, e amato

Strumento di divorzio tra il figlio e il padre,

tu luminoso corruttore del letto

purissimo di Imene[27], tu Marte[28]

valoroso, tu corteggiatore eternamente

giovane, fresco, amato e delicato,

il cui rossore scioglie la neve consacrata

che giace nel grembo di Diana[29]! Tu,

dio visibile che fissi insieme

le cose inconciliabili e le fai baciare;

che parli con ogni lingua ad ogni

fine! Tu, pietra di paragone

dei cuori, pensa che l'Uomo tuo schiavo

si ribella e con il tuo potere gettalo

nel caos della discordia sì che le bestie

abbiano l'impero del mondo!”.[30]

Shakespeare descrive l'essenza del denaro in modo veramente incisivo. Per comprenderlo, cominciamo dall'interpretazione del passo di Goethe.

Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso, il possessore del denaro medesimo, Quanto grande è il potere del denaro, tanto grande è il mio potere. Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso, non è quindi affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella tra le donne. E quindi io non sono brutto, perché l'effetto della bruttezza, la sua forza repulsiva, è annullata dal denaro. Io, considerato come individuo, sono storpio, ma il denaro mi procura ventiquattro gambe; quindi non sono storpio. Io sono un uomo malvagio, disonesto, senza scrupoli, stupido; ma il denaro è onorato, e quindi anche il suo possessore. Il denaro è il bene supremo, e quindi il suo possessore è buono; il denaro inoltre mi toglie la pena di esser disonesto; e quindi si presume che io sia onesto. Io sono uno stupido, ma il denaro è la vera intelligenza di tutte le cose; e allora come potrebbe essere stupido chi lo possiede? Inoltre costui potrà sempre comperarsi le persone intelligenti, e chi ha potere sulle persone intelligenti, non è più intelligente delle persone intelligenti? Io che col denaro ho la facoltà di procurarmi tutto quello a cui il cuore umano aspira, non possiedo forse tutte le umane facoltà? Forse che il mio denaro non trasforma tutte le mie deficienze nel loro contrario?

E se il denaro è il vincolo che mi unisce alla vita umana, che unisce a me la società, che mi collega con la natura e gli uomini, non è il denaro forse il vincolo di tutti i vincoli? Non può esso sciogliere e stringere ogni vincolo? E quindi non è forse anche il dissolvitore universale? Esso è tanto la vera moneta spicciola quanto il vero cemento, la forza galvano-chimica della società.

Shakespeare rileva nel denaro soprattutto due caratteristiche:

2) è la meretrice universale[31] la mezzana universale degli uomini e dei popoli.

La confusione e il rovesciamento di tutte le qualità umane e naturali, la fusione delle cose impossibili - la forza divina - propria del denaro risiede nella sua essenza in quanto è l'essenza estraniata, che espropria e si aliena, dell'uomo come essere generico. Il denaro è il potere alienato dell'umanità.

Quello che io non posso come uomo, e quindi quello che le mie forze essenziali individuali non possono, lo posso mediante il denaro. Dunque il denaro fa di ognuna di queste forze essenziali qualcosa che esso in sé non è, cioè ne fa il suo contrario.

Quando io ho voglia di mangiare oppure voglio servirmi della diligenza perché non sono abbastanza forte per fare il cammino a piedi, il denaro mi procura tanto il cibo quanto la diligenza, cioè trasforma i miei desideri da entità rappresentate e li traduce dalla loro esistenza pensata, rappresentata, voluta nella loro esistenza sensibile, reale, li traduce dalla rappresentazione nella vita, dall'essere rappresentato nell'essere reale. In quanto è tale mediazione, il denaro è la forza veramente creatrice. […]

Se ho una certa vocazione per lo studio, ma non ho denaro per realizzarla, non ho nessuna vocazione per lo studio, cioè nessuna vocazione efficace, nessuna vocazione vera. Al contrario, se io non ho realmente nessuna vocazione per lo studio, ma ho la volontà e il denaro, ho una vocazione efficace. […]

Il denaro muta la fedeltà in infedeltà, l'amore in odio, l'odio in amore, la virtù in vizio, il vizio in virtù, il servo in padrone, il padrone in servo, la stupidità in intelligenza, l'intelligenza in stupidità.

Poiché il denaro, in quanto è il concetto esistente e in atto del valore, confonde e inverte ogni cosa, è la universale confusione e inversione di tutte le cose, e quindi il mondo rovesciato, la confusione e l'inversione di tutte le qualità naturali ed umane.”[32]

Proviamo a soffermarci sulle citazioni dal Timone di Atene. Si tratta due invettive contro il potere corruttivo dell’oro, cioè del denaro in generale, che il nobile ateniese Timone pronuncia quasi in prossimità della morte in una condizione ormai di povertà e di rovina. Come nota consenziente Marx, il dio denaro per Shakespeare trasforma, confonde, rovescia, fonde: quasi sprigionasse una proprietà alchemica che magicamente riesce a trasformare le persone annichilendo la loro essenza umana e trasformandole in figure ciniche, interessate e ipocrite. E’ quello che sperimenta Timone nella sua infinita generosità che lo porterà alla rovina. Timone è infatti rovinato dal denaro, la cui mancanza lo trascina in modo inesorabile in una condizione animalesca: costretto a vivere in una caverna fuori di Atene e a nutrirsi di radici, egli si disumanizza completamente, si trasforma in un rancoroso misantropo che impreca contro il genere umano. Una generosità che va interpretata “secondo la mentalità del mondo rinascimentale, in cui la munificenza era considerata un distintivo di nobiltà.”[33]

Ma il giovane Marx non fu attratto solo dalle famose citazioni dei Manoscritti. L’intera tragedia di Shakespeare, “nella sua straordinaria asciuttezza unita ad una violenza verbale che non trova riscontro altrove”[34] e così profondamente pessimistica sulla natura umana e attraversata dal tema del movente economico che determina i comportamenti umani, affascinò Marx. “La storia narrata è quella della vendetta di Timone – vendetta non contro i suoi persecutori personali, ma contro una società che ha accettato un mondo di falsi valori, e in primo luogo il denaro, assunto come divinità suprema.”[35] E ancora una volta il ricorso alla grande letteratura mondiale, in questo caso a una tragedia di Shakespeare, ci consente di apprezzare il modo in cui il filosofo tedesco usa la letteratura mettendola in relazione con la storia, la politica, l’economia, la filosofia, facendola parlare al e del presente, e così sottraendola alla naftalina degli specialismi accademici che troppo spesso tutto ibernano e neutralizzano.

A proposito di questo passo del giovanissimo “vecchio Marx”, citato in un’antologia personale “sia per il suo valore critico (e la sua qualità letteraria) che come omaggio alla totalità dell’autore”, così ha scritto Pier Vincenzo Mengaldo, tra i massimi critici letterari e storici della lingua:

“Non escludo che nella mia antica ammirazione per questo pezzo di bravura del vecchio Marx abbia giocato il suo procedimento di dedurre la propria perentoria critica al capitalismo dalla citazione e dal commento di brani significativi dei classici. Ma non credo che questa tattica sia solo un vezzo dell’”umanista” Marx. Presentare delle tesi come prodotte da una mente individuale, sia pure armata di una robustissima teoria critica, non è forse la stessa cosa che presentarle come voce della saggezza eterna dell’umanità, depositata nei suoi grandi poeti. Ho il sospetto che qui si esprima obliquamente la magnifica idea marxiana del “sogno di una cosa”.[36]

“Il sogno di una cosa”, che darà il titolo al primo romanzo di Pier Paolo Pasolini, è la citazione di una lettera di Marx a Ruge del settembre 1843:

“Il nostro motto dev’essere dunque: riforma della coscienza non mediante dogmi, ma mediante l’analisi della coscienza mistica, oscura a se stessa, sia che si presenti in modo religioso sia in modo politico. Apparirà chiaro allora come da tempo il mondo possieda il sogno di una cosa della quale non ha che da possedere la coscienza, per possederla realmente. Apparirà chiaro come non si tratti di tracciare un trattino tra passato e futuro, bensì di realizzare i pensieri del passato [corsivo nostro, n.d.r.]. Si mostrerà infine come l’umanità non incominci un lavoro nuovo, ma porti a compimento consapevolmente il suo vecchio lavoro.”[37]

Ma torniamo a Shakesepare. La figura di Timone incarna l’ideale di un uomo disinteressato, di un uomo che usa il denaro per gli altri, nulla chiedendo in cambio, di un nobile ancora di tipo precapitalistico che consuma soltanto, grazie alle rendite dei suoi possedimenti, senza accumulare capitale. Ma la prodigalità senza riserve del nobile ateniese termina quando questi esaurisce i suoi averi e i cosiddetti “amici” cortigiani, sempre presenti ai luculliani banchetti nella sua villa, gli negano qualsiasi aiuto quando Timone si renderà conto di essere pesantemente indebitato proprio con gli “amici” da lui sempre foraggiati. Solo il filosofo cinico Apemanto ricorda al nobile ateniese che l’adulazione dei suoi cosiddetti “amici” ha solo un movente che è l’interesse economico. Il “cane rognoso” Apemanto sa che i rapporti umani, e tra questi l’amicizia, soccombono inesorabilmente di fronte al denaro.

“Oh, dei! Quanti uomini si mangiano Timone e lui non li vede! Mi dispiace vederne tanti che inzuppano il cibo nel sangue di un solo uomo; e il colmo della pazzia è che è lui che li spinge a farlo. […] L’amico che gli siede accanto, e che ora divide il suo pane con lui, e respira il suo stesso fiato in una bevuta comune, è l’uomo più pronto ad ammazzarlo.”[38]

Ma Timone lo tratta come un “cane” “perché ‘ringhia’ quando critica Timone, ma i cani sanno anche adulare; e lusingano ma sono anche affezionati sul serio ai loro padroni. (‘Cinico’ proviene dal greco Kinikós [canino])”[39] Qui Marx trova, come già accennato, un tema a lui congeniale: è il movente economico, in ultima analisi, che muove i rapporti tra gli uomini e la stessa amicizia. Quel che Shakespeare aveva capito con il “pensiero della poesia” due secoli e mezzo prima, ora Marx lo argomenta con il “pensiero della critica dell’economia politica”.

Le fonti del Timone shakespeariano sono essenzialmente Plutarco e Luciano di Samosata. Si tratta quindi di una lunga tradizione che arriva a Matteo Maria Boiardo (1441-1494) il quale, sulla scorta di un dialogo dello scrittore greco Luciano di Samosata, scrive intorno al 1490 una commedia in terzine intitolata Timone, che però quasi sicuramente né Shakespeare né Marx lessero. Anche perché non può dirsi letterariamente riuscito. Ne vogliamo dare comunque un lacerto in cui Boiardo racconta la progressiva rovina di Timone:

“Non se avedendo prima, come accade,

di abondante divenne bisognoso,

di bisognoso càde in povertade.

Venuto al fin mendico e vergognoso,

vien da color schernito e discaciato

che per lui richi vivono in riposo.

Tutto el tesor, che el patre avea lassato,

pallagi e ville e gran possessione,

donando a questo e a quello, ha consumato;

et è condutto in tal derisione,

che cum la testa e bracie discoperte

se veste una peliza di montone.”[40]

Una digressione: il cinismo di Pascarella e il capitalismo delle piattaforme

Qualche lustro più tardi il poeta romanesco Cesare Pascarella (1858-1940) scriverà una poesia dal titolo ‘Na predica de mamma, un sonetto che è un cinico e disincantato inno al denaro, che esprime una visione pessimistica, cupa, utilitaristica del rapporto tra gli uomini, una prospettiva senza speranza in cui gli unici veri amici sono i soldi. Leggiamone la prima quartina e l’ultima terzina:

L’amichi? Te spalancheno le braccia

Fin che nun hai bisogno e fin che ci hai;

Ma si, Dio scampi, te ritrovi in guai,

Te sbatteno, fio mio, la porta in faccia.

[…]

Che ar monno, a ‘sta Fajola d’assassini,

Lo vòi sapé’ chi so’ l’amichi veri?

Lo vòi sapé’ chi so’? So’ li quatrini.[41]

I primi due versi della poesia sembrano proprio il ritratto degli “amici” di Timone. Si noti, tuttavia, nell’ultima terzina, la rima “assassini/quatrini” che, legando sul piano semantico i due sostantivi, contiene, in contraddizione con la morale dominante del sonetto, la esplicita denuncia del potere criminale del denaro. Ancora una volta, la forza della poesia è nella sua ambiguità, nel suo dire una cosa e nello stesso tempo dirne un’altra, nel suo presentarsi dialetticamente e contraddittoriamente al lettore al quale è affidato il faticoso compito di scandagliare in profondità la preziosa ambiguità del testo letterario che per questo aspetto ha sempre disturbato i sogni di dominio assoluto sulle coscienze dei signori del passato e del presente. I quali, i signori del presente, si manifestano attraverso i cosiddetti social network in maniera suadente e colorata, con un selfie o un emoticon compiaciuti da una parte, e, dall’altra, con l’espropriazione dei tuoi più remoti desideri dei quali si impossessano per interessi commerciali: “maledetto il luccichio delle apparenze/che i nostri sensi abbaglia!”[42], ha scritto Goethe. Il “luccichio” dei nuovi media e di tutta l’industria dello spettacolo e dell’informazione, la “vetrinizzazione” del mondo, ci dicono che

“il capitalismo è divenuto estetico […] nella misura in cui la produzione del valore ricorre massicciamente a “industrie creative”, al lavoro di “classi creative”, a strategie estetiche di distinzione e di modulazione degli affetti.”[43]  

Su questa appropriazione privata dei nostri cosiddetti “profili” da parte delle multinazionali della rete, vogliamo riportare un’altra bellissima immagine dal Faust di Goethe ricordata da Marx:

“Ogni prodotto è un’esca con cui si vuol attrarre a sé ciò che costituisce l’essenza dell’altro, il suo denaro; ogni bisogno reale o soltanto possibile è una debolezza che farà cascare la mosca nella pania [“colla”, traduce Della Volpe] […] Ogni necessità è un’occasione per presentarsi al proprio prossimo sotto le più allettanti spoglie e dirgli: caro amico, io ti do quel che ti è necessario, ma tu conosci la conditio sine qua non, tu sai con quale inchiostro devi scrivere l’impegno che assumi con me; nel momento stesso in cui ti procuro un godimento, ti scortico.”[44]

Nelle ultime due righe di questo passo dei Manoscritti, Marx allude, senza citarlo, a Mefistofele, il diavolo tentatore del capolavoro di Goethe.

“In un’economia fondata sul denaro, ogni uomo recita col suo prossimo il ruolo che Mefistofele svolge con Faust. Le letture di Marx […] arrivano a una simbiosi con i suoi interessi socio-politici in questi brani letterari e drammatici.”[45]

Ancora Shakespeare e il Timone d’Atene

Questi continui richiami espliciti o impliciti alle più diverse opere del passato e del presente ci invitano a leggere e rileggere tali opere e a interrogarci continuamente sul perché Marx estragga da un testo questa o quella fulminante citazione. E per tornare al nostro Timone shakespeariano, risulta oramai evidente che l’interesse del filosofo tedesco – come abbiamo già detto - va al di là delle singole citazioni riportate nei Manoscritti, le quali in realtà, come spesso accade in tanti altri suoi scritti, da una parte servono a sostenere e arricchire letterariamente un ragionamento, ma, dall’altra, sono spie stilistiche che ci segnalano l’interesse dell’autore verso l’intera opera presa di volta in volta in considerazione. Nel Timone d’Atene è presente, ad esempio, il tema dell’arte asservita al potere nelle figure del poeta e del pittore sorpresi da Timone, che li ascolta senza farsi scorgere, nel loro dialogo adulatorio, ipocrita, interessato solo al denaro. Anche in questa parte finale della tragedia, Timone pronuncia un’invettiva contro l’oro:

“Ma che razza di dio è l’oro,

se viene adorato in un tempio più vile

del truogolo dei porci? Sei tu

che armi la nave e solchi la schiuma,

che spingi lo schiavo all’ammirata riverenza.

Sii adorato: e i tuoi santi che obbediscono

soltanto a te siano per sempre

incoronati di piaghe!”[46]

La brama di oro, cioè di ricchezza, di materie prime, di nuove terre da espropriare con la violenza spinge i velieri - scrive Shakespeare - per i mari e annichilisce gli schiavi. Naturalmente il testo si riferisce al mondo antico in cui dominava un’economia servile e dove già erano presenti – si pensi all’Eurasia – forme di interdipendenza economica alquanto sviluppate. Ma come non vedere in filigrana una chiara allusione – non sappiamo quanto voluta - del drammaturgo inglese alle guerre di conquista dell’Inghilterra che con la sua potente marina proprio in quei decenni spadroneggiava sui mari del mondo e si preparava a costruire il più vasto impero della storia umana, esteso da oriente a occidente?

In tutto questo accanimento contro l’”oro” c’è chi – ricorda Antonio Meo – ha “voluto vedere nel Timone anche un attacco all’usura, un quadro del caos sociale derivante dalla rovina economica della nobiltà caduta nelle mani degli usurai.”[47]

Anche l’illustre anglista Giorgio Melchiori sottolinea questa componente economica dell’opera shakespeariana ricordando che quella di Timone non è solo un’invettiva contro tutto il genere umano in assoluto, ma una condanna contro

“gli ateniesi suoi contemporanei proprio perché hanno rinunciato ad essere uomini lasciandosi governare esclusivamente dal potere dell’oro. E’ questo il pericolo che Shakespeare vede, o meglio intuisce, come incombente per i suoi contemporanei, negli anni in cui nasce il capitalismo moderno. Si intende come, più di due secoli dopo, Karl Marx potesse definire la formidabile invettiva di Timone alla scoperta dell’oro in IV III come la migliore definizione della natura del denaro: visibile divinità, trasformazione di tutte le qualità umane e naturali nel loro contrario, confusione e perversione universale di tutte le cose, conciliatore delle impossibilità, e insieme prostituta universale, universale mezzana di uomini e di popoli.”[48]

Sulla stessa prospettiva si muove l’analisi di un altro insigne anglista, Agostino Lombardo:

“La realtà che prende qui forma scenica è una realtà negativa, un deserto dell’anima e del cuore dove solo domina, immobile e inattaccabile mostro, il dio dell’oro. […] La grande intuizione di Shakespeare nel Timone d’Atene […] consiste […] nell’aver espresso lo sgomento di fronte ad un’Inghilterra dominata dall’economia del profitto attraverso la metafora di una Atene che ha perso i caratteri del mito per assumere quelli di un immobile, moderno inferno. […] Nel mondo nuovo […] le utopie si disgregano, e dopo il banchetto Atene mostra il suo vero volto: non l’amicizia vi regna ma l’inganno, non lo scambio ma l’usura, non i valori ideali ma l’interesse materiale (“L’interesse sta al di sopra della coscienza”, dice uno Straniero [III, II]), l’oro ormai precisamente quantificato in moneta. […] L’attualità dell’opera, scrive Peter Brook, che è stato tra i pochi a metterla in scena, sta anche nel suo ‘trattare di denaro e di inflazione’”.[49]

Lo stile di Marx

L'altissima considerazione che il Moro[50] aveva nei confronti dei grandi classici della letteratura mondiale traspare in moltissimi luoghi della sua produzione. Le opere dei suoi scrittori prediletti si depositano nelle sue pagine e gli offrono tipi, rappresentazioni, analogie, metafore, luoghi, linguaggi che entrano in maniera organica nelle sue analisi economiche, storiche, politiche, filosofiche.

“Egli – scrive Paul Lafargue nei suoi ricordi del 1890 - sapeva a memoria Heine e Goethe che citava spesso discorrendo; leggeva sempre opere di poeti che sceglieva da tutte le letterature d’Europa; ogni anno rileggeva Eschilo nel testo originale greco; venerava lui e Shakespeare come i due massimi geni drammatici che l’umanità avesse prodotto. Aveva fatto di Shakespeare, per cui aveva una illimitata venerazione, l’oggetto del più intenso studio; ne conosceva anche i personaggi più insignificanti. Tutta la famiglia nutriva un vero culto per il grande drammaturgo inglese: le sue tre figlie lo sapevano a memoria. Quando dopo il 1848 volle perfezionarsi nella lingua inglese, che già prima sapeva leggere, cercò e ordinò tutte le espressioni caratteristiche di Shakespeare. […]

         Talvolta si sdraiava sul divano e leggeva un romanzo; talvolta ne leggeva due o tre contemporaneamente, alternando la lettura; anche lui, come Darwin, era un gran lettore di romanzi. […] Al primo posto fra tutti i romanzieri poneva Cervantes e Balzac. Don Chisciotte era per lui l’epopea della cavalleria morente, le cui virtù diventavano ridicole e pazzesche nel mondo borghese nascente. La sua ammirazione per Balzac era così profonda che si era proposto di scrivere una critica della sua grande opera, La Comédie Humaine, appena avesse terminato la propria opera di economia.”[51]

Marx riponeva una maniacale attenzione nei problemi dello stile e della lingua, era intransigente nei riguardi della sciattezza espositiva, considerava importante la maniera che abbiamo di leggere i classici.

Un tratto fondamentale dello stile di Marx – ha scritto Ludovico Silva -”enunciato alla sua maniera […] si profila come una dialettica dell’espressione o […] come un’espressione della dialettica. […]”. Marx “materializza la dialettica in uno stile letterario che costituisce l’espressione più perfetta del movimento logico-storico di cui è fatta la dialettica.”[52]

Ludovico Silva ricorda poi, citando ad esempio i Manoscritti del ’44, quanta importanza avesse per Marx, proprio sul piano stilistico, questo procedimento dialettico costruito attraverso opposizioni concettuali che riflettono quelle sintattiche.

“Se […] l’alienazione è una specie di separazione del proprio io, uno sdoppiamento, come esprimerla stilisticamente se non mediante lo sdoppiamento delle frasi, in complessi di opposti lineari?”

E parlando poi del ricco apparato metaforico e più in generale linguistico di Marx, così prosegue il critico venezuelano:

“Non si tratta, in definitiva, di uno stile che si limiti a “designare” fenomeni, ma di uno stile che, inoltre, li rappresenta, li attua, come se le parole si convertissero d’improvviso in attori su un palcoscenico. In questo senso, il linguaggio di Marx è il teatro della sua dialettica.”

Le metafore, in particolare, secondo l’autore

“non svolgono un ruolo puramente letterario o ornamentale: prescindendo dal loro valore estetico, esse acquistano in Marx un valore conoscitivo, come sostegno espressivo della scienza”.[53]

Dimensione letteraria e dimensione argomentativa

Va ribadito, se ce ne fosse ancora bisogno, che la dimensione letteraria in Marx non è in alternativa alla dimensione argomentativa della sua prosa scientifica. Tutta la sua scrittura è attraversata da una forte compenetrazione del letterario e dell’extra letterario, del verso e del numero, dello scavo poetico e di quello economico. Non è pertanto condivisibile l’opinione di quanti, come Gabriele Pedullà, richiamandosi alle testimonianze della figlia Eleanor, del genero Paul Lafargue e del compagno di lotta e collaboratore del Moro, Wilhelm Liebknecht, sostengono che in queste testimonianze “il poliglotta appassionato di poesia ha la meglio sull’algido castigatore dell’economia politica borghese.”[54] Se per “algido” si intende la freddezza distaccata del borghese, il presunto oggettivismo dello specialista, la boriosa altezzosità dell’accademico, ebbene nella prosa di Marx non è presente alcuno di questi tratti, la prosa di Marx non è mai “algida”. Al contrario, essa è sempre attraversata da un profondo sdegno verso le condizioni indegne di vita e di lavoro a cui il capitale costringe gli esseri umani. Quella tra passione poetica e freddezza economica è pertanto una contrapposizione artificiale, come quella, così nefasta per i suoi dogmatici effetti, tra “struttura” e “sovrastruttura”, una contrapposizione che forza la totalità dialettica della scrittura e del pensiero di Marx, il quale è riuscito invece – rarissimo esempio per chi si occupa di economia politica - a restituire l’umanità profonda, la sofferenza, l’irriducibilità del singolo lavoratore, esponendo la sua teoria critica del capitale.

Appare invece più convincente la riflessione svolta dallo stesso Pedullà sulle tracce presenti in ogni opera letteraria del movente economico così ben rilevato da Marx:

“Sfruttare i massimi capolavori della letteratura occidentale come fonti per un’indagine di natura spesso estremamente tecnica significa mostrare come il dato economico possa essere invisibile ma si annidi anche nei processi più impensati. Persino le opere più alte della tradizione europea parlano di lavoro, sfruttamento e arricchimento perché il potere condizionante della struttura non lascia mai la sua presa e imprime il suo marchio dove meno ce lo aspetteremmo. E’ quello che succede quando Marx cita (in greco!) Omero o Archiloco a proposito del valore d’uso e del valore di scambio (o, per meglio dire, come prova della poca attenzione degli antichi al secondo) o il vecchio usuraio Gobseck (dal romanzo omonimo di Balzac) a proposito dell’insensatezza di tesaurizzare delle merci fuori dal circuito di scambio. […] Contro la tendenza di molti lettori a glissare su questi aspetti a beneficio di un’idea del classico sottratto al tempo, non c’è grande opera della tradizione occidentale in cui non sia possibile trovare traccia delle dinamiche della sopraffazione dell’uomo sull’uomo: e Marx non esita a ricordarcelo.”[55]

E di queste dinamiche sarà ben cosciente Walter Benjamin un secolo dopo nelle sue riflessioni sul carattere bifronte dell’arte, rosa sull’abisso che nasconde le crudeltà della storia e dell’esistenza:

“Tutto ciò che dell’arte e della scienza il materialista storico può controllare ha sempre un’origine che egli non può considerare se non con orrore. Perché tutto ciò deve la sua esistenza non soltanto alla fatica dei grandi geni che l’hanno creato, ma anche, in maggior o minor misura, all’anonima servitù dei loro contemporanei.”[56]

Nella poesia Marx vedeva anche una forma di resistenza ai processi di alienazione prodotti dal capitale, il quale, nel suo utilitarismo volgare, considerava anche allora superflue queste dimensioni dell'uomo.

Ricordiamo, per inciso, che questa passione letteraria lo portò a scrivere poesie in gioventù e a seguire assiduamente durante gli anni universitari corsi di argomento estetico-letterario. Ad esempio, tra i corsi frequentati nei due semestri invernale e estivo del 1835-36, seguiti, come recita il Certificato di congedo dell’Università di Bonn, “con assiduità e attenzione”, ve ne sono quattro (su dieci: ricordiamo che si trattava di una facoltà di legge) dedicati alla letteratura e all’arte: “Mitologia greca e romana”, “Questioni su Omero”, “Storia dell’arte moderna”, “Elegie di Properzio”.[57]

Il Manifesto secondo Umberto Eco

Le radicali trasformazioni della società mondiale, determinate dall’ascesa della borghesia e dalla nascita del capitalismo, si riflettono nel Manifesto del partito comunista, pubblicato da Marx ed Engels nel 1848 ma la cui stesura ultima è frutto della penna del solo Marx. Dal punto di vista letterario il Manifesto è un vero proprio gioiello di stile e di potenza espressiva, analizzato con rara finezza da Umberto Eco il quale sosteneva che il piccolo libro andava riletto

“dal punto di vista della sua qualità letteraria o almeno – anche a non leggerlo in tedesco – della sua straordinaria struttura retorico-argomentativa. […] Si tratta di un testo formidabile che sa alternare toni apocalittici e ironia, slogan efficaci e spiegazioni chiare e (se proprio la società capitalistica intende vendicarsi dei fastidi che queste non molte pagine le hanno procurato) dovrebbe essere religiosamente analizzato ancora oggi nelle scuole per pubblicitari.

Inizia con un formidabile colpo di timpano, come la Quinta di Beethoven: «Uno spettro si aggira per l’Europa»[58] (e non dimentichiamo che siamo ancora vicini al fiorire preromantico e romantico del romanzo gotico, e gli spettri sono entità da prendere sul serio). Segue subito dopo una storia a volo d’aquila sulle lotte sociali dalla Roma antica alla nascita e sviluppo della borghesia. […] Si vede (voglio proprio dire «si vede», in modo quasi cinematografico) questa nuova inarrestabile forza che, spinta dal bisogno di nuovi sbocchi per le proprie merci, percorre tutto l’orbe terraqueo (e secondo me qui il Marx ebreo e messianico sta pensando all’inizio del Genesi), sconvolge e trasforma paesi remoti. […]

Il Manifesto cita le vie ferrate, ma pensa anche alle nuove comunicazioni di massa (e non dimentichiamoci che Marx ed Engels nella Sacra famiglia avevano saputo usare la televisione dell’epoca, e cioè il romanzo di appendice, come modello dell’immaginario collettivo, e ne criticavano l’ideologia usando linguaggio e situazioni che esso aveva reso popolari). […]

A parte la capacità certamente poetica di inventare metafore memorabili, il Manifesto rimane un capolavoro di oratoria politica (e non solo) e dovrebbe essere studiato a scuola insieme alle Catilinarie[59] e al discorso shakespeariano di Marco Antonio sul cadavere di Cesare. Anche perché, data la buona cultura classica di Marx, non è da escludere che proprio questi testi egli avesse presenti.”[60]

Prima di approfondire l’analisi del Manifesto, vorrei ricordare, per inciso, il riferimento di Eco alla Sacra famiglia, il cui titolo va completato con ovvero Critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e soci, un’opera scritta insieme ad Engels nel 1844 e pubblicata l’anno successivo in cui i due amici criticano le posizioni dei giovani hegeliani. Uno degli scritti di Marx dalla Sacra famiglia è dedicato interamente ad una approfondita analisi critica del romanzo allora popolarissimo di Eugene Sue dal titolo I misteri di Parigi, uscito a puntate nel 1842-43. Esempio di best seller, di romanzo d’appendice, un genere così importante allora da influenzare, ci ricorderà Gramsci che studierà con serietà il fenomeno, il senso comune di tanta parte del popolo. Lo scritto di Marx prende spunto da una recensione di stampo neo-hegeliano, in cui si magnificava il romanzo di Sue, apparsa sulla rivista “Gazzetta universale di letteratura” diretta dai fratelli Bauer e pubblicata nel biennio ’43-’44. Marx, al contrario del recensore, pur riconoscendo la capacità dello scrittore francese di inventare trame avvincenti, avverte, come nota Prawer, che

“una buona parte del successo di questo romanzo sentimentale consiste proprio nella sua capacità di permettere al lettore di gratificare, nell’immaginazione, le sue passioni più basse pur ricevendo insieme una gratuita edificazione dal manto di moralità con cui il romanzo le fa apparire.”[61].

Il Manifesto di Bertolt Brecht

 

         La potente letterarietà del Manifesto fu avvertita da Bertolt Brecht, il quale nel 1945 compone circa 500 esametri dal testo Marx e Engels (poi pubblicati nel 1957 nel n. 5 della rivista “Sinn und Form”) e così scrisse nel suo Diario di lavoro in data 11-2-1945: “Decido di mettere in versi Il manifesto, sul tipo del poema didascalico di Lucrezio […] Come 'pamphlet' il manifesto è già di per sé un'opera d'arte; tuttavia oggi mi sembra possibile rinnovarne l’efficacia propagandistica a distanza di cento anni, e con un’autorità più moderna e armata, superando il suo carattere di pamphlet”[62]. Ne riportiamo i primi versi nella traduzione del 1959 di Ruth Leiser e Franco Fortini.

Dal «Manifesto dei Comunisti»

Guerre rovinano il mondo, uno spettro va in giro fra i ruderi.

Non nato dalla guerra: l'hanno visto anche in pace, da tempo.

Per chi comanda è tremendo; ma è amico ai ragazzi di strada.

Sbircia nelle cucine dei poveri, scuote la testa

su dispense semivuote, numera

chi sta sfinito lungo le staccionate

di sterri e di cantieri, visita amici

nelle carceri, dove anche senza permesso sa entrare.

L'hanno visto persino negli uffici; lo hanno ascoltato

negli atenei, qualche volta è salito persino

su carri armati giganti, ha volato su aerei mortali.

In molte lingue parla: in tutte. E in molte anche tace.

Ospite nei quartieri dei poveri, spavento ai palazzi,

venuto a restare per sempre: è Comunismo il suo nome.

Quanto ve ne han parlato: ma è scritto nei classici.

Se voi leggete la storia, leggete di gran personaggi,

dei loro astri che sorgono e cadono, dei loro eserciti,

dello splendore e rovina dei regni. Ma per i classici

storia è innanzi tutto storia delle lotte di classe.

Perché han veduto, divisi in classi, in se stessi far guerra

i popoli: cavalieri e patrizi, schiavi e plebei,

nobili, contadini e artigiani, oggi proletari e borghesi,

reggono lungo i tempi l'immensa struttura

produttiva e la distribuzione dei beni vitali, pur sempre

combattendo una lotta a coltello, antichissima, per il potere.

E, combattendo, i maestri grandi, che i popoli scuotono,

hanno aggiunto così alla storia dei dominatori

quella dei dominati. Ma in modi molto diversi

agiscono i dominatori: i patrizi non come i baroni,

e questi non come i borghesi delle corporazioni e questi ultimi

non come fanno i borghesi di tempi e città più recenti.

Ecco una classe, qui, che si serve del despota, ecco

altrove il dispotismo molteplice delle assemblee,

qua una classe che cerca guadagno in guerra, là in pace.

Il loro sigillo così esse lasciano agli evi, ma solo

come può farlo la specie del loro potere e la lotta

coi dominati, continua. Dietro terribili guerre

di popoli, altre ne infuriano, all'ombra di quelle.

Fan guerra ai francesi i tedeschi, ma le città

alleate all'Imperatore, in Germania, talvolta

lottano contro i principi. A Roma, in tempi remoti

patrizi e cavalieri erano contro i plebei, mentre intanto

verso il glaciale Ponto marciavano le legioni.

C'era, talvolta, tregua. Poi le classi, alleate, lottavano

contro il nemico esterno, sospendendo quei loro conflitti.

Ma la vittoria di entrambe, da una sola classe era vinta:

una ritorna in festa, l'altra suona le campane,

cuoce la cena della vittoria, inalza colonne...

         Franco Fortini fu tra i maggiori mediatori in Italia e traduttori dell’opera brechtiana cogliendo con rara finezza i caratteri distintivi del marxismo del poeta e drammaturgo tedesco.

“Si direbbe – scrive Fortini - che del marxismo Brecht poeta abbia ritenuto soprattutto due insegnamenti: il pensiero dialettico e la nozione di lotta di classe. Dal primo gli viene l'energia morale, che non riposa mai in una regola senza supporre l'eccezione; dalla seconda, una posizione che definisce senza equivoci i destinatari del suo discorso. Ma almeno altrettanto forti vivono in Brecht due moventi contrari o diversi: una semplificazione estremistica, che sopprime le mediazioni e brucia i passaggi, volontaristica, antistoricistica e distruttiva, il «tutto o nulla»; e la passione per la «saggezza», come virtù della moderazione e della cortesia, della vitalità vegetale e dell'astuzia. Al pensiero dialettico si intreccia la polarità volontaristica; alla posizione di classe, e quindi combattiva, l'amore per la pazienza e l'ironia.”[63]

        

“Un tutto artistico”

Sappiamo quanto Marx amasse moltissimo un altro romanziere, Honoré de Balzac, fino al punto da identificarsi – secondo la testimonianza del genero Paul Lafargue - nel protagonista di un suo racconto.

“Uno studio psicologico di Balzac, - ricorda Lafargue – […], Le chef-d’oeuvre inconnu [Il capolavoro sconosciuto], gli fece una profonda impressione perché descriveva in parte i suoi stessi sentimenti: un pittore geniale è talmente tormentato dal desiderio di rappresentare le cose nel modo preciso in cui si rispecchiano nel suo cervello che continua a limare e a ritoccare il suo quadro, in modo da creare alla fine null’altro che una massa informe di colori in cui però i suoi occhi suggestionati vedono la più perfetta riproduzione della realtà.”[64]

L’ossessiva ricerca della perfezione scientifica e stilistica è un tratto del Marx scrittore e pensatore. Prima di pubblicare alcunché tutto doveva essere controllato e ipercorretto. Ma Marx avvertiva anche che questo metodo alla fine rischiava di paralizzarlo come il pittore di Balzac che a forza di limare si trova di fronte un materiale informe e caotico. Non è senza significato che le opere di Marx pubblicate in vita siano molto meno rispetto a quelle pubblicate dopo la sua morte. Alle sollecitazioni di Engels che nel 1865 spingeva l’amico, sempre pronto a rinviare, a pubblicare il primo libro del Capitale (uscito poi due anni dopo, nel settembre 1867), così Marx rispondeva:

“Non posso decidermi a licenziar qualche cosa prima che il tutto mi stia dinanzi. Whatever shortcomings they may have [Quali siano i difetti che possono avere], questo è il pregio dei miei libri, che costituiscono un tutto artistico [corsivo nostro, n.d.r.], cosa raggiungibile soltanto col mio sistema di non farli mai stampare innanzi che io li abbia completi davanti.”[65]

Il richiamo all’immagine del “tutto artistico – riferita proprio a quello che sarà il suo capolavoro scientifico, il Libro primo del Capitale - rivela in modo esplicito quanto abbiamo cercato di dire fino ad ora: la letteratura non è un orpello accademico per Marx ma è “consustanziale” alla sua esposizione storico-critica, al suo pensiero scientifico.

“Marx mostra la vivacità di un’intelligenza che costantemente si applica in molteplici contesti. Sente la necessità di citare e alludere a opere letterarie per far intendere le complesse intererrelazioni che egli ravvisa tra le diverse attività degli uomini. E questa abitudine di ricorrere alle citazioni e alle allusioni letterarie contribuisce così a fare della sua filosofia sociale un’autentica antropologia.”[66]

Marx leggeva con impegno ermeneutico i grandi classici antichi e moderni e prendeva in considerazione con grande serietà, per le sue riflessioni, le loro opere. Tale posizione deriva da una concezione antiformalistica della letteratura che egli ha sempre considerato una potente forma di conoscenza del mondo e dei rapporti tra gli uomini. Avendo chiara coscienza della differenza che corre tra la grande letteratura che si avvale di ricercati e ricchi congegni formali, che comunica e provoca piacere estetico e intellettuale in virtù di una forma alta ed elaborata e la letteratura di serie b, in genere declamatoria, propagandistica, superficiale, artisticamente povera.  

“La dialettica interna allo sviluppo storico e alle forme economiche deve riflettersi per Marx nella sua rappresentazione formale. A questa contribuiscono in modo decisivo le metafore che in Marx sono raramente isolate né rappresentano semplicemente un aspetto dell’elocutio, ma hanno una funzione costitutiva, di dispersione e insieme di saldatura di punti lontani del testo, illustrano i fenomeni descritti (anzi, in certo senso li plasmano) e ne vengono a loro volta spiegate e plasmate assurgendo a vero e proprio corpo del discorso marxiano. […] Indagine e modo della rappresentazione, metodo e poetica, si fondono facendo del Capitale (anche) un geniale testo letterario: il romanzo di formazione della borghesia, anzi, del denaro stesso.”[67]

 

 

Weltliteratur

Tornando al Manifesto del ’48, troviamo, in un famoso e profetico passo sulla globalizzazione del capitale, un chiaro riferimento ad uno dei poeti più amati da Marx, cioè Goethe, ed alla sua nozione di letteratura mondiale.

Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi. […] Al posto dei vecchi bisogni, a soddisfare i quali bastavano i prodotti nazionali, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. In luogo dell’antico isolamento locale e nazionale, per cui ogni paese bastava a se stesso, subentra un traffico universale, una universale dipendenza delle nazioni l’una dall’altra. E come nella produzione materiale, così anche nella spirituale. I prodotti spirituali delle singole nazioni diventano patrimonio comune. La unilateralità e la ristrettezza nazionale diventano sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali esce una letteratura mondiale [corsivo nostro, n.d.r.].[68]

E’ un brano di straordinaria preveggenza se pensiamo al nostro tempo nel quale l’interdipendenza si è compiutamente realizzata grazie anche, e Marx non manca di ricordarcelo, alla diffusione di nuovi e moderni mezzi di comunicazione di massa. Si tratta di una condizione che presenta una sua contraddittorietà: da una parte essa consente la diffusione e la socializzazione dei saperi e delle culture in ogni parte del globo, dall’altra, poiché tale diffusione e socializzazione è largamente diretta e controllata dalle grandi corporation dell’editoria, dell’informazione e oggi, sempre più, dai “signori del silicio” della Silicon Valley (Google, Facebook ecc.), produce un “format” omologante, paralizzante, narcotizzante e confermatorio degli odierni rapporti capitalistici di produzione (con quel che ne consegue in termini di stili di vita, di consumo, di costruzione dell’immaginario). E così, invece della “letteratura mondiale” sembrerebbe affermarsi la “letteratura dei best-sellers mondiali”.

 

Struttura e sovrastruttura

L’importanza che il filosofo tedesco conferisce alla “letteratura mondiale”, ai prodotti spirituali ci consente di enfatizzare l’antideterminismo di Marx il quale, come abbiamo più volte ripetuto, da appassionato e colto lettore delle grandi letterature mondiali, sa quanto conti la dimensione simbolica, il bello, l’immaginazione artistica nella costruzione della coscienza umana sempre vista dialetticamente connessa alla dimensione economica.

“Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente [corsivo nostro, n.d.r.] tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre [corsivo nostro, n.d.r.] fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo.”[69].

Dove va notata l’assenza di qualsiasi determinismo, più volte ribadita da Marx ed Engels. Così scrive, ad esempio, Engels in una lettera del 21 settembre 1890 allo studente berlinese e redattore di riviste socialiste Joseph Bloch:

“Secondo la concezione materialistica della storia la produ­zione e riproduzione della vita reale è nella storia il momento in ulti­ma istanza determinante. Di più né io né Marx abbiamo mai affer­mato. Se ora qualcuno distorce quell'affermazione in modo che il mo­mento economico risulti essere l'unico determinante, trasforma quel principio in una frase fatta insignificante, astratta e assurda. La si­tuazione economica è la base, ma i diversi momenti della sovrastrut­tura […] le teorie politiche, giuridiche, filosofiche, le visioni religiose e il loro successivo svilup­po in sistemi dogmatici esercitano altresì la loro influenza sul decor­so delle lotte storiche e in molti casi ne determinano in modo pre­ponderante la forma. È un'azione reciproca di tutti questi momenti, in cui alla fine il movimento si impone come fattore ne­cessario attraverso un'enorme quantità di fatti casuali. […] Vorrei del resto pregarla di studiare questa teoria sulle fonti originali e non di seconda mano [corsivo nostro, n.d.r.], è veramente molto più semplice. […] Del fatto che da parte dei più giovani si attribuisca talvolta al la­to economico più rilevanza di quanta convenga, siamo in parte re­sponsabili anche Marx e io. Di fronte agli avversari dovevamo ac­centuare il principio fondamentale, che essi negavano, e non sempre c'era il tempo, il luogo e l'occasione di riconoscere quel che spettava agli altri fattori che entrano nell'azione reciproca”[70].

Tra le critiche più ricorrenti che da oltre un secolo vengono rivolte a Marx vi è quella relativa a un certo determinismo economicistico secondo il quale le idee, la cultura, l’arte, la religione, l’educazione, insomma l’intera dimensione cognitivo-simbolica dell’attività umana, sarebbero un mero riflesso della struttura economica. Ma questa accanita insistenza sulla dimensione economica, come abbiamo visto nella lettera di Engels, nasceva dal fatto che nessuno, prima di loro, aveva dato il giusto rilievo all’economia, “anatomia della società civile”, in una prospettiva di liberazione per le classi subalterne dal ricatto economico, e che questo enorme dispendio di energie intellettuali aveva impedito loro di dedicare altrettante energie al resto. Questo tuttavia, aggiungeva Engels, non significa alcuna meccanica dipendenza della coscienza dall’economia, della “sovrastruttura” dalla “struttura”. Solo che una compiuta realizzazione “spirituale” degli uomini non potrà avverarsi se non verranno spezzate le catene alienanti con cui il capitale tiene legati a sé gli individui. Marx, da autentico umanista-scienziato, studia l’economia politica non per ridurre l’uomo a “uomo economico”, ma per l’esatto contrario: restituire l’essenza umana fatta di relazioni, affetti, intelletto, creatività, a un uomo che il capitalismo ha reificato.

“Le ‘sovrastrutture’ – ha scritto Nicolao Merker – non sono dunque meno importanti delle ‘strutture’. Il testo del 1859 [Prefazione a Per la critica dell’economia politica] usa i sinonimi tedeschi Struktur e Basis per indicare la ‘struttura’, e Überbau per significare quel che in altre lingue è stato poi reso con ‘sovrastruttura’. La traduzione funziona a patto che al termine non venga attribuito che quel che sta ‘sopra’ sia secondario a quel che sta ‘sotto’. Struktur, Basis e Überbau sono metafore architettoniche. Überbau è la ‘costruzione’ (Bau) elevata ‘sopra’ (über) un fondamento. Ovviamente senza le fondamenta non c’è edificio, ma se l’edificio fosse secondario rispetto a quelle, tanto varrebbe abitare nelle cantine. La distinzione è dunque di ambiti, non di valore e dignità: come se spregevoli fossero le case, e degne soltanto le fondamenta. Di più: la parola ‘struttura’ o ‘base’ sta nel Marx del 1859 per un insieme che comprende ‘forze produttive’, ‘modi di produzione’ e ‘rapporti sociali’ corrispondenti. La produzione, certo, è quella di beni economici, la quale però, già trattandosi di produzione, non è ricezione passiva di una realtà materiale naturale. Per ‘produrre’ devo applicare alla realtà materiale mie iniziative indirizzate a uno scopo, immettervi quel che so fare, ovvero un mio ‘sovrastrutturale’ patrimonio teorico-pratico di abilità, raziocinio e intuito trasmessomi da generazioni di uomini pensanti e agenti. Dunque già nella produzione, essendo essa umana, sono simultaneamente presenti la ‘struttura’ e la ‘sovrastruttura’, complementari e non contrapposte”.[71]

Ma torniamo al Manifesto e al nesso storia universale[72] e letteratura mondiale nel quadro dei mutamenti epocali avvenuti in seguito alla progressiva unificazione del mondo iniziata nel secolo XVI con la Conquista dell’America, continuata con il traffico mondiale degli schiavi, con il colonialismo, e con l’affermazione del capitalismo grazie alla nuova classe borghese ormai globale.

“Nel Manifesto, - ha scritto Antonio Santucci - si asserisce che “la produzione spirituale si trasforma insieme con quella materiale” e che “con la dissoluzione dei vecchi rapporti di esistenza procede di pari passo il dissolvimento delle vecchie idee”. […] L’analisi del fenomeno… non può essere diversa da quella che il Marx dei Grundrisse applicherà alla storia universale. Questa “non è esistita sempre; la storia come storia universale è un risultato”, spiegabile mediante l’”influsso dei mezzi di comunicazione”. Non c’è da dubitare che come la Weltgeschichte [storia universale] anche la Weltliteratur [letteratura mondiale] sia un risultato, legato in misura identica alla crescita dell’informazione e al perfezionamento delle tecniche comunicative, che vanno dalla diffusione delle traduzioni di opere letterarie e scientifiche ai libri economici, dalla moltiplicazione delle tournée teatrali alla nascita di innumerevoli organi di stampa fino, in epoca recente, alle trasformazioni radiofoniche e alle proiezioni cinematografiche e televisive. Merita in fondo osservare che il Manifesto stesso non sarebbe diventato un classico internazionale del pensiero politico, conosciuto da intere generazioni di comunisti nei cinque continenti, senza un formidabile potenziamento delle reti comunicative.”[73].

Tutte le conquiste della scienza e della tecnica, hanno un carattere bifronte: da un lato di asservimento al capitale dall’altro di emancipazione dei lavoratori.

Ma, come sempre secondo Marx, sono i concreti rapporti sociali, i rapporti tra capitale e lavoro, i rapporti di potere e di classe, i rapporti di proprietà, in una parola i rapporti di produzione, a determinarne l’esito e la qualità. Come scrisse in un memorabile discorso del 1856, fatto in occasione del quarto anniversario del giornale operaio “The People’s Paper”,

“Da un lato sono nate forze industriali e scientifiche di cui nessun’epoca precedente della storia umana ebbe mai presentimento. Dall’altro, esistono sintomi di decadenza che superano di gran lunga gli orrori tramandatici sulla fine dell’impero romano. Ogni cosa oggi sembra portare in se stessa la sua contraddizione. Macchine, dotate del meraviglioso potere di ridurre e potenziare il lavoro umano, fanno morire l’uomo di fame e lo ammazzano di lavoro. Un misterioso e fatale incantesimo trasforma le nuove sorgenti della ricchezza in fonti di miseria.”

E qualche riga dopo, riferendosi agli operai – “l’invenzione dell’epoca moderna, come lo sono le macchine” – Marx sente il bisogno di evocare, per immaginare la loro funzione rivoluzionaria, il suo amato Shakespeare, in particolare un personaggio del Sogno di una notte di mezza estate:

“Nei segni che confondono la borghesia, la nobiltà e i meschini profeti del regresso riconosciamo la mano del nostro valente amico, Robin Goodfellow, la vecchia talpa che scava tanto rapidamente, il grande minatore: la rivoluzione.”[74]

L’universalismo di Goethe

Ma la nozione di “letteratura mondiale” deriva a Marx, come si è detto, direttamente da Goethe.

Mi convinco sempre di più – scrive l’autore del Faust - che la poesia è un patrimonio comune dell’umanità e si manifesta, ovunque e in tutti i tempi, in centinaia e centinaia di individui […] Per questo mi piace tener d’occhio le altre nazioni e consiglio a tutti di fare lo stesso. Oggigiorno letteratura nazionale non vuol dir molto, sta arrivando il tempo della letteratura mondiale [“universale”, nella traduzione di Vigliani] e ciascuno di noi deve contribuire al suo rapido avvento.[75]

Queste parole di Goethe, pronunciate il 31 gennaio del 1827 conversando con Eckermann, nel loro innovativo cosmopolitismo interculturale affermano l’ideale della poesia-mondo. E’ l’autore del Faust che utilizza l’espressione “Letteratura mondiale” (Weltliteratur) “che intendeva indicare l’inevitabile e proficuo compenetrarsi e intrecciarsi delle letterature nazionali europee ed extraeuropee.”[76] Goethe, infatti, ha sempre avuto una costante frequentazione, oltre che con le letterature francese, inglese, italiana (ricordiamo la sua grande ammirazione per Tasso e Manzoni), anche per le letterature persiana, araba, cinese. Il Divano occidentale-orientale, composto, tra i tanti riferimenti letterari e storici, anche di poesie ispirate ad Hafez, un poeta persiano sufi del XIV secolo, ne è l’emblema. Non è un caso se l’Orchestra giovanile di israeliani, palestinesi e musicisti dei paesi arabi voluta da Edward Said[77] e Daniel Barenboim si chiamerà con il nome del libro di Goethe.

“Welt”, mondo

“Welt”, mondo, è una parola – ha scritto Claudio Magris - che affascina gli ultimi anni di Goethe; egli parla con fervore della nuova “Weltliteratur”, della letteratura universale, che va spezzando le vecchie frontiere nazionali e sociali; s’interessa al progetto dei canali di Panama e di Suez, deride i filosofi chiusi nelle loro stanze ad almanaccare gli “arzigogoli” del loro cervello senza guardare fuori dalla finestra, disprezza i poeti romantici prigionieri dei loro fantasmi ed afferma, in una frase sibillina del suo ultimo romanzo [Gli anni di pellegrinaggio di Wilhelm Meister, n.d.r.], che una poesia è tanto più perfetta quanto più s’avvicina alla pura e oggettiva trasparenza della vita esteriore. Il demone dell’azione conduce Faust nel “grande mondo” della storia e della politica e Goethe stesso, che scorgeva nei processi mondiali la premessa della poesia, dichiara la propria inclinazione a intrattenersi con i sovrani e i tiranni.

Ma il mondo gli incute anche un profondo sgomento, dominato con faticosa e marmorea dignità classica. Goethe era persuaso di vivere una svolta radicale della storia, che stava trasformando la stessa natura dell’uomo: assisteva alla fine della millenaria civiltà imperniata sull’individuo e all’avvento di una nuova civiltà, impersonale e collettiva, nella quale l’arte – la poesia individuale, classica e perenne – forse non avrebbe avuto più senso. Senza lasciarsi irretire dalla politica, Goethe ha una consapevolezza fortissima, specialmente negli ultimi anni, dell’importanza che assumono, per la letteratura, i contenuti reali ovvero le forze del “grande mondo” della politica, le personalità o i movimenti sociali che determinano la storia mondiale.

Nei saggi sull’Adelchi e sul Conte di Carmagnola di Manzoni, per esempio, Goethe – oltre ad analizzare con attenzione e a celebrare con fervore la bellezza poetica dei testi – apprezza “la materia da magnificare”, che ha offerto all’autore grandi possibilità di poesia. Avrebbe certo approvato la risposta amabile e modesta di Manzoni a Longfellow: quando il poeta americano gli diceva la sua ammirazione per Il cinque maggio, Manzoni schermiva replicando che, in quella poesia, “era il morto che portava il vivo” e cioè che la grandezza di quell’opera derivava soprattutto dal suo tema, da Napoleone.

Nella sua lunga vita [1749-1832] Goethe è contemporaneo dei grandi eventi politici, sociali e culturali che presiedono alla nascita del mondo contemporaneo: l’Illuminismo, la Rivoluzione francese, l’impero napoleonico e la restaurazione, l’ascesa della borghesia e la Rivoluzione industriale, lo sviluppo della scienza, la filosofia hegeliana, la poesia e il nichilismo dei romantici. Di tutti questi fenomeni, che sconvolgono l’ordine tramandato e modificano radicalmente l’esistenza individuale, mettendone in difficoltà la reale autonomia creativa, Goethe – che si considera uno degli ultimi grandi individui – vuol fare la sostanza di una poesia capace di salvare l’individuale dicendone l’eclissi o il tramonto. Il secondo Faust, la sua opera suprema, vuol essere, nelle sue stesse strutture stilistiche e nella sua ambigua dissoluzione delle forme tradizionali, l’”incommensurabile” rappresentazione poetica di questa incommensurabile trasformazione che investe alle radici il secolare retaggio europeo, esautorando il soggetto e mettendo in crisi la stessa sopravvivenza della poesia.

Nei suoi ultimi anni Goethe parla spesso della “Weltliteratur”, della letteratura universale che si sta sviluppando sotto i suoi occhi, rendendo anacronistici i confini letterari nazionali. Il termine “Weltliteratur” è ambiguo: talora indica il crescente scambio culturale fra i popoli, talvolta designa opere poetiche il cui spirito abbraccia problemi e motivi d’ampiezza cosmopolita e, più spesso, si riferisce a una rete di rapporti internazionali che non riguarda tanto la letteratura, quanto altre sfere dell’attività umana: il commercio, l’industria e in generale l’economia, le nuove linee e i nuovi strumenti di comunicazione.

“Weltliteratur” indica, anche e soprattutto, quelle trasformazioni delle strutture sociali cui è connesso il carattere universale della nuova letteratura che sta formandosi. […]

Sul piano meramente letterario, “Weltliteratur” indica, com’è stato più volte ed egregiamente sottolineato, sia l’interesse di Goethe per le varie letterature straniere sia il ruolo straordinario ch’egli gioca su scala mondiale. Goethe fa propri i classici francesi, inglesi, italiani, spagnoli; guarda a Voltaire, ama Sterne, trasferisce la lezione di Goldsmith nel racconto del suo amore per Friederike, si sofferma sulla genialità ebraica e infonde al suo classicismo la moralità di Racine, traduce Benvenuto Cellini e si riconosce nella poesia persiana sino quasi alla reticente identificazione, legge i grandi spagnoli e si interessa delle letterature più varie, appartate e periferiche; ciò che significano per lui Shakespeare e gli antichi non occorre ricordarlo.

“Weltliteratur” indica, inoltre, il suo rapporto personale diretto con i più grandi e celebri autori contemporanei – da Scott a Madame de Staël, da Byron, a Nerval, a Carlyle – e il suo ruolo di centro ideale della cultura europea, la sua casa di Weimar […] “Weltliteratur” significa anche l’irradiazione e diffusione internazionale delle sue opere, che vengono tradotte ed imitate in tutta Europa. […] [Letteratura mondiale è] “libero commercio delle idee e dei sentimenti”, come Goethe stesso chiama la “Weltliteratur”.[78]

Intercultura e letteratura mondiale

La tensione goethiana verso una letteratura mondiale e quella marxiana verso l’internazionalismo sono due matrici importantissime dell’odierno discorso educativo che si vuole “interculturale” e che si propone la disseminazione di una cultura pedagogica e disciplinare cosmopolita, capace di accogliere e valorizzare le differenze, aperta alle storie e alle culture del mondo.

Per ciò che concerne, nello specifico, la letteratura e il suo insegnamento, si tratta di assumere la prospettiva goethiana e marxiana di un coraggioso “internazionalismo letterario” che possa consentire nelle scuole e nelle università lo studio non occasionale dei maggiori rappresentanti delle letterature mondiali[79]. Uno studio, però, che sia capace di far dialogare le diverse tradizioni letterarie (quindi non solo quelle dell’occidente), nella prospettiva dinamica e dialettica del “contrappunto” di cui ha parlato il grande critico palestinese-statunitense Edward Said[80]. Lo slogan “prima gli italiani” negli studi letterari suona ridicolo (come d’altronde in tutti gli ambiti della vita civile). Perché nessuna opera nazionale è mai soltanto “nazionale”. Ogni grande autore è attraversato da sollecitazioni e modelli stranieri e italiani che riesce, per dir così, a “centrifugare” nella sua opera. Senza parlare della grande poesia classica greca e latina: Omero e Virgilio non sono “italiani”. Che ne facciamo?

“Noi invece – scrisse Dante - che abbiamo per patria il mondo, come i pesci il mare, noi, che pure prima di mettere i denti abbiamo bevuto l’acqua dell’Arno e amiamo Firenze tanto da subire ingiustamente l’esilio per averla amata, noi poggiamo le spalle del nostro giudizio sulla ragione piuttosto che sul senso. Certo, in vista del nostro piacere, ossia della quiete del nostro appetito sensitivo, non esiste sulla terra luogo più ameno di Firenze. Noi abbiamo però consultato i volumi dei poeti e degli altri scrittori che descrivono il mondo nel suo insieme e nelle sue parti, e abbiamo riflettuto fra noi sulle varie posizioni delle località del mondo e sui rapporti che esse presentano con entrambi i poli e col circolo dell’equatore: abbiamo pertanto compreso, e crediamo fermamente, che vi sono molte regioni e città più nobili e più piacevoli della Toscana e di Firenze, di cui siamo nativi e cittadini, e che molte nazioni e popoli si servono di una lingua più gradevole e utile di quella degli italiani”.[81]

La ruota di Juggernaut

La grande passione letteraria di Marx non è naturalmente un’eccezione per i giovani studenti figli dei ceti benestanti europei dell’Ottocento. Una solida cultura classica, come ad esempio saper leggere in greco e latino gli autori antichi, era comune in tutti i licei europei dell’epoca. Così come altri pensatori prima di Marx avevano trattato temi letterari e problemi di estetica. Ricordiamo solo che Hegel dedicherà un’opera specifica proprio all’estetica. Ma la particolarità di Marx risiede nel fatto che egli si applica ad uno studio “matto e disperatissimo” di tutta l’economia politica, maggiore e minore, attraverso una ricerca meticolosa e seria nei meandri delle teorie economiche, dei computi matematici, delle definizioni di salario, prezzo, valore, nella storia dell’industria, della tecnica e della scienza moderna, e di tutto questo fa materia delle sue opere le quali, però, non sono mai aride compilazioni apologetiche per accademici esangui – come ce n’erano anche allora – ma proposte teoriche rivoluzionarie innervate di passione, di indignazione, di denuncia, di ironia e sarcasmo nei confronti di quella che, con un’immagine ripresa dall’antica mitologia indiana, chiama la ruota di Juggernaut del capitale[82].

“Entro il sistema capitalistico tutti i metodi per incrementare la forza produttiva sociale del lavoro si attuano a spese dell’operaio individuo; tutti i mezzi per lo sviluppo della produzione si capovolgono in mezzi di dominio e di sfruttamento del produttore, mutilano l’operaio facendone un uomo parziale, lo avviliscono a insignificante appendice della macchina, distruggono con il tormento del suo lavoro il contenuto del lavoro stesso, gli estraniano le potenze intellettuali del processo lavorativo nella stessa misura in cui a quest’ultimo la scienza viene incorporata come potenza autonoma; deformano le condizioni nelle quali egli lavora, durante il processo lavorativo lo assoggettano a un dispotismo odioso nella maniera più meschina, trasformano il periodo della sua vita in tempo di lavoro, gli gettano moglie e figli sotto la ruota di Juggernaut del capitale.”[83]

Dante e Marx

Per dare voce alle sue denunce - non moralistiche ma storico-politiche - Marx ha bisogno anche della letteratura perché molto spesso romanzi e poesie penetrano in profondità, condensano ed evocano concetti, idee, espressioni, tesi e temi che rendono più vicina la materia trattata – “svelare la legge economica del movimento della società moderna”, come è scritto nella Prefazione alla prima edizione tedesca del Capitale - e danno ad essa una forma preziosa e colta, una solidità estetica di tipo classico. Marx ne era così convinto che decide di terminare la prefazione citata con un verso di Dante che, secondo la testimonianza di Wilhelm Liebknecht, era “la sua massima favorita”[84]:

“Sarà per me benvenuto ogni giudizio di critica scientifica. Per quanto riguarda i pregiudizi della cosiddetta opinione pubblica, alla quale non ho fatto mai concessioni, per me vale sempre il motto del grande fiorentino:

                                               Segui il tuo corso, e lascia dir le genti!”[85]

Va notato che Marx usa l’italiano del testo perché leggeva la Divina commedia in italiano e che modifica l’originale di Dante il quale in Purgatorio V, 13 – il canto di Pia de’ Tolomei - scrive: “Vien dietro a me, e lascia dir le genti”. Siamo nell’Antipurgatorio e le anime morte con violenza attendono l’espiazione e Virgilio dice a Dante di non distrarsi con le anime dei pigri e di affrettarsi.    

"Perché l’animo tuo tanto s’impiglia",
disse ’l maestro, "che l’andare allenti?
che ti fa ciò che quivi si pispiglia?

Vien dietro a me, e lascia dir le genti:
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti;

ché sempre l’omo in cui pensier rampolla
sovra pensier, da sé dilunga il segno,
perché la foga l’un de l’altro insolla".

(Purg., vv. 10-18)[86]

        

“E’ interessante che Marx - ha scritto Daniele Maria Pegorari - abbia ricordato questo passo […] proprio quando sta per varare il cammino della critica scientifica al processo capitalistico, associando implicitamente ma eloquentemente la “cosiddetta ‘opinione pubblica’” ai pigri, naturalmente con un’accezione che in questo caso si fa tutta intellettuale: lo scetticismo, la superficialità o addirittura l’indifferenza di molti dinanzi alle tesi economiche di Marx equivalgono a una negligenza ideologica, a un’inerzia del pensiero che non si preoccupa di contestare le ragioni dell’avversario attraverso argomentazioni altrettanto analitiche, ma si accomoda al conformismo del già noto, nella placida immutabilità degli assetti socio-economici e politico-culturali determinati dalla modernità.

         Ciò che attira l’attenzione del dantista, però, è la strana circostanza del riporto testuale manipolato nel primo emistichio, con quel “Segui il tuo corso” che sostituisce il corretto “Vien dietro a me”, ricostituendo però perfettamente l’unità metrica dell’endecasillabo a minore[87]; considerando che il passo è riportato in italiano (e, dunque, non è conseguenza di un errore di traduzione dal toscano antico al tedesco) e che la variante riportata non è attestata nella tradizione manoscritta della Commedia, costituisce ancora un problema filologico ed esegetico di non poco conto comprendere come Marx abbia potuto rielaborare quel verso, rimanendo fedele a quella natura sentenziosa, gnomica, che alcuni passi dell’opera dantesca conservano nella memoria collettiva.”.

Secondo Pegorari, tale rielaborazione non dipende da una memoria inesatta ma si tratta invece di

“una rielaborazione volontaria attuata con invidiabile perizia tecnica e dettata dallo scopo di adeguare la fonte a una condizione, per così dire, autobiografica, quella dell’intellettuale che sconta il proprio anticonformismo con un “corso” o un destino di solitudine e di disprezzo della pigrizia ideologica.”[88]

L’inferno di Dante viene evocato in modo esplicito nel primo libro del Capitale quando si riportano esempi di luoghi di lavoro contraddistinti dal più brutale sfruttamento. Uno di questi, nel capitolo otto dedicato alla giornata lavorativa, è la manifattura dei fiammiferi:

“La manifattura dei fiammiferi data dal 1833, dalla scoperta del modo di fissare il fosforo sull’accenditoio. Si è sviluppata in Inghilterra dal 1845 in poi, rapidamente, e si è estesa, partendo specialmente dalle parti di Londra a densa popolazione, anche a Manchester, Birmingham, Liverpool, Bristol, Norwich, Newcastle, Glasgow; con essa s’è diffuso il trisma [contrattura dei muscoli della mandibola con difficoltà o impossibilità ad aprire la bocca, n.d.r.], che un medico di Vienna scoperse già nel 1845 esser la malattia peculiare dei lavoranti in fiammiferi. Metà degli operai di questa manifattura sono bambini sotto i tredici anni e adolescenti di meno di diciotto anni. Essa ha così cattiva fama, per la sua insalubrità e per la repugnanza che desta, che soltanto la parte più decaduta della classe operaia, vedove semiaffamate ecc., le cede i figli, “fanciulli stracciati, semiaffamati, del tutto trascurati e non educati”. Dei testimoni esaminati dal commissario White (1863), 270 erano sotto i diciotto anni, 40 sotto i dieci anni, 10 avevano solo otto, 5 avevano solo sei anni. Giornata lavorativa che andava dalle 12 alle 14, alle 15 ore; lavoro notturno; pasti irregolari, per lo più presi negli stessi locali di lavoro, che sono appestati dal fosforo. Dante avrebbe trovato che questa manifattura supera le sue più crudeli fantasie infernali.”[89]

 

Marx sentiva un’affinità profonda con Dante, in particolare per la comune condizione di esuli ingiustamente costretti a subire “lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”, “Giù per lo mondo sanza fine amaro (Paradiso, XVII, 60 e 112). Come per tutti gli scrittori a lui cari, anche per Dante l’atteggiamento di Marx non è quello asettico e impersonale del borioso accademico, ma quello di chi “usa” i classici per leggere il presente e cercare in essi una risposta alle domande del mondo contemporaneo.

“Quando ci si pone la questione – ha detto Franco Fortini – se Dante conserva o no il suo mondo per noi dobbiamo chiederci l’inverso: in che misura il nostro mondo può essere, per dir così, dantizzato in qualche modo”.[90]

Un esempio di questa “dantizzazione” è nella dura polemica che Marx ingaggia contro il giornale conservatore Times che in uno dei suoi articoli se la prende con i rifugiati in Inghilterra accusati di essere “individui feroci”, “rotti a ogni delitto”. Non dimentichiamo che Marx era uno di questi rifugiati a cui l’Inghilterra non concesse mai la cittadinanza dell’Impero britannico e così il rivoluzionario tedesco restò per tutta la vita un apolide, un cittadino del mondo – per usare le sue parole – il cui destino fu di “lavorare per il mondo”.

L’articolo di Marx, scritto in inglese, compare nella “New-York Daily Tribune” del 4 aprile 1853, il giornale statunitense al quale egli lungamente collaborò dal 1852 al 1861 come corrispondente dall’Europa e su cui scrisse, tra le tante corrispondenze, alcuni fondamentali articoli di politica estera sulla Russia, l’India e la Cina, veri e propri saggi di approfondimento storico, politico, sociale ed economico in cui l’autore del Capitale mostra il carattere globale e interdipendente del capitalismo, la ferocia del colonialismo britannico, il nesso inestricabile tra la rivoluzione in Occidente e la rivoluzione in Oriente.[91]

In questo articolo contro il Times, esempio della brillante e caustica polemica giornalistica di Marx, un posto di prim’ordine spetta proprio a Dante esiliato da Firenze[92] ma fortunatamente – ricorda Marx con piglio irridente – risparmiato da un editoriale del Times!

Molto caustica è infine la parte in cui il filosofo tedesco ricorda che le vendite e i relativi guadagni del giornale londinese sono in gran parte dovute proprio alle vicende continentali legate agli odiati “stranieri” senza i quali le pagine del giornale si ridurrebbero alle anguste cronache locali. O anche le crociate reazionarie dell’autorevole quotidiano fondato nel 1785 contro Napoleone o gli Stati Uniti d’America.

“Ricorderete che il “Times” cominciò con il denunciare i rifugiati e coll’invitare le potenze straniere a chiederne l’espulsione. Poi, dopo essersi accertato che un rinnovo dell’Alien Bill[93] sarebbe stato respinto dalla Camera dei comuni con grande scorno del governo, di colpo si profuse in descrizioni traboccanti retorica sul sacrificio che era pronto a fare – ahi noi! – per la conservazione del diritto di asilo. Finalmente, dopo l’amabile scambio di opinioni tra le loro nobiltà nella Camera alta, si vendicò del suo magniloquente civismo con la seguente rabbiosa esplosione contenuta nell’editoriale del 5 marzo [1853, ndr]:

‘Molti membri del gabinetto credono che il nostro paese sia felice di ospitare un vero serraglio di rifugiati, individui feroci di tutti i paesi, rotti a ogni delitto… Gli scrittori stranieri che denunciano la presenza in Inghilterra dei loro compatrioti proscritti, credono forse che l’esistenza di un rifugiato sia una sorte invidiabile? Si disilludano. Questa infelice classe di esseri vive, per la maggior parte, in squallida povertà, si ciba del sale dello straniero, quando può procurarselo, sballottata come è nei torbidi flutti di questa vasta metropoli… La sua punizione è l’esilio nella sua forma più aspra’.

 

Su questo punto il “Times” ha ragione: l’Inghilterra è un paese delizioso per chi ci vive fuori.

Nel “cielo di Marte” Dante incontra il suo avo Cacciaguida degli Elisei, che gli predice il futuro esilio da Firenze con queste parole:

Tu proverai sì come sa di sale

lo pane altrui e com’è duro calle

lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.[94]

Felice Dante, un altro di quegli ‘esseri appartenenti a quella sciagurata classe detta dei rifugiati politici’, che i suoi nemici non poterono minacciare con la vergogna di un editoriale del ‘Times’! E più felice il ‘Times’, cui la sorte ha evitato un ‘posto riservato’ nell’”Inferno” dantesco.”[95]

“Leggete Karl Marx!”

L’opera di Marx è un oceano infinito – come, d’altra parte, le sue letture: un “oceano senza fondo”[96] - in cui si rischia di naufragare se non si ha la pazienza di studiare e ristudiare i suoi testi, se non si ha la necessaria calma e il tempo lungo per riflettere su di essi, per farli, come il buon vino, decantare affinché possano sprigionare, tra le tante cose, quel ricchissimo repertorio di materiali letterari, di scrittori classici e contemporanei che per Marx erano un nutrimento indispensabile per affrontare il duro viaggio nell’inferno del capitale. Tale ricchezza di riferimenti letterari avvicina il lettore – e qui è già presente una suggestione metodologica – ai grandi classici della letteratura mondiale e lo stimola ad una lettura integrale delle opere maggiori di questi autori: l’Odissea, il Prometeo incatenato, l’Eneide, le Metamorfosi, la Divina Commedia, il Mercante di Venezia, il Don Chisciotte, il Faust e tantissimi altri. Il plurilinguismo di Marx, il suo “cosmopolitismo interculturale” (Merker) rappresentano oggi un modello, un metodo, un orientamento fecondo e aperto utile a misurarsi con la complessità del nostro tempo che il capitale vorrebbe sfuggente, indecifrabile, immodificabile. La prospettiva di Marx risulta oggi attuale in un mondo in cui i “prodotti spirituali” (Manifesto) sono sempre più globali e interdipendenti, in cui le letterature dei diversi paesi dialogano in forma “contrappuntistica” (Said), in cui sembrerebbe affermarsi l’ideale goethiano di una “letteratura mondiale”. Uso il condizionale perché sono percorsi lunghi e contraddittori, segnati da profondi dislivelli di cultura, da accentuate disuguaglianze nell’accesso al sapere, da continue risorgenze di prodotti culturali segnati dal nazionalismo, dal razzismo, dal militarismo.  

“Il richiamo ai testi di Marx e di Engels è quindi indispensabile, non per rimanere fideisticamente tranquilli all’ombra di una pretesa “ortodossia” marxista, ma per servirsene secondo l’uso a cui erano destinati: come punto di partenza per nuove ricerche, lievito di nuovi orientamenti in ogni ordine di studi”.[97]

Crediamo, in conclusione, che sia utile accogliere il recente invito dello storico e sociologo Immanuel Wallerstein, il quale, ad una domanda di un autorevole studioso di Marx, Marcello Musto, che gli chiedeva “che messaggio le piacerebbe trasmettere a quanti, nella nuova generazione, non hanno ancora letto Marx?”, così rispondeva:

“La prima cosa che vorrei dire ai più giovani è di leggere direttamente gli scritti di Marx. Non leggete su Marx, ma leggete Marx. Solo pochi — fra tutti quelli che parlano di lui — hanno veramente letto le opere di Marx. È una considerazione che, peraltro, vale anche per Adam Smith. In genere, con la speranza di risparmiare tempo, molte persone preferiscono leggere a proposito dei classici del pensiero politico ed economico e, dunque, finiscono per conoscerli attraverso i resoconti di altri. È solo uno spreco di tempo! Bisogna leggere direttamente i giganti del pensiero moderno e Marx è, senza dubbio, uno dei principali studiosi del XIX e XX secolo. Nessuno gli è pari, né per la molteplicità delle tematiche da lui trattate, né per la qualità della sua analisi. Alle giovani generazioni dico che è indispensabile conoscere Marx e che per farlo bisogna leggere, leggere e leggere direttamente i suoi scritti. Leggete Karl Marx!”[98]

 

* Università Roma Tre. Saggio pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2018, L'estensione dell'ideologia, a cura di F. Antonini e G. Guzzone, pp. 332-382, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/1978/1801 

[1] Karl Marx, Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro, in Marx-Engels Opere Complete (da ora in poi MEOC), vol. I, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 25. Nella Prefazione alla sua tesi di laurea (1840-41) Marx riporta, in greco, anche la risposta di Prometeo al servitore degli dèi Ermete: “Questa sventura non la cambierei/con la tua servitù, sappilo bene./Meglio essere schiavi a questa pietra/che i messi di fiducia di Zeus Padre”. (Eschilo, Prometeo incatenato, vv. 966-967, a cura di Enzo Mandruzzato, Rizzoli, Milano 2017, p. 137).      

[2] Riprendo questa definizione da Franco Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine, Einaudi, Torino 1994, il quale, a sua volta, dichiara che la sua ricerca “si richiama, e non è solo un calco verbale, all’”economia-mondo” di Braudel e Wallerstein.” (p. 4).

[3] Karl Marx, Confessioni, MEOC, vol. XLII, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 650.

[4] Franz Mehring, Vita di Marx, Prefazione di Ernesto Ragionieri, Traduzione di Fausto Codino e Mario Alighiero Manacorda, Editori Riuniti 1976, p. 501.

[5] György Lukács, Il marxismo e la critica letteraria, Traduzione di Cesare Cases, Einaudi, Torino 1973, pp. 36-37.

[6] Idem, p. 58.

[7] Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Prefazione e traduzione di Norberto Bobbio, Einaudi, Torino 1978, pp. 156-157; 118-119.

[8] “Ha raccontato una volta Goffredo Fofi che uno dei compagni di “Quaderni Rossi”, non ricordo ora quale, chiese un giorno a Panzieri, con qualche insofferenza, perché desse tanto ascolto a Fortini, che era in fin dei conti un poeta. Panzieri allora prese tra i suoi libri la Vita di Marx di Franz Mehring e lesse il passaggio in cui si parla dei rapporti tra Marx e Heine. Si tratta del capitolo sull’Esilio a Parigi e vi si dice come per Marx i poeti non potessero essere misurati “con la misura degli uomini comuni e anche non comuni”, e inoltre che egli vedeva in Heine non solo il poeta “ma anche il lottatore” e uno spirito libero, per questo capace di intendere i “più profondi nessi della vita storica”. (Intervista a Luca Lenzini di Alberto Prunetti, A proposito di Franco Fortini, in carmillaonline.com, 6 gennaio 2015). Cfr. Franz Mehring, Vita di Marx, cit., p. 80.

[9] Ludovico Silva, Lo stile letterario di Marx, Bompiani, Milano 1973, p. 19. “Varrebbe la pena di ristamparlo”, scrisse Umberto Eco a proposito di questo libro (in Umberto Eco: uno spettro (di Marx) si aggira nella globalizzazione, in La Stampa TuttoLibri, 3 ottobre 2015).

[10] Colloqui con Marx e Engels, Testimonianze sulla vita di Marx e Engels raccolte da Hans Magnus Enzensberger, Einaudi, Torino 1977, p. 5.

[11] “Sono tanto avanti che entro cinque settimane sarò pronto con tutta la merda economica.”, 2 aprile 1851 (MEOC, vol. XXXVIII, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 249); “Tutta questa merda sarà distribuita in sei libri.”, 2 aprile 1858 (MEOC, vol. XL, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 329).

[12] Colloqui con Marx e Engels, Testimonianze sulla vita di Marx e Engels raccolte da Hans Magnus Enzensberger, Einaudi, Torino 1977, p. 178.

[13] Karl Marx, Il capitale. Libro primo, Traduzione di Delio Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 300.

[14] Karl Marx, Grundrisse. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, in MEOC, vol. XXIX, Traduzione di Giorgio Backhaus, Editori Riuniti, Roma 1986, p. 218.

[15] István Mészáros, La teoria dell’alienazione in Marx, Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 233.-234.

[16] Karl Marx, Teorie sul plusvalore, Vol. I, Traduzione e prefazione di Giorgio Giorgetti, Editori Riuniti, Roma 1961, pp. 599-600. Scritte tra il gennaio 1862 e il luglio 1863, le Teorie sul plusvalore sono dei quaderni di carattere storico-critico che Marx definì come il “Libro quarto del Capitale”.

[17] Karl Marx, Lavoro salariato e capitale, Traduzione di Palmiro Togliatti, in MEOC, vol. IX, Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 208-209.

[18] Siegbert Salomon Prawer, La biblioteca di Marx, Traduzione di Marco Papi, Garzanti, Milano 1978, p. 161. Siegbert Salomon Prawer (Colonia, 1925 – Oxford, 2012), tedesco, figlio di genitori ebrei emigrati in Gran Bretagna nel 1939 per fuggire dal nazismo, è stato professore di Lingua e Letteratura Tedesca nelle Università di Oxford e Cambridge. Tra i suoi interessi critici, Heine, E.T.A. Hoffman e il Romanticismo tedesco. Nel 1976 Prawer pubblica in lingua inglese, presso la Oxford University Press, Karl Marx and World Literature (ristampato dall’editore Verso di Londra nel 2011), uno studio analitico di carattere storico-filologico che attraversa l’intera opera del filosofo tedesco (dalle opere minori al ricco epistolario e servendosi sempre dei testi originali), uno “studio cronologico – come scrive il germanista di Oxford – dei rapporti di Marx con la letteratura” (p. 7), in cui rintraccia la presenza palese o occulta dei grandi autori della letteratura mondiale del presente e del passato utilizzati da Marx in maniera, per utilizzare un termine della teologia, “consustanziale” alle sue argomentazioni di carattere filosofico, storico, politico, economico. Non, quindi, un uso ornamentale, retorico, sussidiario, ma necessario a Marx per dare “carne e sangue” e profondità estetico-concettuale alle sue idee. Il libro di Prawer non vuole essere, come egli stesso scrive nella presentazione, “un libro sul marxismo, né un tentativo di elaborare un’ennesima teoria marxista della letteratura. L’autore si propone, invece, di spiegare […] ciò che Marx ha detto della letteratura in vari momenti della sua vita, quale usi egli fece di tutti i romanzi, le poesie e le opere teatrali che lesse per diletto o per istruzione, e come egli introdusse, in opere non riguardanti direttamente la letteratura, la terminologia e i concetti della critica letteraria.” (p. 7). Il libro di Prawer venne ottimamente tradotto da Marco Papi (traduttore di Joyce, Gordimer, Henry James, Asimov e tanti altri) nella serie blu dei saggi Garzanti nel 1978. Mentre le ricerche bibliografiche furono curate da Alberto Aiello, storico redattore della MEOC (Marx-Engels Opere Complete di Editori Riuniti). Solo il titolo fu infelice: La biblioteca di Marx, probabilmente perché a quell’epoca in Italia non suonava familiare la nozione goethiana di “letteratura mondiale”. Quando uscì nel 1978 il libro di Prawer fu totalmente ignorato (forse perché scritto da un riservato filologo oxoniense anglo-tedesco estraneo ai clamori politico-culturali di quel tempo e per giunta neanche dichiaratamente “marxista”). Gli studi su Marx erano volti verso altre direzioni. A tutt’oggi, inoltre, esso rappresenta ancora, a livello internazionale, la più esauriente e autorevole trattazione del rapporto di Marx con la letteratura mondiale.

[19] J. W. Goethe, Torquato Tasso, a cura di Eugenio Bernardi, traduzione di Cesare Lievi, Marsilio, Venezia 1988, p. 231-233.

[20] Idem, p. 262.

[21] Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Prefazione e traduzione di Norberto Bobbio, Einaudi, Torino 1978, p. 131.

[22] Karl Marx, Introduzione alla critica dell’economia politica, Commento storico critico di Marcello Musto, Traduzione di Giorgio Backhaus, Quodlibet, Macerata 2010, p. 46.

[23] David Harvey, Marx e la follia del capitale, Feltrinelli, Milano 2018, p. 8.

[24] Karl Marx, Grundrisse. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, in MEOC, vol. XXIX, Traduzione di Giorgio Backhaus, Editori Riuniti, Roma 1986, p. 152.

[25] J. W. Goethe, Faust, introduzione, traduzione e note a cura di Franco Fortini, Mondadori, Milano 1970, Parte I, scena IV, vv. 1820-1827. Qui si riporta la traduzione di Fortini e non quella riportata da Bobbio.

[26] “Letteralmente: ‘togliere i cuscini… da sotto le teste’, che era un metodo per uccidere facendo mancare il fiato alle vittime.” [nota di Agostino Lombardo, in W. Shakespeare, Timone d’Atene, introduzione di Nemi D’Agostino, prefazione, traduzione e note di Agostino Lombardo, Garzanti, Milano 2009, p. 201].

[27] Il dio greco degli sposi.

[28] Dio romano della guerra. Per i greci, Ares, figlio di Zeus e di Era.

[29] Nome romano della dea greca Artemide, tra le massime del pantheon ellenico. Protettrice dei parti, delle mandrie, dei torrenti e dei fiumi e dea della caccia.

[30] “Marx riproduce la traduzione di Schlegel e Tieck.” […] Il corsivo è di Marx.” [nota di Norberto Bobbio, ndr]. Abbiamo qui utilizzato non la versione riportata da Bobbio ma la traduzione che Agostino Lombardo fece in occasione della messa in scena dell’opera con la regia di Luigi Squarzina, andata in scena al Teatro Argentina di Roma il 21 aprile 1983. Cfr. W. Shakespeare, Timone d’Atene, introduzione di Nemi D’Agostino, prefazione, traduzione e note di Agostino Lombardo, Garzanti, Milano 2009, pp. 125; 151-153.

[31] Tito Livio: “meretrix universalis”.

[32] Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Prefazione e traduzione di Norberto Bobbio, Einaudi, Torino 1978, pp.151-156.

[33] Antonio Meo, Introduzione, in W. Shakespeare, Timone di Atene, Garzanti, Milano 1977, p. XVIII.

[34] Giorgio Melchiori, Introduzione al “Timone d’Atene”, in W. Shakespeare, Teatro, vol. VII, Mondadori, Milano 2008, p. 551.

[35] Idem, p.552.

[36] Pier Vincenzo Mengaldo, Antologia personale, Bollati Boringhieri, Torino 1995, pp. 110-111.

[37] MEOC, vol. III, Editori Riuniti, Roma 1976, p.156.

[38] W. Shakespeare, Timone d’Atene, Atto IV, scena III, introduzione di Nemi D’Agostino, prefazione, traduzione e note di Agostino Lombardo, Garzanti, Milano 2009, p. 33.

[39] Frank Kermode, Il linguaggio di Shakespeare, Bompiani, Milano 2000, p. 278.

[40] Matteo Maria Boiardo, Timone, vv. 28-39, a cura di Luciano Serra, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia 1994, p. 27.

[41] Cesare Pascarella, La scoperta dell'America e altri sonetti, Mondadori, Milano 1968, p. 53. Diamo la parafrasi italiana del testo: “Gli amici? Ti aprono le braccia/Fino a quando non hai bisogno e fino a quando hai disponibilità economica;/Ma se, e Dio ci scampi, ti ritrovi nei guai,/Ti sbattono, figlio mio, la porta in faccia.// […] Perché nel mondo, in questa faggeta di assassini [probabile riferimento ai boschi di faggi nei Colli Albani vicino Roma dove si nascondevano i briganti],/Lo vuoi sapere chi sono gli amici veri?/Lo vuoi sapere chi sono? Sono i soldi.” Riportiamo per completezza il sonetto intero: “L’amichi? Te spalancheno le braccia/Fin che nun hai bisogno e fin che ci hai;/Ma si, Dio scampi, te ritrovi in guai,/Te sbatteno, fio mio, la porta in faccia.//Tu sei giovene ancora, e ‘sta vitaccia/Nu’ la conoschi; ma quanno sarai/Più granne, allora te n’accorgerai/Si a ‘sto monno c’è fonno o c’è mollaccia.//No, fio mio bello, no, nun so’ scemenze;/Quer che te dice mamma, ‘sti pensieri/Tiètteli scritti qui, che so’ sentenze;//Che ar monno, a ‘sta Fajola d’assassini,/Lo voi sapé’ chi so’ l’amichi veri?/Lo voi sapé’ chi so’? So li quatrini.”.

[42] J. W. Goethe, Faust, vv. 1593-1594, Traduzione di Franco Fortini, Mondadori, Milano 1970, p. 123.

[43] Samir Gandesha, Johan F. Hartle, The Aesthetic Marx, Bloomsbury, London 2017, p. xi. La traduzione è di Rolando Vitali nella sua recensione al libro in http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2018/05/05/karl-marx-e-l%E2%80%99estetica/

[44] Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Prefazione e traduzione di Norberto Bobbio, Einaudi, Torino 1978, p. 128.

[45] Siegbert Salomon Prawer, La biblioteca di Marx, Traduzione di Marco Papi, Garzanti, Milano 1978, p. 87.

[46] W. Shakespeare, Timone d’Atene, introduzione di Nemi D’Agostino, prefazione, traduzione e note di Agostino Lombardo, Garzanti, Milano 2009, p.

[47] Antonio Meo, Introduzione, in W. Shakespeare, Timone di Atene, Garzanti, Milano 1977, p. XVIII.

[48] Giorgio Melchiori, Introduzione al “Timone d’Atene”, in W. Shakespeare, Teatro, vol. VII, Mondadori, Milano 2008, p. 552.

[49] Agostino Lombardo, Prefazione, in W. Shakespeare, Timone d’Atene, introduzione di Nemi D’Agostino, prefazione, traduzione e note di Agostino Lombardo, Garzanti, Milano 2009, pp. XXXVII e XXXIX.

[50] Così soprannominato per la carnagione scura, il barbone e i capelli folti, oltreché per la sua grandissima passione per le opere di Shakespeare, in una delle quali, l’Otello, il celebre protagonista è chiamato il “Moro di Venezia”,

[51] Colloqui con Marx e Engels, Testimonianze sulla vita di Marx e Engels raccolte da Hans Magnus Enzensberger, Einaudi, Torino 1977, pp. 244-245.

[52] Ludovico Silva, Lo stile letterario di Marx, Bompiani, Milano 1973, pp. 33-34.

[53] Idem, pp. 42, 45.

[54] Gabriele Pedullà, Tendance Karl, in Karl Marx, Scorpione e Felice, introduzione di G. Pedullà, con una nota di Claudio Magris, Editori Internazionali Riuniti, Roma 2011, pp. XI-XII.

[55] Idem, pp. XX-XXI.

[56] Walter Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962, p. 79.

[57] MEOC, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1980, pp. 754-755.

[58] Che curiosamente nella traduzione italiana, è un endecasillabo a maiore (vedi nota 76) con accenti di 3ª, 6ª, 10ª.

[59] “Catilinarie (lat. Catilinariae). Titolo di quattro orazioni pronunciate da Marco Tullio Cicerone, nell’anno del suo consolato (63 a.C.), contro Lucio Sergio Catilina (108-62 a.C.), l’uomo politico da lui accusato di aver cospirato ai danni della Repubblica. www.treccani.it/enciclopedia/catilinarie.

[60] Umberto Eco: uno spettro (di Marx) si aggira nella globalizzazione, in La Stampa TuttoLibri, 3 ottobre 2015.

[61] Siegbert Salomon Prawer, La biblioteca di Marx, Traduzione di Marco Papi, Garzanti, Milano1978, p. 93.

[62] Bertolt Brecht, Diario di lavoro. Volume secondo. 1942-1955, a cura di Werner Hecht, Traduzione di Bianca Zagari, Einaudi, Torino 1976, p. 804.

[63] Franco Fortini, Introduzione a Bertolt Brecht, Poesie e canzoni, traduzione di Ruth Leiser e Franco Fortini, Einaudi, Torino 1981 (prima edizione 1959), p. XVI. Anche le notizie sul testo e la citazione degli esametri di Brecht, provengono da questa edizione alle pp. 204-205.

[64] Colloqui con Marx e Engels, Testimonianze sulla vita di Marx e Engels raccolte da Hans Magnus Enzensberger, Einaudi, Torino 1977, pp. 248-249; 245.

[65] MEOC, vol. XLII. Editori Riuniti, Roma 1974, p. 142. Lettera del 31 luglio 1865.

[66] Siegbert Salomon Prawer, La biblioteca di Marx, Traduzione di Marco Papi, Garzanti, Milano1978, p. 53.

[67] Elisabetta Mengaldo, Metabolismo e teatro, alchimia e religione. Appunti per una metaforologia del Capitale di Karl Marx, in A. Fribo, S. Bozzola, A. Soldani, a cura di, Le occasioni del testo. Venti letture per Pier Vincenzo Mengaldo, Cleup, Padova 2016, p. 186.

[68] Karl Marx, Friedrich Engels, Manifesto del partito comunista, traduzione di Palmiro Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 58.

[69] Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 5.

[70] MEOC, vol. XLVIII, Editori Riuniti, Roma 1983, pp. 492-494.

[71] Nicolao Merker, Karl Marx. Vita e opere, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 105.

[72] E’ il titolo che Franco Fortini dà ad una sua amara, sarcastica e insieme ironica poesia del 1957, Weltgeschichtlich (ossia – scrive l’autore in una nota – “dal punto di vista di una storia mondiale”): “Come la lanterna del duomo/era grande la bocca della giovinetta/che due cattivi legavano a un palo/sullo schermo del drive-in. Gesù/parlava con l’accento del pontefice/ - high fidelity – nel microsolco./Tre scrittori francesi domandavano/la via di Auschwitz/a un comunista ucraino morto a colpi/di leninismo nelle costole. Era/difficilissimo, vivere. Noi,/per fortuna, avevamo una villetta/ a Cavi di Lavagna; ed i decenni/passano in fretta.” (Franco Fortini, Tutte le poesie, a cura di Luca Lenzini, Mondadori, Milano 2014, p. 209).

[73] Antonio A. Santucci, Economia e Weltliteratur, in A.A. Santucci, Senza comunismo. Labriola Gramsci Marx, Editori Riuniti, Roma 2001, pp. 120-121 (seconda edizione a cura di Lelio La Porta e Donatello Santarone, Editori Riuniti, Roma 2017).

[74] Karl Marx, Discorso per l’anniversario di “The People’s Paper”, in MEOC, vol. XIV, Editori Riuniti, Roma 1982, pp, 655-656. Robin Goodfellow (“bravo ragazzo”), conosciuto anche come Puck, nella tradizione mitologica e favolistica inglese è una sorta di folletto autore dei più imprevedibili incantesimi. Nella commedia di Shakespeare è al servizio di Oberon, il re delle fate, con il quale si diverte a confondere la vita dei quattro giovani protagonisti dell’opera. E’ assai singolare che l’immaginazione di Marx arrivi ad attribuire ad un folletto il compimento della rivoluzione. Ma se pensiamo che l’abbattimento del capitalismo e la costruzione del comunismo è per Marx un’opera di radicale rovesciamento delle gerarchie economiche e sociali, il riferimento ad un facitore di incantesimi che scardina i ruoli è molto pregnante.

[75] J. P. Eckermann, Conversazioni con Goethe, traduzione di A. Vigliani, Einaudi, Torino 2008, p. 176.

[76] E. Ganni, Note a J. P. Eckermann, Conversazioni con Goethe, traduzione di A. Vigliani, Einaudi, Torino 2008, p. 633. “In realtà – ha scritto Remo Ceserani – Goethe non fu il primo in Germania a parlare di Weltliteratur. Lo studioso tedesco Hans-J. Weitz ha scoperto […] che la parola Weltliteratur (se non proprio il concetto goethiano) era stata usata dal poeta, narratore e traduttore di Shakespeare Cristoph Martin Wieland.” (Cfr. Giuliana Benvenuti – Remo Ceserani, La letteratura nell’età globale, il Mulino, Bologna 2012, pp. 42-43).

[77] Nonostante Said includa anche Goethe nella categoria degli “orientalisti” (cfr. E. Said, Orientalismo, Feltrinelli, Milano 2005), non risparmiando neanche Marx. Il quale, in verità, con il passare degli anni ebbe posizioni sempre più critiche nei confronti del colonialismo dei paesi capitalistico-occidentali. L’estraneità di Marx a qualsivoglia “costruzione” orientalista è documentata, anche sulla base della nuova edizione critica della MEGA², da Marcello Musto nei volumi L’ultimo Marx. 1881-1883, Donzelli, Roma 2016 e Karl Marx. Biografia intellettuale e politica. 1857-1883, Einaudi, Torino 2018. In un altro scritto sul tema (Un europeo non eurocentrico, in A. Carioti, a cura di, Karl Marx vivo o morto?, Solferino, Milano 2018), Musto ricorda le critiche dell’indiano Ranajit Guha, fondatore dei “Subaltern Studies”, a quanti, e tra questi Said, non contestualizzano storicamente le affermazioni di Marx spesso estrapolandone alcune frasi.

[78] Claudio Magris, Goethe, la prosa del mondo e la “Weltliteratur”, in C. Magris, Utopia e disincanto, Garzanti, Milano 1999, pp. 122-123; 126.

[79] “Allargare il canone sino a includervi gli stranieri comporta … far ricorso prevalente alla traduzione invece che alla lingua originale. In molti casi, niente di male: ciascuno di noi ha ammirato Guerra e pace o Delitto e castigo, riconoscendoli come capolavori letterari, pur senza sapere una parola di russo. Qualcosa, certo, va perduto; ma è importante notare – come ha fatto Francesco Orlando – che una serie di strutture portanti della letterarietà sono sicuramente transnazionali in quanto indipendenti dalla lingua nazionale: i generi, la forma del contenuto e l’organizzazione interna delle opere, molte figure retoriche (le cosiddette figure di pensiero), la metrica, i temi non dipendono dalla lingua. Nel romanzo, per esempio, le forme del contenuto sono in genere assai più rilevanti degli aspetti fonici e fonico-simbolici. Se è vero che la traducibilità resta un problema insuperabile per la poesia lirica (per la quale l’organizzazione dei significanti è fondamentale e per cui dunque bisognerà tendere sempre a offrire una traduzione a fronte, senza rinunciare all’originale), così non è per l’epica, per la novellistica, per il romanzo, per le opere teatrali. Se, per esempio, la conoscenza del romanzo ottocentesco si limitasse a quella, pure importante, di Manzoni e di Verga, se ne avrebbe un’idea ben modesta.” (Luperini R., Cinque tesi sull’insegnamento della letteratura, in L’ospite ingrato. Società/conoscenza/educazione, Semestrale del Centro Studi Franco Fortini, Anno ottavo I / 2005, Quodlibet, Macerata 2005, pp. 96-97).    

[80] “Per la prima volta nella storia moderna, l’intero grandioso edificio del sapere umanistico, poggiante sui classici delle lettere europee, e con esso la disciplina di studio inculcata formalmente agli studenti nelle università occidentali, in forme a noi tutte familiari, rappresentano solo una frazione delle reali relazioni e interazioni umane attualmente in atto nel mondo.” (Edward Said, Per una critica laica, “Allegoria”, 48, settembre-dicembre 2004, p. 23).

[81] Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, in Opere minori, Utet, Torino 1983, pp. 397-399.

[82] Juggernaut è l’adattamento inglese del nome indostano Jagannāth, “Protettore dell’Universo”. E’ una divinità indiana, ottava incarnazione di Visnù. Talvolta i fedeli si facevano schiacciare sotto le ruote del carro che recava la sua effige.

[83] Karl Marx, Il capitale. Libro primo, Traduzione di Delio Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 706.

[84] Colloqui con Marx e Engels, Testimonianze sulla vita di Marx e Engels raccolte da Hans Magnus Enzensberger, Einaudi, Torino 1977, p. 178.

[85] Karl Marx, Il capitale. Libro primo, Traduzione di Delio Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 35.

[86] Riportiamo la parafrasi delle terzine dal commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi (Zanichelli, Bologna 2000, p. 84): “Perché il tuo animo rimane così preso”, disse il mio maestro, “che rallenti il cammino? che t’importa di ciò che qui si bisbiglia? Vieni dietro a me, e lascia dire la gente: sta’ saldo come una torre ferma, che non scrolla qua e là la sua cima al soffio dei venti; poiché sempre l’uomo in cui un pensiero nasce continuamente sopra l’altro, finisce con l’allontanare da sé la meta (il segno) a cui è diretto, perché l’uno (il nuovo pensiero) indebolisce l’intensità dell’altro.” Insolla: rende molle, cedevole, quindi indebolisce.

[87] “L’endecasillabo, oltre all’accento costante sulla decima sillaba, ha un accento principale mobile, che cade per lo più o sulla quarta o sulla sesta sillaba. Alla parola che porta questo secondo accento principale, segue nella lettura una pausa: il verso ha cioè una cesura. La cesura divide il verso in due emistichi, l’uno più breve e l’altro più lungo. Quando il secondo accento principale cade sulla quarta sillaba, il primo emistichio è più corto e allora il verso si chiama endecasillabo a minore; quando il secondo accento principale cade sulla sesta sillaba, il primo emistichio è più lungo, e si tratta allora di un endecasillabo a maiore.” (W. Th. Elwert, Versificazione italiana dalle origini ai giorni nostri, Le Monnier, Firenze 1979, p. 52).

[88] Daniele Maria Pegorari, Il Codice Dante. Cruces della ‘Commedia’ e intertestualità novecentesche, Stilo Editrice, Bari 2012, pp. 69-70; 74. Sul rapporto tra Dante e Marx si vedano anche: Egidio Guidobaldi, L’esule Karl Marx in prospettiva dantesca, in AA.VV., Dantismo russo e cornice europea, Olschki Editore, Firenze 1989 e Giovanni Sgro’, “Segui il tuo corso, e lascia dir le genti!”. Karl Marx lettore della Commedia, in Dante. Rivista internazionale di studi su Dante Alighieri, X – 2013, Fabrizio Serra Editore, Pisa – Roma 2014.

[89] Karl Marx, Il capitale. Libro primo, Traduzione di Delio Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 281.

[90] Franco Fortini, Le rose dell’abisso. Dialoghi sui classici italiani, a cura di Donatello Santarone, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 27.

[91] “La profonda ipocrisia, l’intrinseca barbarie della civiltà borghese ci stanno dinanzi senza veli, non appena dalle grandi metropoli, dove esse prendono forme rispettabili, volgiamo gli occhi alle colonie, dove vanno in giro ignude. […] Gli effetti distruttivi dell’industria inglese, visti in rapporto all’India – un paese grande come tutta l’Europa – si toccano con mano, e sono tremendi. Ma non dimentichiamo ch’essi non sono che il risultato organico dell’intero sistema di produzione com’è costituito oggi. Questa produzione si fonda sul dominio assoluto del capitale.” (K. Marx, F. Engels, India Cina Russia,.a cura di Bruno Maffi, Il Saggiatore, Milano 2008 (I ed. 1960), pp. 108-109).

[92] Egidio Guidobaldi, cit., ricorda altri illustri esuli come Ugo Foscolo e Gabriele Rossetti che guardarono sempre a Dante come exemplum di esule politico.  

[93] L’Alien Bill (Legge sugli stranieri) fu approvato dal parlamento inglese nel 1793 e infine nel 1848, in connessione con gli avvenimenti rivoluzionari sul continente e con la dimostrazione cartista del 10 aprile 1848 perché venisse accolta la Carta del popolo. Secondo la legge, uno straniero poteva: essere espulso dall’Inghilterra in qualsiasi momento, su disposizione del governo. La legge rimase in vigore fino al 1850 [sintesi da note MEOC, vol. XI, pp. 660 e 695].

[94] Paradiso, XVII, 58-60. “Come è amaro il pane che si riceve dagli altri, e come è penoso dover scendere e salire […] nella case altrui, a chiedere ospitalità”. (Anna Maria Chiavacci Leonardi, Commento al “Paradiso”, Zanichelli, Bologna 2001, p. 311).

[95] MEOC, vol. XI, pp. 558-559.

[96] Ruge a Feuerbach, 15 maggio 1844, cit. in Ludovico Silva, Lo stile letterario di Marx, Bompiani, Milano 1973, p. 20.

[97] Valentino Gerratana, Prefazione, a Marx e Engels, Sull’arte e la letteratura, Universale Economica, Milano 1954, pp. VIII-IX.

[98] Il capitalismo non è eterno e Marx è ancora necessario, “Corriere della sera”, 8 aprile 2018. Cfr. le parole di Engels a Bloch già citate a pag. 25: “studiare questa teoria sulle fonti originali e non di seconda mano.”

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