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Categoria: Saggi
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 Severino Galante *

 

Dicono che fu Fausto Bertinotti ad affossare il primo governo di Romano Prodi. Dicono anche che egli fu l’esecutore di un complotto ordito dal segretario dei Ds Massimo D’Alema e da quello del Ppi Franco Marini. E qualcuno aggiunge che Francesco Cossiga ci mise del suo, in accordo sostanziale coi complottisti, per portare alla presidenza del Consiglio dei ministri il primo – e finora l’unico – ex comunista. C’è del vero in queste bugie che, spesso ripetute e ricomposte in una narrazione nella quale il verisimile fa aggio sul vero (cioè, per lo storico, sul documentato o documentabile), si sono trasformate nel tempo in Verità indiscutibili e scontate: in luoghi comuni.

Viceversa, stando appunto alla documentazione oggi accessibile, il colpo che Bertinotti inferse al governo Prodi quel 9 ottobre del 1998 somiglia alla stoccata di Fabrizio Maramaldo contro Francesco Ferrucci: l’ultima – ma non per questo la decisiva né la definitiva – di una serie di ferite inflitte e autoinflitte all’esecutivo nel corso dei due anni e mezzo precedenti, che ne avevano logorata la fibra – già di suo cagionevole – conducendolo fin sull’orlo della fossa, là dove il Partito della rifondazione comunista gli dette la spinta finale, e ve lo fece cadere agonizzante.

A seguirne puntualmente le cronache, quello del governo Prodi risulta un lungo, lento suicidio politico per auto avvelenamento progressivo, diluito durante tutta la prima metà della XIII legislatura, che soltanto avanti nel tempo iniziò ad essere assistito da Bertinotti. Un suicidio involontario, ovviamente: derivante innanzitutto dall’incapacità di Prodi e dei prodiani di comprendere appieno e di rispettare effettivamente le ragioni e gli interessi di tutti i principali attori operanti nell’arena politica della composita, imprevista, strana maggioranza parlamentare nella quale si trovarono costretti ad agire; e connesso inoltre all’ulteriore difficoltà di dovere fare i conti anche con le dinamiche che si svolgevano a cavallo del margine destro della maggioranza, tra tutte le variegate affiliazioni di ‘centristi’ succedute alla dissoluzione della Democrazia cristiana.

Mentre Bertinotti e il Prc cominciarono ad agire contro Prodi soltanto nell’estate del 1997, Massimo D’Alema e Franco Marini – i competitori del presidente del Consiglio all’interno del nucleo centrale della maggioranza che lo sosteneva, o che avrebbe dovuto sostenerlo – iniziarono invece molto presto, subito dopo l’insediamento del governo dell’Ulivo, a minarne la tenuta con un’incessante contestazione del progetto ulivista, in ciò affiancati all’esterno della maggioranza dall’indefesso lavorio di Francesco Cossiga che mirava a una sua particolare prospettiva di ‘rifondazione democristiana’. Quando infine, dopo oltre due anni di questa sistematica macerazione, all’inizio di ottobre del 1998 il comunista Fausto Bertinotti riuscì a mettere in crisi il governo – contribuendo nel contempo alla definitiva frattura del partito di cui era segretario – di quel terzetto di avversari del progetto ulivista furono i due ex democristiani coloro che pur con distinti propositi gestirono effettivamente la manovra conclusiva, e che dettero il colpo di grazia al già democristiano Prodi precludendogli ogni residua possibilità di reincarico. Quanto al terzo contestatore, l’ex comunista Massimo D’Alema, egli non ebbe parte attiva nella conclusiva faida tra progetti ex/neo democristiani; ebbe tuttavia la responsabilità di acconciarsi ad essa, per di più facendosi adescare da un’opportunità che in precedenza aveva sempre e con coerenza escluso – l’ascesa alla presidenza del Consiglio senza la legittimazione di una preventiva prova elettorale – accettando quindi di trasformarsi nell’utilizzatore finale della crisi di governo aperta da Bertinotti e chiusa da Cossiga e Marini.

In sostanza né Bertinotti fu il killer di Prodi né, quindi, D’Alema fu il mandante né ci fu un complotto – almeno in senso stretto – della coppia D’Alema-Marini o di quella Cossiga-Marini. Bertinotti fu invece il detonatore di una crisi di governo radicata innanzitutto all’interno della maggioranza organica dell’Ulivo nei diversi e conflittuali progetti politici del leader e dei principali partner, e nelle loro insoddisfazioni e ambizioni; e radicata inoltre, all’esterno della stessa maggioranza, nell’operato di chi nutriva il proposito di restaurare, nel nuovo sistema politico che si veniva strutturando dopo la vittoria degli Stati Uniti nella guerra fredda, la vecchia centralità democristiana che da presidente della Repubblica aveva contribuito a picconare.

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Il protratto suicidio del governo Prodi trasse origine da un equivoco esiziale. Esso, e parte della sua maggioranza organica, finirono infatti vittime di un abbaglio, di un fraintendimento grave e inescusabile per politici professionisti: si convinsero di avere vinto le elezioni o, per meglio dire, essendo quasi sempre futile indagare le intenzioni, si comportarono come se le avessero effettivamente vinte. Errore doppio, o a doppia faccia: l’Ulivo non aveva vinto le elezioni del marzo 1996 né quanto a voti popolari né quanto a seggi parlamentari. Pur prevalendo sulle destre per una maggiore abilità tecnica nell’utilizzo della nuova legge elettorale, in Parlamento la coalizione ulivista non era comunque autosufficiente: per avere la maggioranza, i voti – e perciò il consenso alle decisioni del governo – dei parlamentari comunisti le erano indispensabili. Il problema era che il Prc alle elezioni si era presentato, oltre che con divisioni interne, con un’identità politica instabile e in ogni caso con un programma molto diverso e per molti aspetti contrapposto a quello dell’Ulivo. Nel contesto post elettorale nessuno soggetto di buon senso poteva prescindere da ciò: né il Prc né, tantomeno, il governo. Dati i precedenti, concordare un programma minimo comune poteva essere ostico, ma poteva essere meno difficile condividerne alcuni capisaldi o, almeno, cercare e praticare nella maggioranza larga (cioè nella maggioranza effettiva) un metodo e una sede di soluzione dei conflitti tra chi era rappresentato al governo e chi per propria scelta non lo era. Col problema aggiuntivo di come fare, poi, a convincere chi stava al governo, e lo presiedeva, ad agire di conseguenza: problema con ogni evidenza enorme perché Prodi e soci volevano la supremazia dell’Ulivo – del governo, di fatto – sui partiti dell’Ulivo e persino sul Prc, che dell’Ulivo non era componente…

Comunque la strada era quella, ed era una strada obbligata perché in politica – pure in politica – è indispensabile comprendere, anche in senso letterale, le ragioni degli altri: alleati, concorrenti, avversari, nemici. Ciascuno con le proprie ragioni, con le quali è inevitabile misurarsi, per stipulare un accordo, o raggiungere un compromesso oppure per scontrarsi ma in modo consapevole e per potere trarne un vantaggio. Se no si rischia di finire senza volerlo in una delle condizioni descritte dalle “leggi” tracciate in un aureo libriccino di Carlo Maria Cipolla[1]. Il rifiuto di comprendere le ragioni dell’altro, che pure ti è indispensabile per essere te stesso, per affermare valori, principi, progetti che compongono la tua identità, è un atteggiamento autolesionistico perché ti sottrae la possibilità di una pratica efficace per avvicinarti ai tuoi obiettivi, e riduce quindi la politica a mera declamazione.

La rinuncia di fatto o di principio a rielaborare una diversa configurazione del proprio programma elettorale per consentirne l’attuazione nella misura consentita dai rapporti di forza reali, nelle condizioni date, fu un atteggiamento comune all’Ulivo e al Prc: con la differenza che il primo lo assunse fin dall’inizio dell’esperienza di governo mentre il secondo – pur incubandone l’embrione in una parte del suo gruppo dirigente – lo maturò compiutamente soltanto in seguito, dopo avere patito non poche delusioni nei rapporti con i concorrenti divenuti alleati. Tra questi ultimi, infatti, si manifestò subito l’incapacità di adattarsi all’obbligata convivenza col Prc e prevalse invece la volontà di potenza nella forma più rigida, intollerante, e alla fine tecnicamente controproducente.

Fuori dal governo, ma centrale nella maggioranza, ci fu chi non commise l’errore disastroso di credere di avere vinto le elezioni. Ma agli effetti pratici neppure D’Alema – di lui si trattava – ne seppe trarre con coerenza tutte le conseguenze operative che la situazione rendeva indispensabili, trascinato anch’egli dall’hybris verso il progetto catastrofico di piegare al proprio disegno politico-organizzativo un soggetto come il Prc, geneticamente refrattario ad esso proprio perché era l’altra delle due metà contrapposte originate dal conflitto lacerante che soltanto cinque anni prima aveva visto l’estinzione del Partito comunista italiano.

Se avessero assunto fino in fondo la piena consapevolezza di questi dati della realtà effettuale, il governo e la sua maggioranza ristretta avrebbero dovuto farsi guidare nelle proprie azioni da due fondamentali obiettivi, ai quali ogni altra scelta andava subordinata: estendere il consenso popolare puntando a trasformarlo in una solida maggioranza sociale, e almeno conservare il consenso parlamentare concesso dai voti comunisti. Naturalmente rispetto al secondo obiettivo era possibile una variante: sostituire il consenso del Prc ottenuto grazie all’accordo di desistenza con l’acquisizione di quello di una parte delle opposizioni (fu l’obiettivo che perseguirono i centristi, dai popolari ai diniani), secondo il tradizionale mercato trasformistico dei gruppi dirigenti. Viceversa, se si voleva rimanere fedeli al mandato popolare quale si era manifestato nel marzo del 1996 era indispensabile mediare le proprie ragioni con quelle del Prc. E bisognava farlo non a sole buone parole e promesse, come in parte avvenne per oltre un anno, ma con atti legislativi, cioè con scelte sia materiali che simboliche le quali, oltre a soddisfare una parte delle richieste del Prc, fossero in grado anche di ampliare il consenso sociale a favore del governo.

Ciò era quanto la maggioranza del gruppo dirigente del Prc si attendeva nel momento in cui decise di consentire la formazione del governo Prodi. Con quella scelta esso modificava in profondità la propria precedente linea politica, facendo una scommessa nella quale investiva l’intero capitale politico e organizzativo che il partito aveva accumulato nei suoi cinque anni di esistenza. Si trattava dunque di una scommessa estremamente impegnativa e rischiosa, e tanto più rischiosa perché compiuta da un soggetto ancora fragile, percorso da profonde fratture interne, privo della coesione politica e umana che soltanto una lunga esperienza comune può sedimentare. La questione del rapporto col governo fu il banco di prova sul quale verificare la natura identitaria in fieri del Prc: non due questioni diverse ma due facce della medesima, riassumibile nel quesito su quale ruolo dovesse (principi e obiettivi strategici) e potesse (mezzi e rapporti di forza) svolgere la sinistra comunista nel nuovo contesto nazionale e internazionale. E su quel banco di prova la macchina partito si scassò.

In una prima fase il successo virtuale dei sondaggi d’opinione parve premiare la collocazione scelta del gruppo dirigente comunista. Nel contempo, tuttavia, a fronte di una condotta del governo sempre più deludente per le aspettative dei militanti, e mentre dall’interno della coalizione ulivista s’infittivano le polemiche contro le richieste del Prc anziché cercare per esse punti di convergenza e luoghi di mediazione, nel partito crescevano sia l’insoddisfazione sia la volontà di affermare con sempre maggiore determinazione – all’inizio soprattutto verbale – le proprie più vitali ragioni in materia di intangibilità dello Stato sociale e di salvaguardia dell’assetto costituzionale. Né quello del governo dell’Ulivo era il solo o il principale fronte che preoccupava la leadership comunista. Parimenti – ma per taluni versi maggiormente – preoccupante era l’altro fronte d’attacco aperto dalla crescente pressione omologante della leadership pidiessina, tesa in linea di fatto e di principio a negare la stessa ragion d’essere di un soggetto comunista in Italia. E anche tale pressione suscitava reazioni identitarie e politiche di segno opposto, pressoché automatiche. V’erano infine, ma non da ultime, le difficoltà nel rapporto tra le organizzazioni sindacali – la Cgil innanzitutto – e il Prc e più in particolare tra il segretario comunista, l’ex sindacalista Bertinotti, e il segretario del sindacato Sergio Cofferati. Un doppio rapporto collettivo e personale avvelenato mese dopo mese da un sempre più aspro scontro identitario sui rispettivi ruoli, funzioni e competenze che vide i potenziali alleati trasformarsi in breve in accesi competitori.

Da spinte e pratiche come queste, messe in atto da tutti i soggetti coinvolti nelle dinamiche del centro sinistra e nelle sorti del governo Prodi, era impossibile attendersi un’evoluzione costruttiva delle relazioni tra le parti, cioè fondata sulla ricerca dinamica di accordi di effettivo compromesso in grado di contenerne e compensarne i difformi interessi entro una cornice, pur esile e parziale, di obiettivi generali condivisi. Quello che mancò fu la soggettiva volontà di anteporre la ricerca di ciò che di comune poteva trovarsi nei diversi progetti alla mera registrazione della loro diversità, con la conseguente enfatizzazione della reciproca conflittualità. Le differenze di mentalità e di cultura tra attori politici male assortiti, indotti dalle circostanze a farsi alleati improvvisati, alimentarono poi incomprensioni per le rispettive aspettative e fraintendimenti delle mosse altrui, con tutte le conseguenze negative del caso.

La graduale constatazione del prevalere nella maggioranza di tendenze conflittuali anziché cooperative prima ostacolò e poi impedì il consolidamento del Prc – inteso sia come gruppo dirigente che come organizzazione territoriale – attorno alla scelta di linea politica a sostegno del governo. Col passare del tempo, in assenza di risultati che fossero e apparissero significativi per la base sociale di riferimento del partito, la scommessa faticosamente compiuta col far nascere il governo Prodi divenne sempre meno fattore di coesione interna. L’ultimo passaggio unitario della coalizione di maggioranza che guidava il Prc fu l’apertura della crisi di governo alla fine di settembre del 1997. Dopo di allora le diversificazioni tra le variegate culture comuniste che convivevano nel partito, combinandosi con la competizione interna per la leadership, si accentuarono a seguito di analisi della fase sempre più contrapposte che generavano giudizi laceranti sul ruolo del governo Prodi e sulle conseguenze – per il Paese e per il partito – che avrebbe comportato confermare o revocare la scelta compiuta dopo le elezioni del marzo 1996. La revoca di quella scelta e la conseguente rottura col governo, giunta all’inizio di ottobre del 1998, coincise con la rottura anche del Prc: conclusione formale di una rottura sostanziale stratificatasi lungo tutto l’arco dell’anno precedente.

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All'origine della scissione di Rifondazione comunista ci fu un processo di auto identificazione come soggetto separato che si sviluppò in una parte dei gruppi dirigenti periferici e centrale del Prc. Questa parte giunse a ritenere le proprie ragioni – innanzitutto culturali e politiche – incompatibili con quelle ormai prevalenti nell’intero partito. La disputa sul governo Prodi che si svolse all’interno del Prc tra l’ottobre del 1997 e l’ottobre del 1998 fu, più che la causa della scissione, l’occasione e il pretesto attorno a cui precipitarono le contraddizioni congenite nella “rifondazione comunista”, ben evidenti fin dalla fondazione del partito e rimaste poi irrisolte sia per condizioni oggettive sia per limiti soggettivi. In altri termini, la questione del governo innescò al vertice del Prc un cortocircuito tra la polarità cossuttiana e quella bertinottiana – da intendersi con tutte le relative articolazioni interne – da cui scoccò la scintilla che fece deflagrare la miscela instabile di “capitani”[2] privi di reale affiatamento tra loro che s’era composta durante la precedente fase di formazione del partito. La scissione avvenne per almeno cinque principali ordini di motivi relativi: alla memoria storica; alla cultura politica; alla concezione e alla prassi organizzative; alla pratica, cioè alle concrete modalità dell'agire politico; alle relazioni e alle sorti personali. Eccole in successione.

La memoria storica degli scissionisti (di quasi tutti, per essere precisi) era quella del Pci, ma più o meno rimaneggiata e piegata alle esigenze politiche contingenti. Il nome di Palmiro Togliatti evocava simbolicamente questo radicamento storico, ma il riferimento effettivo avrebbe dovuto essere Giorgio Amendola, mentre Armando Cossutta ne rappresentava in qualche modo la continuità nel presente, apparendone come l'erede più coerente. Della identità storica del Pci gli scissionisti recuperavano, insomma, essenzialmente la memoria della 'destra', alternativa all'ingraismo e ai suoi annessi e connessi, in particolare quelli presenti nella tradizione della sinistra detta un tempo extraparlamentare.

In sintesi estrema, i principali caratteri di tale identità erano i seguenti. Il “partito nuovo” togliattiano era stato in primo luogo un partito di classe ma, proprio in quanto tale, portatore di interessi generali perché radicato nella storia e nella cultura dell'Italia: dotato quindi delle categorie culturali e politiche idonee a interpretare le dinamiche nazionali del presente, e a individuare ciò per cui era più conveniente lottare per influenzarne l'evoluzione in direzione riformatrice. Il nesso tra carattere di classe e carattere nazionale del partito aveva fatto aggio su qualsiasi altro aspetto della politica del Pci. In secondo luogo esso era stato un partito “di massa”: nel senso che aveva saputo raccogliere al proprio interno un'articolata e vasta rappresentanza della classe operaia e dei ceti popolari; e nel senso che ciò gli aveva consentito una diffusa presenza su tutto il territorio nazionale e un'ampia ramificazione in tutti gli strati e in tutti i gangli della società, da cui poteva raccogliere esigenze, problemi, sollecitazioni e sui quali poteva esercitare una concreta capacità di orientamento e di mobilitazione. Infine, il Pci era stato un partito di “governo”, ma in un'accezione particolare: pur all'opposizione, dov'era stato costretto dopo il maggio 1947 e per tutta la storia repubblicana (neanche nel triennio 1976-1979 il Pci fu “al” governo nazionale), esso non si era limitato a fare propaganda e agitazione ma era stato in grado di battersi con efficacia per risolvere qui e ora i problemi concreti delle masse popolari, raccogliendone le rivendicazioni immediate più sentite e saldandole in un disegno generale realistico e plausibile di trasformazione progressista dell’Italia. Analogamente, com'è ovvio, il Pci era stato partito di governo là dove era stato anche “al” governo, vale a dire negli enti locali e poi, dal 1970, nelle regioni dove aveva effettivamente governato.

Gli scissionisti accentuavano e valorizzavano alcuni particolari aspetti di ciò che il Pci era stato effettivamente nel secondo dopoguerra. Innanzitutto la cultura politica realistica e riformatrice che collocava il progetto di trasformazione della società entro i parametri di ben definiti rapporti di forza (economici, sociali, culturali, politici) che bisognava modificare, ma nei modi e nei tempi consentiti da ciò che effettivamente si era e si poteva fare in quelle determinate circostanze. Se si voleva fare vera azione politica, e non soltanto testimonianza o propaganda, in ogni circostanza, favorevole o sfavorevole, era necessario agire concretamente per migliorare i rapporti di forza, e non limitarsi all'attesa del loro cambiamento per opera di non si sa chi. Ciò significava puntare sempre a esercitare la massima influenza sui lavoratori e sulle masse popolari con parole d'ordine chiare e con un'azione efficace per i risultati ottenuti, senza indulgere alla mera propaganda e alla polemica sterile e fine a se stessa, facendo prevalere la sostanza sulle parole. E significava saper fare l'analisi concreta della realtà concreta, sempre: saper distinguere i nemici dagli avversari, e cogliere anche tra questi ultimi le diversità potendo così puntare sulla conquista di alleati permanenti oppure contingenti, ma comunque indispensabili per raggiungere almeno in parte i propri obbiettivi nelle circostanze date.

La concezione e la prassi organizzativa risentivano anch'esse di un forte richiamo al Pci, ma in forme realisticamente adattate a un partito di ben diversa dimensione e composizione: il rifiuto del partito del leader (ma anche del partito bicefalo, come evidenziava la critica alle responsabilità dello stesso Cossutta nella gestione diarchica del partito, non mitigata dalla sua autocritica) si traduceva nella pressante rivendicazione di una effettiva direzione collegiale; per la selezione e promozione dei quadri si individuavano i soli criteri della capacità e della lealtà all'organizzazione e ai suoi valori, rifiutando energicamente quello della fedeltà ai singoli e ai “capi”, escludendo metodi di direzione amministrativi, caporaleschi e autoritari ma anche clientelari, amicali e corruttivi; diventava perciò prioritaria la cura della formazione dei militanti, e della loro educazione ad assumere compiti di direzione del partito ai diversi livelli e nelle diverse realtà territoriali: cioè a maturare una capacità di giudizio autonomo sul mondo circostante, senza dipendere continuamente da direttive centrali o ‘superiori’, e partecipando direttamente a tutte le decisioni fondamentali che li coinvolgessero: di lavoro politico, di organizzazione e anche di inquadramento degli apparati; la necessaria omogeneità dei gruppi dirigenti (e della loro azione) doveva essere assicurata, più che da vincoli burocratici o statutari, dall'autodisciplina derivante dalla consapevolezza di comporre con tutti gli altri compagni un organismo nel quale il successo di ognuno dipendeva dal (ed era subordinato al) successo collettivo. Dunque, un partito e non un cenacolo di discussori o, tuttalpiù, di propagandisti bensì di donne e di uomini capaci di iniziativa, di azione, di lotta politica; un partito organizzato, con precise responsabilità attribuite a precisi soggetti; un partito che non si isolava in se stesso e nelle proprie dinamiche interne, ma che si proiettava nella società civile e in quella politica per la propria utilità; un partito che perciò faceva della politica delle alleanze un proprio modo di essere cercando rapporti positivi, per scopi concreti e non puntava invece soltanto, né prevalentemente, alle alleanze elettorali, per fini di rappresentanza; un partito che, infatti, concepiva e praticava la rappresentanza istituzionale come luogo della saldatura tra società civile e società politica, negando come artificiosa la contrapposizione tra (pretesa) autonomia del politico e (pretesa) autonomia del sociale; un partito se non ancora di massa, almeno con ambizioni di massa, capace cioè sia di parlare a tutti gli strati delle masse popolari sia di ascoltarli. Un partito intellettuale collettivo e educatore: perciò rigoroso, nemico di qualsiasi improvvisazione, e che si doveva dotare di strumenti e luoghi di analisi, di studio e di formazione in particolare delle giovani generazioni di militanti. Un partito, infine, autonomo sotto tutti i profili (teorico, politico, organizzativo), perciò non a rimorchio dei “movimenti” (tanto meno di movimenti immaginari) ma capace di costruire con essi, come con ogni altra articolazione della società, una relazione di scambio dialettico.

La pratica politica che concepivano gli scissionisti derivava direttamente dai tre punti precedenti. Il partito comunista era uno strumento per l'azione, che si doveva misurare con la capacità di attuazione del proprio programma e delle iniziative che promuoveva. Non si trattava di un'entità astratta e immaginaria, bensì di una organizzazione concreta, fatta di donne e uomini, di strutture e di risorse materiali (spesso, di assenza di risorse) in grado di fare certe cose e non in grado di farne altre: non bastava lanciare proclami e “campagne” se non si era in grado di attuarle. Perciò ogni iniziativa proposta doveva sempre rispondere a due quesiti: “che cosa siamo capaci di fare?”; “con chi costruiamo percorsi efficaci?”. Cioè: chi fa che cosa e con chi? Quindi, il partito comunista non doveva essere né partito di testimonianza né partito di propaganda, bensì partito che dovendo fare anche testimonianza e propaganda non le confondeva con la politica concreta che si misura coi risultati, ed esige sempre il momento della verifica, realizzando tra parole e cose un rapporto virtuoso che escludeva ogni deriva declamatoria o meramente simbolica: il Marx del “processo reale” che “abolisce lo stato di cose presente” veniva interpretato come lotta di ogni giorno, tutti i giorni, per concretizzare le idee e la prospettiva del socialismo a partire dalla soddisfazione, nella misura del possibile, delle necessità, delle speranze e – perché no? – delle paure attuali del mondo del lavoro e delle masse popolari.

Questi quattro caratteri distintivi fondavano e si proponevano di attuare un'identità politica ben diversa da quella “antagonistica” del partito movimentista perseguito dalla maggioranza bertinottiana del gruppo dirigente del Prc: il progetto e la pratica – per altro velleitaria – di un'aggregazione di molteplici entità sociologiche (giovani, donne, ambientalisti, entità marginali di ogni tipo, centri sociali, movimenti di varia natura e peso), senza un preciso baricentro nella contraddizione di classe, senza un riconosciuto primato del mondo del lavoro, senza una visione nazionale del proprio ruolo, senza una coerente politica delle alleanze sociali e politiche, senza una precisa strategia di radicamento nel preesistente tessuto organizzativo della sinistra italiana.

Si trattava di divergenze di fondo su questioni di importanza decisiva sia per le implicazioni sui principi sia per le conseguenze politiche. Tuttavia la coabitazione tra le due identità politiche, per altro disomogenee al proprio interno, resse – sia pure faticosamente – finché non irruppe il quinto ordine di motivi. Determinante per la scelta della scissione fu infatti, alla fin fine, il fattore soggettivo: la persuasione gradualmente maturata che il conflitto tra le identità non si sarebbe esaurito col prevalere dell’una o dell’altra impostazione politico-organizzativa ma si sarebbe poi esteso anche ai destini personali, comportando la ‘liquidazione’ dai gruppi dirigenti dei perdenti. Determinante in ultima istanza fu, cioè, la presa d’atto che nel partito che s’era venuto costituendo in assenza di una cultura politica comune il criterio guida non era l’inclusione delle differenze bensì il loro annullamento, con la conseguente volontà di amputare ciò che ormai si percepiva come contraddittorio anziché come diverso: dunque, come un ostacolo da rimuovere ad ogni costo.

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L’evoluzione delle relazioni tra Rifondazione comunista e il governo dell’Ulivo, e il precipitare di quelle interne al Prc, avvenivano in un contesto generale dal quale non si può prescindere. Soltanto all’interno di esso, infatti, si possono individuare le coordinate che consentono di comprendere perché nel biennio 1996-98 maturarono gli indirizzi che avrebbero determinato gli sviluppi futuri del sistema politico italiano e, in particolare, le cause principali della sua nuova costante instabilità.

Dopo quarantacinque anni di sostanziale immutabilità del sistema dei partiti – per nulla contraddetta dalla lunga teoria dei governi che si succedettero alla guida dell’Italia – in seguito alla vittoria degli Stati Uniti nella guerra fredda contro l’Unione Sovietica, all’inizio degli anni ’90 del Novecento venne meno il vincolo esterno che lo aveva irrigidito e insieme sostenuto, come se fosse stato un busto di contenimento. Privato di quel busto, quel sistema collassò e si scompose. Con esso si scomposero anche i partiti la cui strutturazione era stata condizionata e plasmata dalle dinamiche della guerra fredda, a prescindere dagli sforzi in parte compiuti dai loro gruppi dirigenti, in tempi e in condizioni diverse, per emanciparsene e per ritagliarsi la quota di autonomia possibile nelle condizioni internazionali date.

Tra il 1989 e il 1991, cioè nel triennio della disintegrazione finale dell’Urss e di avvio del riassetto del sistema delle relazioni internazionali postbelliche, le dinamiche interne del sistema politico italiano poterono dispiegarsi in una situazione di crescente autonomia: la forza delle contraddizioni accumulatesi nella fase antecedente in ciascun partito, che il vincolo esterno aveva fino ad allora bloccato, iniziò a manifestarsi in modo dirompente. La destrutturazione del vecchio sistema procedette molto rapidamente, e altrettanto rapidamente si avviò la strutturazione di quello nuovo che tuttavia non attinse mai un livello di autentica stabilità. Mentre la vecchia area centrale attorno alla quale si era in precedenza articolato l’intero assetto del potere politico iniziava a sfaldarsi, la ristrutturazione del versante destro, pur partita più tardi, procedette con maggiore rapidità che sul versante sinistro, dov’era iniziata prima. Il pentapartito storico – Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli – si dissolse. I minori partiti di fatto scomparvero dimostrando di essere stati delle finzioni partitiche (o, se si preferisce dire così, delle mere componenti esterne dell’aggregato correntizio incardinato nella Dc). La Democrazia cristiana e il Partito socialista si disfecero, oltre che per cause endogene, anche per effetto dell’azione di una parte della magistratura la quale, nel nuovo contesto internazionale e nazionale, volle e poté prendere l’iniziativa per indagare l’abbondante materia giudiziaria che s’era accumulata durante mezzo secolo di immobile mutevolezza nella gestione del potere.

Di fronte alla scomposizione dell’area centrale del sistema dei partiti, gli interessi sociali che da essa erano stati protetti e garantiti attuarono una rapida conversione trasferendo il proprio sostegno in prevalenza alle destre. Essi si orientarono in primo luogo verso due nuovi soggetti di autotutela: la neonata Lega Nord, di impianto secessionista, che accorpava svariate leghe regionali presto egemonizzate dalla componente lombarda guidata da Umberto Bossi; e il nascente partito padronal-mediatico Forza Italia, fondato e guidato dall’imprenditore lombardo Silvio Berlusconi. Nel contempo il Msi-Dn – il “polo escluso” durante tutta la storia repubblicana per la propria rivendicata natura fascista – iniziò un processo di legittimazione e di “sdoganamento” (favorito innanzitutto dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga) che, nel volgere di poco più di un paio d’anni, lo portò prima al governo dell’Italia e poi al ‘lavacro’ del congresso di Fiuggi del gennaio 1995, che ne registrò la trasformazione in Alleanza Nazionale: in un partito che dichiarava di recidere le proprie radici fasciste definendosi invece come nuovo soggetto appartenente alla destra conservatrice e liberale. Alle elezioni politiche del 1994 la svolta di An fu premiata prima ancora che il processo di revisione fosse perfezionato formalmente. Il partito post fascista infatti quasi triplicò i voti del 1992, fruendo dunque anch’esso della scomposizione del vecchio blocco sociale rappresentato storicamente nel pentapartito. Si veniva così definendo un’area politica relativamente stabile – e comunque più stabile delle altre – nella quale convivevano in concordia discors tre destre: la liberal-liberista, la post fascista e la secessionista che, con alterne fortune e mutevoli equilibri nei reciproci rapporti di forza, avrebbero costituito un dato Imprescindibile per le successive dinamiche del sistema politico italiano. I diversi e distinti soggetti della destra tradizionale seppero infatti conservare le proprie identità relazionandole in maniera reciprocamente sia sinergica sia competitiva. In altri termini, essi applicarono virtuosamente la lezione della politica delle alleanze sfuggendo al rischio di forzature organizzativistiche sia verso un innaturale partito unico delle destre sia anche verso una non meno improbabile strutturazione confederale. Sapere praticare, non senza difficoltà e opposte ambizioni, l’unità possibile a partire dalle diversità date fu, per le destre, un decisivo fattore di forza e di stabilità durante tutto il primo ventennio del nuovo millennio.

Viceversa, al centro e alla sinistra l’instabilità fu una caratteristica permanente, che contaminò e condizionò il funzionamento dell’intero sistema. La Democrazia cristiana era stata geneticamente un partito pigliatutto, la coalizione di più “tendenze” – secondo l’autodefinizione dei fondatori – capaci di coprire un vasto arco sociale interclassista, ognuna con una propria ‘specializzazione’ in questo ambito, dentro un contenitore ideologico comune ma variamente interpretato, e dentro un contenitore organizzativo – una forma partito – finalizzato essenzialmente alla gestione del potere e perciò nel tempo minuziosamente cencellizzato. Quando all’inizio degli anni ’90 quel contenitore collassò le tessere del mosaico sociale e politico-ideologico ch’era stata la Dc persero ogni coesione, si allentarono e tesero poi a ricomporsi in mosaici diversi, sulla base delle proprie distinte idealità, dei propri interessi e delle ambizioni dei vari leader. Mentre sul piano sociale ed elettorale la parte prevalente fu attratta verso il baricentro di destra, sul piano politico la parte prevalente dei gruppi dirigenti guardò verso sinistra; essa subì però in breve tempo successive frammentazioni e amputazioni in direzione del centrodestra, con un frenetico movimento di protagonismi che si protrasse per un decennio, e oltre, e con attori perlopiù animati dal rimpianto per la perduta centralità del centro, e dalla speranza di rieditarla, senza mai trovare un solido ubi consistam.

Un’analoga e per certi versi maggiore instabilità regnò anche a sinistra. Sotto il maglio delle inchieste giudiziarie il Psi craxiano si scompaginò del tutto. Alle elezioni politiche del 1994, quando si presentò con la coalizione di sinistra a guida Pds, crollò da poco più del 13 per cento a poco più del 2 per cento. In gravissima crisi politica, organizzativa e finanziaria, con una successione convulsa di segretari, mentre iniziava la diaspora dei suoi gruppi dirigenti, nel novembre del 1994 il più antico partito della sinistra italiana scomparve per messa in liquidazione tecnica. Esso lasciò dopo di sé soltanto frammenti individuali o piccoli gruppi, disseminando i propri principali esponenti tra il centrodestra (dove trovarono stabile collocazione soprattutto in Forza Italia) e il centro sinistra (dove invece proseguirono le proprie febbrili e mai definitivamente risolte dinamiche, ormai più esistenziali che partitiche, contribuendo all’instabilità generale di quell’area).

Nel Partito comunista italiano il gruppo dirigente che dopo la sofferta transizione di Alessandro Natta s’era raccolto attorno ad Achille Occhetto intuì precocemente il cambio di fase che si apriva con la vittoria degli Stati Uniti nella guerra fredda, e sfruttò subito l’opportunità per andare oltre i limiti fissati dal precedente progetto di revisione intitolato al “nuovo Pci” (XVIII congresso, marzo 1989).

Dalla svolta di Salerno in poi il Pci era divenuto progressivamente il principale partito riformatore della sinistra italiana, interprete ed erede di fatto della tradizione del socialismo classista di fine Ottocento e inizio Novecento. Volendo civettare col lessico politico attuale, e in particolare col lemma passepartout ‘riformismo’, per il Pci del secondo dopoguerra si potrebbe correttamente parlare di riformismo radicale, teso alla rappresentanza e alla tutela dell’insieme dei ceti subalterni. In termini di elaborazione politica quello fu il riformismo indicato nella forma più organica dalla dichiarazione programmatica dell’VIII congresso (dicembre 1956) con l’enunciazione della strategia delle riforme di struttura; e in termini di organizzazione e di azione pratica fu il ‘riformismo realizzato’ nell’articolato sistema di insediamento sociale (il partito stesso, i sindacati dei lavoratori dipendenti, le cooperative, le organizzazioni di categoria dei ceti medi, le associazioni ricreative, sportive, culturali, le case del popolo…) che il Pci seppe costruire, e negli strumenti di egemonia (tutti quelli tradizionali: i quotidiani, i periodici politici, le riviste specialistiche pressoché in ogni grande area dello scibile, le scuole di formazione politica, le istituzioni e i centri culturali… senza riuscire però a sfondare mai in quelli più moderni, radio e tv comprese) che esso seppe moltiplicare e utilizzare per conquistare di fatto al “mondo del lavoro” il ruolo e i diritti che la Costituzione repubblicana aveva sancito formalmente.

Questi erano gli effettivi contenuti materiali dell’aggettivo “comunista” nella concreta, storicamente data, versione italiana. Il legame internazionalista con la rivoluzione sovietica e poi con l’Urss era stato indiscutibilmente un contenuto non meno concreto, e anzi determinante, nei primi vent’anni di esistenza del Pci – quasi tutti trascorsi nella clandestinità e nell’esilio dai militanti di quella ch’era stata una combattiva ma piccola formazione politica – e s’era poi inevitabilmente trasferito nel “partito nuovo” togliattiano. Nei decenni successivi, tuttavia, e con accentuata rapidità dopo la crisi cecoslovacca del 1968, l’incidenza del fattore identitario internazionalista si era attenuata sotto tutti i profili (ideologico, politico, organizzativo, finanziario) a vantaggio delle componenti nazionali, fino a diventare ininfluente negli anni ’80, dopo lo “strappo” attuato da Enrico Berlinguer in occasione della crisi polacca del 1981.

In questa chiave di lettura – quella prevalente tra gli oppositori della svolta di Occhetto – la decisione di cancellare l’aggettivo “comunista” non significava dunque recidere quel legame ormai inesistente, bensì ammetterlo come perdurante, riconoscere la sconfitta dell’Urss come propria e subire la resa rimuovendo tutti gli altri contenuti della propria identità. Significava confondere il nome con la cosa. E significava quindi progettare un partito altro da sé, con un’identità sociale e ideale che rinunciava al ‘riformismo radicale’, alla volontà di trasformare profondamente il sistema capitalistico, piegandosi invece ai suoi disvalori, alle sue diseguaglianze e ai suoi squilibri sociali.

Trattandosi di un contrasto insanabile di principi e di valori, la lacerazione del partito fu anch’essa radicale. I due spezzoni che ne derivarono – uno ‘innovatore’ in senso ‘riformista debole’, l’altro ‘rifondatore comunista’ in un’accezione radicale nelle intenzioni di numerosi dirigenti ma tra la base a vocazione in prevalenza continuista – si contesero subito e frontalmente non soltanto l’eredità materiale, politica ed elettorale del vecchio Pci ma anche, e più in generale, il diritto a costituirsi come l’unica, vera sinistra. Il decennio successivo alla dissoluzione del Pci, pur se intercalato da momenti di avvicinamento utilitaristico nelle scadenze elettorali, vide consolidarsi la competizione distruttiva tra le due sinistre: ciascuna determinata a rimuovere quella che considerava l’anomalia dell’altra; e, nel contempo, ognuna protesa a rafforzarsi aggregando componenti politiche di diversa tradizione, e assumendo di conseguenza caratteristiche sempre più spurie rispetto alle matrici originarie, e perciò contraddittorie e destabilizzanti.

Nei due anni e mezzo del primo governo Prodi il conflitto tra le due sinistre, interagendo direttamente con le dinamiche della maggioranza e del governo ulivisti, agì da catalizzatore soprattutto per le contraddizioni del Prc fino a farle precipitare nella scissione.

Le contestuali cadute di Prodi e del Prc produssero un effetto catastrofico – nel significato che la fisica attribuisce al termine – sulla sinistra e, di conseguenza, avviarono una drastica e irreversibile variazione della struttura dell’intero sistema politico. Dopo di allora la storia di entrambe le componenti della sinistra italiana avrebbe seguito un percorso che le avrebbe condotte sempre più lontano dalle proprie origini e dalla capacità di fornire un’efficace rappresentanza alle aree sociali per la cui tutela essa s’era costituita in forza politica oltre un secolo prima.

L’ascesa di D’Alema alla presidenza del Consiglio, accompagnata dall’immediata cessione della leadership dei Ds a Walter Veltroni, chiuse di fatto la contesa tra i successori di Achille Occhetto sull’evoluzione futura del principale troncone del dissolto Pci. Era ovvio che affidare a Veltroni lo scettro del comando significava relegare in secondo piano il progetto coltivato dal suo competitore Massimo D’Alema di un partito riformista di impronta neo socialdemocratica, e favorire invece il progetto alternativo di un partito democratico ispirato al modello statunitense, del tutto nuovo rispetto alle tradizionali culture politiche nazionali perché fondato sulla loro convergenza e – negli auspici – sulla loro fusione in un unico contenitore ‘riformista’ in questo caso non meglio identificato né qualificato.

Il tracollo subito dai Ds alle elezioni regionali del 2000 e confermato dalle politiche del 2001 certificò la scarsa attrattiva esercitata sull’opinione pubblica da entrambe le innovazioni offerte: da entrambe le nuove ‘Cose’, si sarebbe tentati di dire richiamando il precedente occhettiano. Con quel risultato il leader del progetto similblairiano falliva la prova del governo. Con ciò anche la sua chiamata a raccolta di tutti i riformismi di sinistra – qualsiasi cosa ciascuno di essi intendesse per riformismo, ed era arduo intenderlo – si dimostrava un percorso senza sbocchi, improduttivo. Ma altrettanto improduttivo si rivelava pure il proposito veltroniano di ingegneria genetica, inteso a trasmutare l’organizzazione maggioritaria proveniente dalla storia della sinistra italiana in un soggetto ibridato totalmente altro, disancorato persino dalla memoria della propria passata identità.

Tuttavia, la sconfitta ebbe effetti e conseguenze ben diverse per l’uno e per l’altro disegno. Il progetto di rivitalizzare la sinistra riformista (nell’accezione dalemiana) con l’afflusso di nuove energie compatibili con la propria natura subì un colpo dal quale non si sarebbe più ripreso. Come tramortito dalla sconfitta, trasferito nelle mani di Piero Fassino cui fu affidata la segreteria dei Ds, esso si avviò verso una graduale estinzione: sempre più dubbioso di sé esso, sempre più incerto sul da farsi, sempre alla ricerca di una qualche nuova novità o di un qualche nuovo salvifico leader che restituisse al partito – a quel che ne restava – la perduta identità forte e il prestigio dilapidato, esposto a tutti i venti mediatici e a tutte le mode culturali, privo ormai di ogni capacità – di più: di ogni volontà – di produrre egemonia nella società e quindi sempre più teso a identificarsi nel e col potere istituzionale fine a se stesso.

Viceversa, nonostante il tracollo della direzione veltroniana dei Ds e la prudente ritirata del leader sulla vetta del Campidoglio romano, il secondo progetto sopravvisse alla disfatta del 2001. Inabissatasi in un primo tempo per necessità, la spinta verso il partito democratico continuò a scavare dentro alle delusioni disseminate tra i Ds dalla crisi del progetto concorrente, e finì per riemergere in vista del rientro sulla scena politica italiana di Romano Prodi, a conclusione del suo mandato come presidente della Commissione europea. Innestandosi sulle rinverdite dinamiche uliviste, dopo il 2003 il progetto del partito democratico sperimentò così una seconda occasione cui parve arridere il pieno successo con la sua nascita ufficiale il 14 ottobre 2007. Divenne segretario di quella spuria coalizione di soggetti alquanto diversi appunto Walter Veltroni, e la nuova formazione politica assunse una netta connotazione ulivista resa manifesta innanzitutto dalla confluenza dell’aggregazione centrista della Margherita e dalla circostanza che la presidenza fosse affidata a Romano Prodi, giunto in quella data quasi alla conclusione della sua seconda effimera esperienza di governo. Tornato a palazzo Chigi nel 2006 grazie a un’altra vittoria di Pirro di un’altra coalizione di centro sinistra – l’Unione – che lo aveva nuovamente candidato come leader, Prodi era infatti destinato nuovamente a cadere qualche mese dopo la nascita del Pd a causa di una riedizione semifarsesca, quasi da dramma satiresco, della tragedia di un decennio prima: pressoché con gli stessi attori ma con l’aggiunta di qualche personaggio grottesco, e attenendosi a un analogo copione ma con un finale modificato, definitivo, fatale, per ciò che residuava della sinistra italiana.

All’estinzione della sinistra che si richiamava alla versione blairiana del laburismo si accompagnò infatti quella dell’altro troncone di sinistra originato dalla dissoluzione del Pci che si richiamava invece alla ‘rifondazione’ del comunismo. Dopo l’appassionata separazione del 1990-91[3] l’algida scissione del 1998 comportò una definitiva crisi di fiducia nelle relazioni tra i comunisti e il sentimento popolare, determinando la fine della tendenza alla crescita elettorale del Prc e il venire meno di ogni sua potenzialità di sviluppo organizzativo e di radicamento sociale. Nel decennio seguente il frammento maggiore – che del Prc originario conservò soltanto l’acronimo e le persistenti contraddizioni – perseguì di fatto la propria fatale trasformazione in un modello movimentista di partito che rinnovava i nefasti delle formazioni autoreferenziali della sinistra ‘radicale’ degli anni ’70 del Novecento, indebolito anno dopo anno dalla decrescita organizzativa e minato inoltre da forme patologiche di frazionismo personalistico che avrebbero partorito un numero crescente di altre sigle senza seguito sociale o elettorale effettivo. Dal canto proprio il frammento minore – il Partito dei comunisti italiani – rimase sempre un’organizzazione di dimensioni modeste nonostante i volonterosi appelli a farsi partito di massa, con caratteristiche in prevalenza istituzionali coperte da feticistici riferimenti consolatori a nomi e a simboli del passato, senza raggiungere mai il radicamento sociale che dichiarava di perseguire, con una struttura organizzativa costantemente gracile e con una diffusa conflittualità nei gruppi dirigenti soprattutto territoriali.

Nel 2008 entrambi i frammenti conclusero la parabola declinante iniziata dieci anni prima, finendo privati anche delle rappresentanze parlamentari nelle elezioni di quell’anno dominate dall’onnivora ma illusoria vocazione maggioritaria del neonato Partito democratico. Esso infatti ottenne un buon risultato elettorale, ma non tale da consentire alla piccola coalizione composta con l’Italia dei valori di prevalere sulla coalizione delle destre. Riuscì tuttavia a raggiungere il secondo obiettivo, quello di desertificare lo spazio politico alla propria sinistra dove sopravvissero stentate formazioni ormai ridotte a etichette più o meno nobili incollate a contenitori deteriorati, impotenti a influenzare in qualche modo le dinamiche politiche e sociali.

Giungeva così a compimento un processo dipanatosi per poco meno di vent’anni ma conformato in misura determinante dai comportamenti e dalle scelte del cruciale biennio 1996-1998. Tirate le somme, si trattava di una conclusione fallimentare per tutte le varianti della sinistra italiana che s’erano trovate ad agire sullo scenario politico del dopo guerra fredda. Per tale fallimento grandi furono le responsabilità di coloro che, avendo scommesso sulla rifondazione di un’identità comunista, non seppero gestire le difficoltà e le contraddizioni del proprio progetto di rinnovamento nella continuità per alcuni, o nella discontinuità per altri. Ma ancora più decisive per la comune sconfitta furono le responsabilità di quanti avevano scelto di rompere col proprio passato di comunisti italiani. Nell’intento di riformare su base ‘riformista’ l’identità del principale soggetto riformatore dell’Italia repubblicana essi si divisero perseguendo contrastanti progetti di metamorfosi; il loro conflitto accelerò l’alterazione dell’identità originaria senza però approdare alla costruzione di un’altra che fosse insieme nuova e salda e attrattiva. Né inferiore fu il danno arrecato alla sinistra latamente intesa dalla parte di essa che si riconosceva nel progetto ulivista. Come la sinistra ‘riformista’ anche quest’ultima frazione di sinistra sui generis – per essere precisi, la parte del centro democristiano che aveva scelto di guardare a sinistra – non seppe comprendere quanto fosse vitale avere di fianco al centrosinistra, distinto ma collegato, uno spazio che potesse accogliere e con/tenere le tensioni più acute prodotte dai crescenti squilibri della seconda internazionalizzazione: una sinistra del centrosinistra, da riconoscere politicamente e da remunerare equamente sul terreno della rappresentanza sociale. Nel Pds-Ds e nell’Ulivo prevalse invece l’ostilità verso la sinistra comunista valutata soltanto come minaccia identitaria, come concorrente e competitrice, come ostacolo all’attuazione senza vincoli dei propri programmi.

In tutte le componenti del centrosinistra e di sinistra mancò una coerente cultura delle alleanze sociali e politiche imperniata sul rispetto reciproco e dei reciproci interessi vitali, da affermare con atti di reale mediazione. Fu questo originario vizio di cultura politica a minare le relazioni nella maggioranza che reggeva il primo governo Prodi, prolungando poi nel tempo i propri effetti fino alla vocazione maggioritaria – totalizzante, verrebbe da dire – del Pd veltroniano, sorto come illusoria attuazione del partito pigliatutto, capace di inglobare l’intero spazio dal centro all’estrema sinistra. Fu il rifiuto di fatto della politica delle alleanze tra soggetti politici e sociali diversi, riconosciuti e legittimati come tali, a produrre nel tempo la graduale dissolvenza (per inefficacia esterna e interna) nel sentire comune delle ‘masse popolari’ delle forze politiche di centrosinistra e di sinistra: non credibile come contenitore unico di sinistra il Pd, nato da triboli e stenti decennali, piegato all’egemonia di culture estranee alla storia della sinistra; ma pure in/credibili come sinistra in grado di condizionare il centrosinistra le due formazioni comuniste, divise, contrastanti e alla fine divenute anche extraparlamentari.

Dei due progetti di sinistra (tre, più precisamente, dovendo distinguere quello comunista in bertinottiano e cossuttiano) che con tanta ostinazione e asprezza s’erano contesi il campo della rappresentanza popolare nel biennio 1996-1998, dieci anni dopo non ne rimase dunque alcuno che volesse, o che potesse, interpretare efficacemente gli interessi, le paure, le speranze e le aspirazioni di quel mondo, rimasto senza più voce e senza più mezzi credibili per fare valere le proprie ragioni. Per una ferrea norma della politica, questo vuoto di rappresentanza, di passioni e di razionalità – tutti ingredienti indispensabili per l’esistenza di un vero partito –, disseminato dalle scorie populistiche espulse da almeno tre lustri di proclami e di pratiche cosiddette antipolitiche provenienti non soltanto da destra, fu colmato e surrogato con contenuti simili, ma declinati in senso opposto, dall’epifania di due “uomini provvidenziali e carismatici” (A. Gramsci), tipici “elementi teatrali” capaci di seduzione propri dei periodi di crisi organica: il demagogo agitatore di folle Giuseppe ‘Beppe’ Grillo, e il profeta neo rousseauiano della ‘democrazia’ telematica Gianroberto Casaleggio.

Il tecnopopulismo messianico messo in campo da quell’endiadi politica offrì ai settori sociali che venivano investiti materialmente e travolti psicologicamente dalla crescente crisi economica un indirizzo (definirlo progetto sarebbe forse eccessivo) che lasciava intravedere risposte contraffatte ma efficaci alle loro attese e domande. In primo luogo, a quelle lasciate inevase nello spazio ideale, sociale, politico un tempo presidiato dalle organizzazioni della sinistra, e ora svuotato per loro rinuncia o per loro incapacità. E poi anche quelle storicamente pullulanti dai bassi fondali del plebeismo, dell’in/coscienza civica, del risentimento individualistico sgorganti dalle pulsioni sempre attive nelle aree della popolazione italiana più carenti di coesione identitaria: una moltitudine disgregata di individui spontaneamente propensi a identificarsi in un qualche capo che sappia farsi portavoce delle proprie frustrazioni e interprete degli umori di rivalsa che essi nutrono nei confronti di gruppi dirigenti percepiti come estranei: un novello, elevato Licurgo capace con la sua guida di rimediare a tutte le ingiustizie e a tutti i mali dell’Italia, erto a ritorsivo vendicatore dei torti, reali o presunti, patiti dal popolo.

Sulle macerie delle sinistre poteva così farsi avanti uno strano, equivoco movimento che ne miscelava alcune istanze sociali (ma in versione assistenzialistica), altre etiche (ma declinate in senso moralistico, e come pretesa di superiorità antropologica rispetto a “quelli di prima”) ed altre ancora democratiche e partecipative (ma che sbandieravano la democrazia diretta soltanto per velare le pudende di un vero e proprio centralismo computerizzato) con pulsioni ricorrenti nella storia d’Italia e anche dei suoi ceti subalterni. Con analoghe pulsioni i partiti del movimento operaio degli albori avevano dovuto misurarsi, riuscendo col tempo a superarle e imparando poi a combatterle. Ora con la loro eclissi esse prorompevano di nuovo. Il movimento che le utilizzava era un aggregato interclassista, indifferenziato benché con talune peculiarità territoriali e generazionali, che si autodefiniva né di destra né di sinistra e che appunto per la sua congenita ambiguità era in grado di pescare in ogni direzione – dalla destra, dal centro, dalla sinistra, dall’astensione, dai ceti medi e dai lavoratori dipendenti, dagli occupati e dai disoccupati, dagli informati e soprattutto dai disinformati, dal Nord e soprattutto dal Sud… Se però se ne analizzavano la realtà effettuale (ideologia, struttura dell'organizzazione, riferimenti sociali, programmi, scelte politiche, comportamenti concreti), le parole d’ordine mobilitanti (il ‘vaffanculo’, il ‘via tutti’, lo spontaneismo, la ‘casta’, le poltrone, il maltolto, l’inciucio…) e i bersagli principali degli attacchi più virulenti e frontali (i partiti, i politici professionisti, il Parlamento, la democrazia rappresentativa, lo Stato, i giornalisti, le tasse…) non sarebbe stato difficile coglierne le assonanze con la fase aurorale di altre esperienze socio-politiche della storia nazionale. Esperienze senza alcun dubbio tutte diverse, collocate in condizioni storiche diverse, con esiti ultimi diversi e quindi con caratteristiche ben distinte: ma alla fin fine col connotato comune di risultare sempre regressive o reazionarie. Quelle esperienze che nei passaggi di più profonda crisi della società italiana hanno visto frazioni più o meno ampie delle masse popolari riconoscersi prima nel fascismo sansepolcrino, poi nel qualunquismo di Guglielmo Giannini, poi ancora nel leghismo secessionista bossiano.

In conclusione, e in estrema sintesi, quella che irrompeva un’altra volta sulla scena politica italiana era una moderna manifestazione del distacco da gruppi dirigenti dimostratisi fallimentari di ceti subalterni delusi, i cui bisogni insoddisfatti e i cui desideri frustrati potevano ora essere incanalati in senso ribellistico e antiistituzionale da proposte e pratiche populistiche divenute plausibili a livello di senso comune in assenza di alternative credibili.

All’inizio della seconda decade del nuovo secolo il dilagare del grillismo forniva in tal modo la controprova di uno dei ruoli fondamentali che la sinistra – finché era rimasta una sinistra coerente ed incisiva – aveva svolto nella storia dell’Italia repubblicana: quello di una sorta di barena culturale politica e organizzativa, capace di indirizzare nel sistema democratico costituzionale i flussi di marea sociali destinati, altrimenti, a superarne o a travolgerne gli argini per irrompere verso un’agitazione tanto universalmente rabbiosa quanto specificamente impotente: coi caratteri, cioè, della protesta generica e meramente distruttiva perché senza sbocchi razionali, o perché sfruttata a vantaggio di soluzioni regressive (sul tipo delle citate esperienze novecentesche) oppure a-democratiche (si pensi al graduale spostamento del baricentro del potere versi gli apparati burocratici verificatosi coi governi tecnici – e affini – nel corso dell’ultimo decennio).

Senza più quella barena riappariva nella versione grillista un antico substrato storico del ‘carattere nazionale’ degli italiani, cioè della concezione del mondo dell’italiano medio, del quidam de populo – l’uno che vale uno –, dell’italiano ‘meschino’ che si concepiva come ‘volontà generale’ incarnata e intendeva farsi direttamente legislatore per scardinare ciò che sentiva estraneo, e che neppure conosceva. Un substrato mobilitato e unificato nel ‘culto’ del leader che a sua volta si specchiava nel ‘culto’ del popolo, per il quale rivendicava il destino manifesto di essere il vero e unico soggetto della politica moderna mediante la democrazia diretta della rete, sloggiando anticaglie come il Parlamento e la democrazia rappresentativa. Salvo poi concentrare per statuto nelle proprie mani ogni scelta e ogni decisione, passando dalla predica della democrazia diretta alla pratica dell’autocrazia.

Con ciò iniziava un’ulteriore fase della decadenza del Paese. Ai preesistenti fattori distruttivi e destabilizzanti se ne aggiungevano infatti altri, incapaci di qualsiasi proiezione costruttiva che non comportasse di fatto la restaurazione gattopardesca delle consuete gerarchie sociali e degli immutati rapporti di potere sia materiali che istituzionali. Insomma, tanta capacità di demolire, ma nessuna capacità di edificare. La coesione del popolo-nazione – già privata della spinta egemonica e unificante di una conflittualità progressiva, trasformatrice dello stato di cose esistente, esercitata attraverso una gestione razionale e partecipata di ogni tipo di contraddizione: economico-sociale, ideale, politica, istituzionale – vedeva accelerarsi il processo di sfaldamento dell’identità comune iniziato da tempo. L’Italia, che già il 23 ottobre 2011 s’era scoperta declassata nell’occhiata di ironica commiserazione scambiatasi tra Angela Merkel e Nicolas Sarkozy alle spalle di Silvio Berlusconi, precipitava ora in un nuovo girone della propria decadenza, sempre meno capace di darsi un assetto stabile che le consentisse di agire – volendolo, e sapendolo fare – da attore e non da comparsa tra le potenze del mondo cosiddetto globalizzato.

E la sinistra? La sinistra che non è riuscita a ‘rifondarsi’, che cioè nel tornante – nella vera svolta internazionale e nazionale – degli anni ’90 non ha avuto la capacità di cambiare rapidamente “uomini e programmi” adattandosi al nuovo ambiente per poterlo ancora trasformare, anche quella sinistra ha fallito un compito storico. I suoi partiti si sono ridotti a gusci vuoti, privi di contenuti sociali posto che coloro che avrebbero voluto rappresentare non si riconoscono in essi neppure in una minima frazione. Ciò che residua è parte della decadenza generale, non un possibile rimedio, né una credibile alternativa. Quanto prima si prenderà coscienza dello stato effettivo delle cose, procedendo dall’esame di quali scelte e comportamenti ne siano stati l’origine, tanto prima è sperabile che nuove generazioni si facciano avanti per affrontare la prova immane di ricostruzione dei valori, delle idee, delle pratiche riassunti storicamente nella parola “sinistra”. Valori, idee, pratiche che restano indispensabili per costruire una società migliore di quella che la vecchia generazione ha loro consegnato.

Quando si avviò la scommessa, poi fallita, della rifondazione comunista ci fu chi propose un’analogia: disse di considerare i ‘rifondatori’ come quei Giacobini che, dopo la sconfitta della Rivoluzione francese e di Napoleone, continuarono a battersi, a riunirsi, a congiurare, a organizzarsi, ad agire in ogni forma possibile, nelle molteplici sette che pullularono in tutta Europa nella prima metà dell’Ottocento, sempre guardando a ciò ch’erano stati… finché scoppiò il ’48 e si ritrovarono socialisti e comunisti. Niente garantisce che un qualche tipo di nuovo ’48 possa verificarsi anche nel XXI secolo, neppure i tanti sconvolgimenti che si stanno accatastando ovunque per effetto sia della pandemia da coronavirus del 2020 sia della catastrofica sconfitta degli Stati Uniti e della Nato in Afghanistan del 2021, e con i quali comunque l’attuale sinistra dovrebbe iniziare a misurarsi fin d’ora. Ma niente lo esclude. Perché le idee di giustizia non sono mai morte. Bisogna continuare a lavorarci con lo studio, con l’agitazione, con l’organizzazione, come sollecitava a fare un secolo fa Antonio Gramsci.

 

* Introduzione al volume Le cadute. Il governo Prodi e la scissione di Rifondazione comunista (1996-1998), Edizioni Punto Rosso, 2022.

[1] Cfr. Allegro ma non troppo con Le leggi fondamentali della stupidità umana, Bologna, Il Mulino, 1988.

[2] “L’esistenza di un gruppo di capitani, affiatati, d’accordo tra loro, con fini comuni non tarda a formare un esercito anche dove non esiste” (A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, p. 1734).

[3] Rinvio al mio Cronaca di una scissione: dal Pci al Prc. 11 marzo 1990 – 3 febbraio 1991, Massarosa (Lucca), Del Bucchia editore, 2017.

 

 

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