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Categoria: Saggi
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Alberto Destasio

 

Il 17/10/2021, sei docenti universitari hanno diramato un testo in cui Giorgio Agamben veniva difeso dal «bullismo» e dalla «violenza organizzata» degli autori del manifesto Non solo Agamben (redatto da cento professori di filosofia). La motivazione addotta dai sei è la seguente: il manifesto Non solo Agamben è un accanimento violento contro una persona «priva di potere politico e accademico».[1]

Prima di passare oltre, e a guisa di memorandum, apriamo la pagina della Treccani alla voce ‘bullismo’. «Bullismo s. m. [der. di bullo]. – Comportamento da bullo; spavalderia arrogante e sfrontata. In partic., atteggiamento di sopraffazione sui più deboli, con riferimento a violenze fisiche e psicologiche attuate spec. in ambienti scolastici o giovanili».

Salto in avanti e arriviamo al 07/12/2021. In Commissione Affari Costituzionali, Giorgio Agamben viene ascoltato come voce autorevole. Chi ha letto Foucault, sa che ogni prestazione effettuale di sapere è accompagnata da una produzione di potere. L’autorevolezza di Agamben dipende, credo, dai suoi lavori filosofici e dai suoi pronunciamenti sulla pandemia. Inutile ricordare in questa sede le incongruenze complottistiche de L’invenzione della pandemia, la sinofobia anticomunista di Capitalismo comunista, le lamentazioni reazionarie della piccola poesia Si è abolito l’amore,[2] o il Cittadini di seconda classe, vale a dire una riscrittura, con congiuntivi e virgole al loro posto, di un qualunque messaggio presente in un gruppo Telegram di no-vax. Qui basterà una rapida occhiata agli interventi più recenti.

In Uomini e lemmings del 28/07/2021, Agamben muove dalla nota diceria sul suicidio di massa dei lemmini (una bufala nata a seguito di un documentario della Disney) e afferma che gli esseri umani, con i vaccini, stanno replicando il gesto dei dolci roditori. La ragione? Un vago e astorico «istinto di morte» che accompagna tanto i lemmings, quanto gli esseri umani.

Nell’intervento in Commissione Affari Costituzionali del 07/10/2021, dopo aver ribadito la sua tesi, oramai ventennale, sullo stato di eccezione permanente, Agamben afferma che il green pass è analogo al lasciapassare sovietico o alle discriminazioni naziste anti-ebraiche.[3] Trattasi di tre manifestazioni della società di controllo in cui viviamo.

Riflettiamo su questi punti.

In merito alla società di controllo occorre domandare: quale sarebbe lo scopo politico ed economico di un controllo orizzontale degli individui? I problemi attuali delle società occidentali sono effettivamente la schedatura delle identità e il presunto tracciamento degli spostamenti? Gli Stati africani privi di vaccini hanno la possibilità di avanzare simili contestazioni? E gli immigrati?[4] In luogo di parlare di limitazioni della libertà più fantasmatiche che altro, non sarebbe più utile concentrarsi sulla mancata liberalizzazione dei brevetti vaccinali? Agamben, inoltre, non chiarisce perché il “Potere” debba limitare le nostre libertà individuali, le quali sono la base soggettuale necessaria al funzionamento del modo di produzione capitalistico. Secondo quale criterio è possibile distinguere e salvare le libertà individuali, le libertà dei “nostri corpi”, da quelle libertà che il potere capitalistico continua a riprodurre per perpetuarsi? Com’è possibile difendere le libertà individuali contro il modo di produzione capitalistico?

Il paragone tra green pass e leggi razziali/lasciapassare sovietico è storicamente irricevibile e moralmente deplorevole. Il green pass non vieta a nessuno l’ingresso in un esercizio per ragioni esclusivamente pseudo-biologiche (razziali) o religiose. Il green pass non ha come esito la Risiera di San Sabba. La tendenza agambeniana a ontologizzare i concetti politici, a costruire invarianti ultra-storiche, e dunque a rimuovere le ragioni materiali e contestuali dei vari momenti dell’accadere, non può che produrre un astrattismo analitico e, soprattutto, un’ambigua inoperosità politica. L’intera concettualizzazione agambeniana è inficiata da questa radicale anti-storicità. Ogni argomentazione elaborata da Agamben non tiene minimamente in conto le condizioni storiche e materiali di un concetto, di una categoria o di una pratica. La politica, per Agamben, è sempre stata biopolitica, sin dall’epoca dei greci. La biopolitica è la prestazione fondamentale e originaria della sovranità politica. Essa non è una pratica governamentale degli individui messa in atto dal modo di produzione capitalistico, né un eventuale terreno di lotta sociale e politica (come lo era per Foucault). Osserviamo un altro importante concetto agambeniano, l’‘inoperosità’.

L’opera inoperosa, scrive Agamben ne L’uso dei corpi, che risulta da questa sospensione della potenza, espone nell’atto la potenza che l’ha portata in essere: se è una poesia, esporrà nella poesia la potenza della lingua, se è una pittura, esporrà sulla tela la potenza di dipingere (dello sguardo), se è un’azione, esporrà nell’atto la potenza di agire. Solo in questo senso di può dire che l’inoperosità è poesia della poesia, pittura della pittura, prassi della prassi. Rendendo inoperose le opere della lingua, delle arti, della politica e dell’economia, essa mostra che cosa può il corpo umano, lo apre a un nuovo possibile uso.[5]

Nonostante Agamben non sia per nulla chiaro su questo punto, non è chiaro in che modo una forma-di-vita sarà in grado di agire dopo aver contemplato la propria potenza di agire. “Aprire il corpo umano a un nuovo possibile uso” significa forse che, in ogni ambito della teoria e della prassi umane, siamo liberi di fare qualsiasi cosa, oltre i limiti che la storia ci prescrive? Cosa significa concretamente, fuori da ogni suggestione teorica, aprire l’economia «a un nuovo possibile uso»? Trasformare un modo di produzione ex nihilo senza tener conto del suo sviluppo intrinseco? Contemplare le possibilità reali offerte dal modo di produzione attuale e ricombinarne gli elementi? Marx ci ha insegnato che non esiste qualcosa come l’“economia”, ossia una sorta di agire economico puro (nel senso, liberale, di Croce), collocato sopra la storia, e in grado di fare liberamente di ritorno per emendare l’economia di quella o quell’altra epoca. Le pratiche economiche, in quanto molteplici e disseminate, vanno incontro a tutti i mutamenti e le trasfigurazioni della storia. E ciò significa, con Marx, che non è possibile agire in qualunque modo possibile e in qualunque spazio e tempo possibili. Alcune possibilità pratiche vengono storicamente superate, altre ancora cambiano la loro posizione all’interno della struttura di un’epoca. Riconoscere la singolarità storica degli ‘individui storici’ (Rickert) vuol dire non solo comprenderli, ma soprattutto orientare la propria prassi (anche critica) in modo verace ed effettuale. Nel caso della pandemia, la tendenza a costruire paragoni coi totalitarismi in presenza di una politica sanitaria latamente statalista, è il tratto più caratteristico della stato-fobia neoliberale.[6] In altre parole: solo un neoliberale e la sua proiezione nel tessuto sociale, ossia il piccolo-borghese «malato delle sue minuscole libertà» (Badiou), possono gridare in piazza alla dittatura sanitaria.

Per ragionare sul concetto di ‘stato d’eccezione permanente’,[7] bisognerebbe entrare dentro l’edificio teorico-politico di Agamben, operazione impossibile da svolgere in questa sede. Limitiamoci dunque a qualche riflessione sparsa. Anzitutto, occorre distinguere tra stato d’eccezione e stato d’emergenza (che Agamben, sia detto di sfuggita, non cessa di identificare). Il primo, secondo lo Schmitt caro ad Agamben, comporta la sospensione in toto dell’ordine giuridico vigente; dunque, nel nostro caso, anche dell’art. 16 della Costituzione, il quale afferma che «ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza». La necessità non è un’eccezione, e lo stato eccezionale, a meno di non voler ricorrere a formule ossimoriche (ossia più suggestive che vere), non può essere ‘permanente’. Se si vuole indicare uno scenario politico nuovo, occorrono nuovi concetti, magari logicamente più consistenti.

In Stato d’eccezione (ma anche negli interventi sulla pandemia), Agamben afferma anzitutto che un segno dello stato d’eccezione permanente è il continuo ricorso, da parte degli esecutivi, allo strumento del decreto-legge. In tal senso, «l’Italia ha funzionato come un vero e proprio laboratorio politico-giuridico, nel quale […] la pertinenza della decretazione d’urgenza all’ambito problematico dello stato di eccezione appare con chiarezza».[8] Ma il decreto-legge è previsto e regolato dall’art. 77 della nostra Costituzione. Pertanto, se lo stato d’eccezione permanente e i decreti-legge continui coincidono, la possibilità dello stato d’eccezione finisce per essere prevista dalla nostra Costituzione. Ma questo, con tutta chiarezza, invalida la tesi fondamentale di Stato d’eccezione, secondo la quale un ordine giuridico non può accogliere una norma che lo destituisca dall’interno.

In secondo luogo, Agamben non fa alcun riferimento, né in Stato d’eccezione né negli interventi sul COVID, alla legge n. 400 del 1988 e alla sentenza della Corte Costituzionale n. 360 del 1996. La prima regola l’attività del Governo e disciplina in modo preciso il ricorso al decreto-legge. La seconda vieta la reiterazione dello stesso testo in due o più d.l. non ancora trasformati in legge. Entrambi i pronunciamenti rappresentano delle garanzie interne al sistema giuridico per arginare le eventuali sproporzioni del potere governamentale. Se vivessimo realmente in uno stato d’eccezione permanente degno di questo nome, non esisterebbe nessuna garanzia di tal fatta.

Il vero problema, che Agamben elude, è capire se lo stato d’eccezione permanente sia realmente una novità che giustifica il nostro stupore, o se sia semplicemente un nome come un altro da dare a una politica soggetta agli smottamenti del modo di produzione capitalistico. Nel corso Sicurezza, territorio, popolazione, Foucault ha mostrato come lo sviluppo della governamentalità intorno al XVIII sec., si giustifica con la nascita di una nuova pratica teorica, vale a dire l’economia politica, e con la comparsa di un soggetto che, fino ad allora, non rientrava in quanto tale nei calcoli del governo, ossia la popolazione. Il modo di produzione capitalistico, attraverso le pratiche economico-governamentali, predispone la popolazione al processo di valorizzazione. Attraverso la trasformazione della «corporeità vivente» del lavoratore in forza-lavoro,[9] il «doppio mulinello del processo» capitalistico fa sì che l’individuo «appartenga al capitale prima ancora di vendersi al capitalista».[10] Il primato della governamentalità va dunque spiegato con la critica dell’economia politica. Una critica reale delle logiche politiche odierne deve derivare da una critica dell’economica politica del modo di produzione in cui viviamo. La spiegazione agambeniana dello stato d’eccezione permanente, secondo cui esso è il paradigma di governo adeguato a una progressiva e astratta «guerra civile mondiale» (che procede senza soluzione di continuità dall’“epoca dei totalitarismi”), resta in sé muta.  

Inoltre, a meno di non voler apparire come degli apologeti mal celati, non si può contestare lo stato d’eccezione permanente in nome delle «nostre democrazie liberali» (come dice Agamben in Commissione), perché le nostre democrazie liberali seguono già da sempre la ritmica convulsa dell’accumulazione capitalistica. Non si può parlare di limitazione delle libertà personali e, al contempo, avanzare un discorso anti-capitalistico: la libertà (scellerata) di andare al ristorante durante una pandemia è un lusso tutto occidentale, un bisogno socialmente e geograficamente situato, non un anelito inscritto nell’essenza umana generica. Sembra che dietro le “discriminazioni del Green Pass” e “la dittatura sanitaria”, vi sia una semplice alterazione delle proprie abitudini, ossia un altro modo di nominare il nostro privilegio, il nostro capriccio.

In ultimo, nell’audizione in Commissione Affari Costituzionali del 07/12/2021, Agamben ci regala un altro paragone. Questa volta, i membri dell’analogia sono, da una parte, il codice di Norimberga contro le torture e le sperimentazioni perpetrate nei lager nazisti, e dall’altra, va da sé, l’obbligo surrettizio dei vaccini. «La prima volta che lo stato è intervenuto in modo obbligatorio sulla salute dei cittadini con un obbligo è stato lo Stato Nazista per proteggere la razza ariana dalle malattie ereditarie». Un breve excursus su questo punto. Agamben parla del Gesetz zur Verhütung erbranken Nachwuchses, la “legge sulla prevenzione dei nati con malattie ereditarie” (la maggior parte, non a caso, di natura psichica, quali la schizofrenia, l’epilessia, i ritardi mentali, etc.). La legge era l’atto iniziale della Aktion T4, un programma eugenetico di sterminio delle cosiddette Lebensunwertes Leben, vite indegne di essere vissute. Meglio: vite in sé prive del valore di vivere. Con questa analogia, Agamben pone sullo stesso piano una sterilizzazione eugenetica, la quale, tra le altre cose, proibisce a un individuo la possibilità, ma soprattutto la gioia, eventuale, della procreazione, e i vaccini, che, tra le altre cose, ci evitano un bel po’ di problemi nelle nostre vite degne di essere vissute. Nella testa di Agamben, cioè, queste due cose danzano assieme. Per questo, congetturiamo, Agamben non fa alcun riferimento al piano Beveridge o alla campagna vaccinale anti-colera organizzata a Napoli dal PCI nel 1973.[11] Domanda: ma Agamben non era di sinistra? Toni Negri, in un volume della sua autobiografia, lo definisce «un compagno». Domanda inutile: al giorno d’oggi non importa come ti definisci soggettivamente, ma ciò che oggettivamente fai.

Ad ogni modo, non voglio dilungarmi e mi limito a tre brevi riflessioni sotto forma di do- manda:

1) Da quali elementi concreti si fa dipendere l’autorevolezza di Agamben? Da questi paragoni?

2) Siamo sicuri che occorra avere un «potere politico e accademico» per avere uno (stra-) potere ideologico o egemonico? Agamben, giova ricordare anche questo, è stato il primo filosofo italiano a pronunciarsi pubblicamente sul COVID-19. Se si dà una rapida scorsa ai moduli discorsivi dei canali Telegram no-vax e no-gp, non è difficile trovare le medesime argomentazioni, il medesimo tono apocalittico e complottistico dei rapidi interventi di Agamben pubblicati sul sito della casa editrice Quodlibet. Gli utenti di questi canali, pur essendo lontani migliaia di anni luce dall’erudizione sconfinata e dall’acribia teoretica di Agamben, parlano à la Agamben. Coincidenze? No, si chiama presa egemonica. Agamben (ma non solo lui) ha saputo sollecitare alcuni umori sopiti nel popolo italiano. Agamben è direttamente responsabile di certe derive reazionarie, anti-moderne, anti-scientifiche e, sovente, anti-comuniste? No, per carità, ma i fenomeni ideologici, cosiddetti sovrastrutturali, vanno considerati nella loro complessità, nella loro capacità di attraversare, come un fulmine, l’intero arco sociale.

3) Ritorniamo alla definizione di ‘bullismo’ fornita dalla Treccani. «Atteggiamento di sopraffazione sui più deboli, con riferimento a violenze fisiche e psicologiche attuate spec. in ambienti scolastici o giovanili». E domandiamo: non è proprio Agamben a esercitare una forma subliminale di violenza ideologica? Forse che i giovani deboli e bullizzati, in realtà, siamo proprio noi? Del resto, essere contemporanei di personaggi che costruiscono analogie come quelle appena discusse, è un segno, inguaribile, di debolezza. La confusione teorica e ideologia è il nostro habitat naturale. Mi si dirà: "E gli «ambienti scolastici», dove li metti?". Be’, Agamben, e quelli come lui, se non erro, sono, o sono stati, dei professori...

 

[1] https://www.aldousblog.it/single.php?id=89

[2] Le prime tre strofe del componimento recitano così: «Si è abolito l’amore/in nome della salute/poi si abolirà la salute. Si è abolita la libertà/in nome della medicina/poi si abolirà la medicina. Si è abolito Dio/in nome della ragione/poi si abolirà la ragione». Nella conferenza no-green pass all’International University College of Turin, Agamben riprende questi argomenti e afferma che, al giorno d’oggi, «abbiamo la salute in luogo della salvezza, la tecnica in luogo della politica, la medicina in luogo della religione» (sic!).

[3] Qualche giorno fa, dalla Gruber, Cacciari ha sostenuto che le sue posizioni critiche sui vaccini e il green pass nulla c’entrano con «quelli che vanno in giro con la stella di David». Eppure, con Agamben (che non si acconcia da deportato, ma paragona senza posa l’attuale situazione pandemica ai fascismi europei), Cacciari ha scritto un testo (se così si suol chiamarlo), ha partecipato a una conferenza no gp e, insieme a Mattei e Freccero, ha inaugurato una Commissione Dubbio e Precauzione, una sorta di gruppo di contro-informazione. Per una critica puntuale del breve intervento di Agamben e Cacciari, cfr. https://www.iisf.it/index.php/progetti/diario-della-crisi/roberto-finelli-e-tania-toffanin-sul-privilegio-note-critiche-su-agamben-cacciari.html.

[4] In occasione dell’appello a favore dello ius soli, Agamben negò la sua firma (https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-perch-on-ho-firmato-l-appello-sullo-ius-soli). Le motivazioni da lui addotte non riguardavano, «ovviamente», la condizione dei migranti, «ma l’idea stessa di cittadinanza», la quale è un altro strumento della società di controllo. Dato che per Agamben è l’idea di identità nazionale a dover essere rifiutata, la concessione della cittadinanza agli immigrati non è ritenuta la «soluzione migliore», pur riconoscendo che la «condizione di migrante è un problema che non può essere evitato». Anche in questo caso, la teoria agambeniana manca di qualsiasi approccio dialettico-processuale ai fatti politici e storici. Quest’assenza non consente ad Agamben di cogliere che, ancor prima della rimozione avveniristica delle identità, sarebbe più auspicabile estendere la cittadinanza e i privilegi che da essa promanano a ogni abitante del mondo. La cittadinanza implica il controllo delle identità ed esclusione di altre identità, ma anche, e soprattutto, diritti. Senza questa processualità, il parere di Agamben arriva a coincidere, nei suoi risultati, con le posizioni più scioviniste della destra identitaria.

[5] G. Agamben, L’uso dei corpi. Homo sacer, IV, 2, Neri Pozza, Vicenza, 2014, p. 130.

[6] In Das Beveridgeplan, «Schweizerische Monatshefte für Politik und Kultur», giugno-luglio 1943, Wilhelm Röpke, uno dei nomi di punta dell’ordoliberismo tedesco, tratta il piano Beveridge come una forma collaterale di politica nazionalsocialista.

[7] Il concetto, si sa, è d’ascendenza benjaminiana. Nella VIII delle sue Tesi di filosofia della storia, Benjamin scrive che «la tradizione degli oppressi ci insegna che lo stato di eccezione in cui viviamo è la regola». Ma aggiunge: «dobbiamo giungere a un concetto adeguato a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato d’eccezione; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo» (W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, Mimesis, Milano, p. 10). Due rapide considerazioni: ai tempi di Benjamin era in questione la lotta contro il fascismo, non un virus; lo stato d’eccezione divenuto regola non è per Benjamin una stolida protesta per lo smarrimento dell’essenza democratico-liberale dei nostri stati, ma la molla per la creazione di un altro stato d’eccezione, quello vero, ossia quello anti-fascista.

[8] G. Agamben, Stato d’eccezione. Homo Sacer, II. 1, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. 22.

[9] K. Marx, Il Capitale, vol. I, a cura di A. Macchioro e B. Maffi, UTET, Milano, 2013, p. 262.

[10] Ivi, p. 740.

[11] https://napoli.repubblica.it/cronaca/2013/08/25/news/il_colera_40_anni_dopo_i_giorni_della_paura-65240129/

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