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Categoria: Saggi
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Carla Filosa

 

E’ ormai consuetudine autodefinirsi marxisti per poi negare, ignorare o voler superare Marx, in nome dell’avanzamento dei tempi o di altri problemi attuali che Marx “non aveva previsto”, ma di cui bisogna parlare per inficiare i cardini della sua analisi. Questo ormai il ruolo che il capitale ha assegnato alla “sinistra” – ignara di sé stessa - per opporre uno stuolo di “progressisti conservatori”, intellettuali e/o politici, ai lavoratori da suddividere con ogni mezzo materiale, legge e sperpero di ideologia come falsa coscienza.

E’ questo il caso anche di Silvia Federici, accademica (insegna filosofia politica all’Hofstra college di Long Island, NY), femminista illuminata e riconosciuta da un sistema grato del servizio antimarxista e anticomunista reso con fervida convinzione, e capace di costruire un plotone di followers con rivendicazioni anche condivisibili, ma poste su categorie e piani sociali purtroppo inoffensivi.

Più precisamente si intende qui commentare e/o “rispondere” – non ad una richiesta mai attivata dall’interessata – ma ad alcuni articoli, in particolare quello del 16.04.2021 su Internazionale 1405 dal titolo “Ve l’avevo detto”, e all’intervista rilasciata al Manifesto (30.01.2020) intitolata “Quello che Marx non ha visto” a proposito di “Genere e Capitale. Per una lettura femminista di Marx”, ultimo suo libro per Derive Approdi.

Basarsi sull’“esperienza delle lotte”, come Federici afferma di partire nella sua disamina, se può appagare una certa rappresentazione soggettiva del fenomeno “femminile”, non va oltre una conoscenza irrazionale del razionale (come Hegel ha insegnato a riconoscere), che non consente cioè l’accesso alla concettualizzazione necessaria della conoscenza, che deve invece individuare le differenze interne specifiche del problema da analizzare. Innanzi tutto l’autrice inspiegabilmente rimprovera a Marx di non aver considerato a sufficienza la “distruzione” nella sua analisi, da cui invece emerge che la borghesia la porta al suo interno già dal suo nascere, nella funzione rivoluzionaria contro tutte le condizioni di vita feudali per cui “non ha lasciato tra uomo e uomo (nel senso di essere umano generico!) altro vincolo che il nudo interesse, lo spietato «pagamento in contanti»…Ha fatto della dignità personale un semplice valore di scambio”[1] . Nel continuo, necessario, inarrestabile rivoluzionamento delle forze produttive borghesi l’analisi marx-engelsiana non fa mistero della ineluttabile distruttività del rapporto di produzione a cominciare dal prodursi dell’“epidemia delle crisi” da sovrapproduzione, “distruggendo forzatamente una grande quantità di forze produttive, conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente i mercati già esistenti”[2]. Ed ancora, “Quanto meno il lavoro manuale esige abilità e forza, vale a dire quanto più l’industria moderna si sviluppa, tanto più il lavoro degli uomini viene soppiantato da quello delle donne e dei fanciulli. Le differenze di sesso e di età non hanno più nessun valore sociale per la classe operaia. Non ci sono più che strumenti di lavoro, il cui costo varia secondo l’età e il sesso”.[3] Dunque le donne, equiparate a uomini e fanciulli in quanto solo portatrici di forza-lavoro, sono anch’esse “strumento di lavoro” di valore diverso entro una stessa classe produttrice di plusvalore e della riproduzione del sistema di sfruttamento.

Da queste prime affermazioni del Manifesto (1847-48) risulta chiaro che la distruttività costituisce il DNA del modo di produzione capitalistico - di cui Federici non fa mai menzione - quale cardine specifico di questo superabile sistema storico, in cui i generi di uomo e donna si qualificano come soggetti storici in quanto appartenenti alla classe dominante o subalterna, e questa distinzione attraversa con diverse prossimità tutte le classi sociali di ogni Paese. E’ questo il concetto chiave che si perde in questo femminismo irrelato, avulso dal contesto storico in cui le donne, liberate solo perché servono al capitale come forza-lavoro necessariamente aggiunta, diventano fonte di lavoro salariato da pagare meno e contemporaneamente gratuito nel loro tradizionale lavoro casalingo e di cura, relegato come individuale e non sociale per quello che invece è sempre stato, cioè come invisibile lavoro per altri.

Il concetto di distruttività, inoltre, Marx-Engels lo individuano proprio all’interno della progressività dialettica del processo di valorizzazione capitalistica, in cui la costrizione a rinnovare continuamente i mezzi produzione contemporaneamente comporta l’aumento del degrado umano e naturale. Engels poi arrivò a definire questa realtà “omicidio sociale”, in “La situazione della classe operaia in Inghilterra” (1845), corroborato come conferma da molte denunce effettuate dagli ispettori di fabbrica riportate nel Capitale, relativamente al lavoro in condizioni mefitiche di uomini, donne e fanciulli. Oggi l’inquinamento planetario sotto gli occhi di tutti mostra con ripetuta evidenza l’incompatibilità di questo sistema con la stessa vita delle popolazioni assoggettate e del pianeta stesso, per effetto del rapporto predatorio dovuto all’accumulazione in crisi apparentemente irrisolvibile, da cui il capitale mondiale non riesce più a uscire.

Nell’ambito di una metodologia dialettica volta a cogliere la totalità del sistema di capitale, l’analisi marx-engelsiana prosegue continuamente nell’individuare tutte le specifiche articolazioni di questo sistema produttivo e riproduttivo di sé stesso, entro cui siamo tutti condizionati, senza che questo femminismo si avveda della differenza tra riproduzione del sistema e subordinata riproduzione sociale, dipendente dalla prima. L’occupazione femminile come pure la sua espulsione dal mercato del lavoro sono alla mercé delle scelte proprietarie borghesi esattamente come conviene a questa classe dominante, e pertanto le leggi relative alle famiglie sono varate da uno Stato al servizio di quest’ultima. Le donne proletarizzate – a differenza di quelle appartenenti alla upper-class - sono così, anche contemporaneamente, giuridicamente un jolly, ora lavoratrici per il ribasso del valore della forza-lavoro (non a caso ancor oggi ricevono un salario inferiore a quello maschile a parità di mansioni, in totale spregio anche della Costituzione italiana!), ora erogatrici di lavoro sociale invisibile in quanto non salariato, ovvero non dipendente direttamente da capitale ma sostenuto da un qualsivoglia reddito, ora riproduttrici di esseri umani, cioè di potenziale forza-lavoro quale unica merce non capitalistica, precisamente in tale contesto. Se dunque il lavoro femminile, quale forza sociale monopolizzabile (al pari di quello di ogni altro genere e marginalizzazione) non può trasformarsi in capitale, non viene riconosciuta neppure più la persona umana che ne è portatrice, con tutte le sue attività conservative e riproduttive e i suoi pluriaffermati “diritti alla vita, in particolare alla propria”. Le esigenze femminili funzionali all’appartenenza sociale attiva, quali asili nido, ausili per la cura di anziani, disabili, ecc. poiché costituiscono un costo sociale da contenere, sono scarsissimi e si è spesso preferito risparmiare con il “lavoro dell’amore” i necessari ammortizzatori sociali.

Ancora Marx ed Engels, come comunisti, si propongono di “abolire la posizione delle donne come semplici strumenti di produzione”[4]. Come non riconoscere in tale frase la sintesi della totale condizione femminile, non delineata dettagliatamente, ma onnicomprensiva del rapporto di subalternità sociale e personale? E’ solo in un’ottica di classe – che Federici ignora – che l’emancipazione femminile, e di tutte le altre marginalizzazioni razzizzate o meno, può effettuarsi. A partire dall’abbattimento della fissità dei ruoli, per finire all’unità delle lotte universali per superare questo sistema, è necessaria una visione totalizzante in cui risulti evidente il criterio scientifico di collegamento imperniato sulla centralità del modo di produzione, fondato sullo sfruttamento o privatizzazione del lavoro sociale erogato gratuitamente nelle forme istituzionali normalizzate. La violenza strutturale, interna alla divisione del lavoro finalizzata alla produzione di plusvalore appropriabile, diventa manifesta solo entro una totalità socio-economica, i cui singoli episodi costituiscono una quota di visibilità che non risale mai, per limitatezza intrinseca, alle sue cause reali. Dalle mancate tutele della maternità ai femminicidi oggi quasi quotidiani, tali casi non debbono rimanere interni alla ghettizzazione del femminile separatista che protesta, si lamenta o rivendica più o meno con indignazioni moralistiche, ma vanno considerati all’interno delle matrici utili di questo sistema.

La donna è sempre stata usata, in questo sistema, come vantaggiosa disgregazione da portare all’interno della classe da sfruttare, ottenendone così un facile consenso, da contabilizzare in termini di voti. La divaricazione tra lavoro salariato, come dumping interno alla classe, e lavoro cosiddetto familiare ha reso due volte la donna schiava salariata e schiava delle pastoie storiche di un patriarcato ottimamente modernizzato capitalisticamente, per sostituire con energie vive inferiorizzate gli ammortizzatori sociali inesistenti o carenti a livello istituzionale, e così coprire i risparmi occulti del capitale. Il salario alle casalinghe infatti – di cui si parla dagli anni ’70 e si fa paladina anche Federici - costituirebbe una giusta conquista se solo si avesse la forza di imporla al pagamento dei profitti dei capitali operanti a livello nazionale, ma che molto spesso neppure pagano le tasse risparmiando anche quelle nei paradisi fiscali, o comunque dove vengono loro offerti vantaggi legali, burocratici, infrastrutturali e salariali. Il salario alle casalinghe diventa altrimenti la solita richiesta orante allo Stato nell’illusione della sua neutralità – che Marx-Engels avevano definito addirittura “superstiziosa” -, quando invece, nel migliore dei casi, non potrebbe che risolversi nella usuale ripartizione del salario indiretto attraverso la fiscalità generale. Cioè di nuovo a carico dei lavoratori occupati, senza più considerare la classe composta da occupati e non nella stratificazione di un esercito di riserva, ormai estremamente frantumato nelle forme crescenti di precarizzazione, quale risparmio costante dei costi di riproduzione del capitale. La riserva femminile da questo punto di vista è preziosa perché è stata costituita come un vivaio di valore d’uso senza valore – come l’aria, l’acqua, ottenute senza lavoro – e a cui quindi si attinge gratuitamente nella normalità delle cose. Il valore della forza-lavoro mercificata è dato unicamente dal suo essere venduta, diversamente non è nulla per il capitale. Anche per il concetto di valore non è mai troppo precisare che va identificato nella sua scientificità come tempo di lavoro socialmente necessario, da non confondere con il termine che indica una pluralità generica di significati. In questo caso, infatti, ci si riferisce alla capacità, propria della forza-lavoro, di creare valore maggiore del semplice trasferimento di valore dalle materie prime al nuovo prodotto, questo valore aggiunto (plusvalore) va poi a costituire buona parte del profitto – nel processo di autovalorizzazione del capitale entro il processo lavorativo, storicamente coincidenti solo nel modo di produzione capitalistico. Purtroppo anche questo concetto è sfuggito a Federici che mostra di non conoscere la distinzione del processo lavorativo, comune a tutti i modi di produzione precapitalistici, e del processo di valorizzazione specifico di questo sistema, che avviene mediante lo sfruttamento di tutta la forza-lavoro venduta, svalorizzata per definizione e costantemente divisa per indebolirne la potenziale forza di emancipazione e/o rivoluzionaria.

In tal modo il sistema si avvale anche della popolazione femminile, anch’essa povera o impoverita, sottomessa dalla necessità e dalle tradizioni, identificata per natura come tutte le altre diversità costruibili rispetto al maschio per lo più bianco come altro stereotipo contrapposto, ma dominante, in cui è più facile nascondere la brama di ricchezza e il conseguente comando sul lavoro degli agenti di questo sistema. Il concetto di povero qui espresso, sia chiaro, non va opposto a ricco – come Federici sembra religiosamente riferirsi – ma è il secondo requisito perché il lavoro sia libero (da vincoli giuridici per potersi vendere autonomamente) e preordinato per la salarizzazione, per la dipendenza cioè dall’acquirente della forza-lavoro a cui necessariamente si rivolgerà in quanto povero. Non a caso sin dal 1800 venivano definiti labourers, o working poors, quelli sottopagati provenienti dai vagabonds, o beggars (vagabondi erano chiamati gli espropriati dalle terre e/o ridotti a mendicanti, costretti a trovare un altro lavoro per non essere ridotti in schiavitù o uccisi). Più recentemente le varie soglie di povertà contabilizzate fino ai nostri giorni hanno incluso nei poors anche gli inoccupati, i parzialmente occupati volontari e non, gli scoraggiati, ecc. senza distinzione di sesso, razza, religione, etnia, appartenenza politica o provenienza da qualsivoglia migrazione. L’egualitarismo sventolato sulle bandiere della borghesia alla sua ascesa si è spostato poi facilmente sul solo mercato del lavoro, se si fa attenzione a intravvedere la classe atomizzata degli sfruttati nel variegato underground della mercificazione della forza-lavoro, mentre se si guarda a questi individui singoli si vede una infinità di differenziazioni che ne impediscono il reciproco riconoscimento e sostanziale unità. Nel caso del femminile, il più vasto bacino di differenziazione che pesca dal naturale per riversare sul sociale una creazione ex-post appositamente inferiorizzata, si nota così una maggioranza numerica fatta funzionare da minoranza che non conta, e sulla quale è stata ingaggiata un’offensiva ideologica che renda ogni donna proletarizzata colpevole di qualsiasi anelito di eguaglianza o libertà personale, non prevista dalla mentalità e dalle normative vigenti. Il lavoro di riproduzione sociale, dalla maternità alle infinite incombenze di manutenzione casalinga e cura familiare, ultima aggiunta anche la pandemia attuale (13 milioni di donne nel ‘21 hanno perso il lavoro, mentre gli uomini son risultati non molto diversificati dal ’19. In Europa e Asia l’occupazione femminile è calata del 2,5% rispetto all’1,9% maschile) costituisce motivo di allontanamento o espulsione dal mercato del lavoro. In questo, peraltro, se si torna - ma già sembra chiaro che le perdite persisteranno - si scendono livelli di mansionario e remunerazione, senza contare l’oggettivo impedimento, tradizionalmente appesantito dall’ideologia dominante, volto alla limitazione delle scelte culturali e di vita fin dalla più tenera età delle bambine. Ciò indica che la “questione femminile” non è solo a carico di chi è portatrice di ovaie, ma è un vulnus sociale che dovrebbe coinvolgere la coscienza collettiva soprattutto di chi subisce lo sfruttamento fatto apparire come normalità lavorativa eternizzabile.

A proposito del “processo di concentrazione” - cui Federici si avvicina senza arrivare a completare questo sviluppo storico con il processo di “centralizzazione” del capitale nella sua consolidata fase imperialistica, non si trova mai nemmeno nominata questa fase di superamento del capitale concorrenziale nella progressività contraddittoria del sistema. Marx dimostra che proprio lo sviluppo anarchico, incontrollato delle forze produttive del capitale determina il proliferare di “gerarchie” tra capitali e Stati, nella divisione internazionale del lavoro sempre in evoluzione. Le differenze e ineguaglianze sociali e politiche, quindi culturali, in costante aumento soprattutto oggi, sono proprio la conseguenza della centralizzazione crescente dei capitali più forti in grado di raschiare il barile di tutta la ricchezza già prodotta, e soprattutto quella futura, sottraendola alla popolazione mondiale ridotta nella dipendenza, anch’essa pesantemente gerarchizzata. Omettere di indicare la provenienza dell’arbitrio e del comando sul mercato mondiale, dopo l’analisi marxiana mai confutata ma evitata per i suoi cosiddetti “silenzi”, significa allora colludere con l’obliterazione delle cause che hanno determinato impoverimento sociale al di sotto della sopravvivenza in molte parti del mondo, anche a noi molto vicine, disastri ambientali d’ogni tipo, di cui forse alcuni già irreversibili, e prospettive di conflitti bellici ulteriormente amplificati rispetto a quelli già da sempre esistenti.

A proposito di guerre, appare utile menzionare un articolo di Sara Valentina Di Palma (Università di Siena) su Storicamente, 14.06.2014: “Corpi di donne in guerra. La violenza sessuale in Bosnia e Ruanda e i problemi del dopoguerra”. Se la guerra è da sempre il luogo e il tempo degli orrori, quest’autrice ne ha individuato uno più specifico che arricchisce ulteriormente l’importanza di focalizzare l’uso delle donne sia in tempi di pace che di guerra, e cioè: “La strumentalizzazione del corpo femminile allo scopo di annientare il nemico, in una competizione politica di movimenti nazionalisti i quali prendono piede attraverso la sessualizzazione dei cittadini: uomini combattenti per la patria versus donne silenziose, complici o nemiche da annientare”. L’imperialismo occidentale che ha fatto definire “conflitti etnici” questi scontri apparentemente solo indigeni, ha innovato l’uso dello stupro di guerra nel finalizzarlo a rendere impossibile anche il recupero postbellico, unitamente al nuovo uso del corpo femminile – come simbolo della nazione - in questa strategia di annientamento. Si compromette così “il futuro del gruppo nemico nel dopoguerra”. I “sopravvissuti alla violenza sessuale furono marginalizzati, stigmatizzati e messi a tacere… fu limitato loro l’accesso alle cure mediche e psicologiche, mentre vecchi e nuovi perpetratori li sottoposero a ulteriori vessazioni”. “Questo lavoro fa propria la messa in discussione dell’attenzione di una parte del post-femminismo alla sola interiorità femminile… e sposa invece la tesi femminista che vede la violenza sessuale come un fenomeno in cui la donna non è soltanto una vittima passiva” ma ha anche una potenzialità di reazione “contro l’imposizione al silenzio o contro la manipolazione della memoria femminile al fine di revittimizzare le donne o per sfruttarne la vicenda nel nuovo nazionalismo del dopoguerra”. “La violazione di un popolo passa attraverso la violazione delle proprie donne… come mezzo di genocidio contro minoranze, di snazionalizzazione, di estirpazione di popoli e di deportazione (armeni)”. L’obiettivo di “disumanizzare e quindi sterminare il nemico” quale passaggio alla decolonizzazione in Africa o alla destrutturazione di Stati, unisce quindi lo stupro al genocidio, riconosciuti solo recentemente come crimini di guerra e contro l’umanità.

Questa citazione permette di spostare l’attenzione sull’uso perverso dell’eredità patriarcale ai fini profittevoli dell’imperialismo moderno, per osservarne tutte le implicazioni nell’alternanza pace/guerra in cui sofferenza e morte di intere popolazioni, le cui principali protagoniste sono donne, sono solo i numeri del calcolo per l’accaparramento di materie prime, di passaggio controllato di pipelines, di controllo territoriale strategico, ecc.

I “silenzi” di cui Marx è accusato da Federici, allora, evidenziano il modo in cui non si critica un autore per ciò che ha detto ma per ciò che si ritiene non abbia detto. Più facile. Marx non ha taciuto infatti sull’anarchia dei capitali che conducono alle crisi da sovrapproduzione e da queste alla necessaria distruzione di capitali, di ricchezza accumulata, di esseri umani. Le due ultime guerre mondiali e tutte quelle a bassa intensità attuali ne sono l’espressione più evidente, ancorché dissimulata. Per una formazione culturale come quella marxiana dobbiamo ritenere che lo sforzo analitico prioritario sia stato quello di mettere a fuoco le categorie fondanti il modo di produzione capitalistico, da cui discendono tutte le relazioni sociali dominanti e determinanti, le contraddizioni, la progressività storica bifronte, come già detto, compresa la superabilità del sistema di capitale. Tutte le implicazioni, le articolazioni, i dettagli e le modernizzazioni dell’esportazione di merci e riproduzione del sistema, sarà il percorso della coscienza storica che tutti siamo chiamati a corroborare.

Lavorare oltre su siffatti pilastri è ciò per cui l’immenso lavoro di questi padri teorici è stato intrapreso in mezzo a mille difficoltà epocali e personali. Pertanto lo sviluppo delle modalità con cui la forza-lavoro è stata suddivisa, usata e abusata (si pensi solo agli omicidi costanti sul lavoro chiamati una volta “omicidi bianchi”, cioè senza responsabili!) costituisce l’impegno di tutti i posteri che possano infatti documentare il procedere di questo sistema capace di calpestare ogni forma di vita che non si riconosca come profittevole. Si dà atto comunque a Federici di aver meritoriamente sostenuto e portato avanti la problematica sociale dell’emancipazione femminile, tragicamente arretrata se non addirittura inesistente nei paesi più dipendenti e saccheggiati dalla gerarchia imperialista. Ci si distanzia invece dal condividere la sua lettura su Marx, da cui il femminismo separatista è sempre rimasto molto lontano se non apertamente ostile. Forse un punto di convergenza comune è possibile coglierlo se pensiamo alla prospettiva già in atto nei paesi più sviluppati di emancipazione sociale femminile, quale condizione di sviluppo competitivo del sistema. Unitamente a tanti altri, e altre, le donne avranno pertanto un ruolo attivo determinante nell’emancipazione sociale dallo sfruttamento se non addirittura di guida razionale e spinta emotiva trainante, dettate proprio dalla necessità materiale e morale del rovesciamento di tutte le ingiustizie, vessazioni, violenze, preclusioni, limitazioni subite sulla propria pelle per secoli, nell’affermazione della loro presenza sociale da conquistare a tutela effettiva della propria e altrui natura, per instaurare una vita non più mercificabile.

Bibliografia

PERLA CRITICA. Dell’economia politica, secondo Marx. A cura di Gianfranco Pala. Napoli, La città del Sole.

Il Capitale, vol. I, K. Marx, ER. Roma, 1970.

Il Manifesto. F.Engels K. Marx. 1847-48. E.R. Roma.

La situazione della classe operaia in Inghilterra. F. Engels, 1845.

Ve l’avevo detto, Silvia Federici su Internazionale 1405, 16.04.2021.

Quello che Marx non ha visto. Silvia Federici. Una intervista di Paola Rudan a proposito di “Genere e Capitale” di imminente pubblicazione per Derive Approdi. Il manifesto, 30.01.2020.

Femminismo e movimenti: un rapporto ancora irrisolto. Silvia Federici. Su Pulp libri a cura di Elisabetta Michelin, 11.04.2020.

Corpi di donne in guerra. La violenza sessuale in Bosnia e Ruanda e i problemi del dopoguerra. Sara Valentina Di Palma (Università di Siena) su Storicamente, 14.06.2014:”

Autrici di civiltà. Un sito di donne, del passato presente, futuro che ridefiniscono la civiltà. Una lettura di Daniela Degan su “Genere e Capitale” di Silvia Fedderici. 17.07.2021

La crisi di lavoro e il suo doppio. Carla Filosa, su La Contraddizione, n. 39, novembre/dicembre 1993.

 

 

[1] K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista, Londra,1847.’48.

[2] Idem.

[3] Idem.

[4] Idem.

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