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Categoria: Saggi
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Gaetano Bucci

 

  1. Le ragioni internazionali della fondazione del PCdI

Il Partito fondato a Livorno, nel gennaio del 1921, fu denominato Partito Comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale comunista, con l'intenzione di porsi come un’articolazione della III Internazionale[1], la quale, nel suo II Congresso[2], prescrisse alle formazioni politiche che sceglievano di aderirvi, l’obbligo di rispettare le «ventun condizioni [...] elaborate da Lenin»[3] e tra queste le più rilevanti: la «rottura» con i dirigenti «centristi» e «riformisti» rimasti inerti dinanzi alla guerra imperialista[4], il cambio del nome[5] e l’espulsione dei membri contrari alle «tesi» da essa formulate[6].

Le ragioni che determinarono l’avvio del processo di costruzione del «partito mondiale del proletariato»[7] non possono essere comprese quindi se non tenendo in considerazione la «dimensione internazionale» contrassegnata dalla svolta della grande guerra e le critiche che i bolscevichi rivolsero alla II Internazionale, raffigurata da Lenin come una «buca delle lettere», perché aveva accolto indiscriminatamente tutte le sezioni proclamatesi socialiste, i cui «dirigenti opportunisti» avevano condiviso la «causa della guerra di nazioni» e approvato i «crediti militari». Le dirigenze dei partiti socialisti europei erano così venute meno a un «impegno solenne», assunto con la mozione approvata nel Congresso di Basilea del 1912, la quale aveva reputato alla stregua di un «delitto» il conflitto armato tra lavoratori di nazioni diverse, innescato allo scopo di incrementare i profitti delle grandi imprese capitalistiche[8].

Per tali ragioni la «nuova internazionale» indicò ai «lavoratori rivoluzionari» l’obiettivo di allontanare dalle loro fila[9] non solo i dirigenti «socialsciovinisti», considerati «borghesi nel movimento operaio» e quindi «avversari diretti di classe», ma anche quelli «socialpacifisti», che sostenevano la linea dell’«unità socialista» considerata invece dai bolscevichi «l’equivoco maggiore da dissipare»[10].

Nel primo dopoguerra l’Internazionale comunista riteneva che il capitalismo versasse in uno stato di crisi generale, possibile preludio a una situazione rivoluzionaria anche in Europa[11], per affrontare la quale prescriveva alle forze politiche rappresentative del movimento operaio, il rispetto dei medesimi «principi fondamentali» che avevano orientato la «vittoriosa esperienza» bolscevica[12] e in specie il principio della «dittatura del proletariato» considerata come «unica difesa» contro la «dittatura della borghesia», colpevole di aver provocato il conflitto mondiale e in grado di scatenare guerre future. I bolscevichi erano convinti insomma che solo la dittatura proletaria avrebbe potuto spezzare «la macchina dello Stato borghese» e porre le premesse per una democrazia radicale[13].

Lenin osservava, pertanto, con attenzione i «germi di potere sovietico» che nascevano in Germania con il sistema dei Consigli o in Inghilterra con il movimento dei delegati d’officina, consapevole che solo «la vittoria su scala internazionale»[14] avrebbe potuto consentire alla rivoluzione bolscevica di «resistere» e alla Russia di dismettere il ruolo di «paese modello»[15].

Egli lanciò pertanto la decisa parola d’ordine: «trasformare la guerra imperialista in guerra civile», mentre il PSI adottò l’ambigua formula: «né aderire né sabotare», la quale si tradusse tuttavia in un «atteggiamento attendista e inerte»[16] e fu, anzi, interpretata[17] dalle correnti moderate come l’assunzione di un impegno a svolgere una funzione di «argine»[18] nei confronti di «rivolte popolari» di carattere radicale[19].

Nel dopoguerra coesistevano infatti all’interno del PSI[20] «due anime» - quella «riformista» e quella «massimalista»[21] - che, pur unite nel ripudio della guerra[22] e nelle battaglie concrete[23], muovevano da visioni differenti e praticavano strategie divergenti[24]. Ciò impedì di intraprendere un’azione idonea a fermare la guerra e a orientare i moti popolari che rivendicavano pace e giustizia sociale[25].

Una «letteratura cospicua e pressoché unanime [...] che va da Salvemini sino a Gramsci, passando per Nenni, Gobetti e Tasca», ha posto, del resto, in evidenza come la politica del PSI fu caratterizzata da un’«insufficienza rivoluzionaria», determinata dalla «contraddizione» tra l’uso di parole d’ordine massimaliste e l’adozione di un’azione debole, indecisa e limitata alla propaganda, prefigurando così il «crollo della borghesia» come esito fatale di un processo oggettivo e inducendo nelle masse uno «stato di aspettazione messianica» di un evento ritenuto imminente e ineluttabile[26].

Tutte le correnti del PSI subirono, del resto, l’influsso di una concezione meccanicista ed evoluzionista del marxismo secondo la quale la rivoluzione sarebbe avvenuta nella fase culminante del processo di sviluppo delle forze produttive. Secondo tale prospettiva si sarebbe registrata una considerevole crescita della forza del proletariato che avrebbe portato automaticamente al superamento del sistema di produzione capitalistico.

Questa lettura deterministica[27], che considerava il socialismo come risultato delle contraddizioni intrinseche al capitalismo[28] piuttosto che come esito di un’azione capace di coniugare «spontaneità» e «direzione consapevole»»[29], fu utilizzata di fatto per legittimare la politica del PSI. Non inserendo, infatti, la lotta per le riforme nella prospettiva della rivoluzione, si finì col rinviare quest’ultima all’infinito[30], favorendo quella situazione di supina attesa[31] generatrice di un opportunismo che pareva costituire l’unico scopo del partito[32].

In tal modo, insomma, la maggioranza del PSI mirava, da un lato, a rassicurare con toni massimalistici[33] le frange intransigenti in merito alla permanenza dell’obiettivo della rivoluzione, preservando così l’unità del partito e dall’altro puntava a perseguire, con una tattica riformista ed elettoralista[34], la conquista della maggioranza politica considerata come la premessa necessaria per garantire al partito un ruolo preminente nella politica nazionale.

Per combattere questa impostazione opportunista che annichiliva le potenzialità rivoluzionarie delle masse, le correnti di estrema sinistra della vecchia Internazionale[35], decisero di avviare il processo di formazione dell’«embrione costitutivo» della «nuova organizzazione mondiale del proletariato»[36]. Nelle Conferenze di Zimmerwald (settembre 1915) e di Kienthal (aprile 1916), esse infatti lanciarono la «parola d’ordine della pace senza annessioni e senza indennità», adottata dal Soviet di Pietrogrado (aprile 1917), sortendo l’effetto di potenziare l’«insofferenza» delle masse nei confronti della guerra[37].

Le formazioni comuniste che furono costituite sulla base delle direttive emanate dalle due Conferenze recepirono pertanto una prospettiva più ampia di quella «nazionale»[38], poiché scaturirono da un movimento rivoluzionario internazionalista che lottava contro la guerra imperialista e contro gli effetti della crisi economica, sociale[39] e «ideale»[40] da essa provocati.

  1. Le ragioni nazionali della fondazione del PCdI

Per quanto riguarda la specifica situazione italiana, tuttavia, la componente «intransigente»[41] del PSI decise di creare una «frazione comunista»[42] e, in seguito, di fondare l'omonimo partito[43], non solo per ragioni di carattere internazionalista, ma anche per sottrarre i lavoratori alla condizione di subalternità determinata dal comportamento compromissorio dei dirigenti socialisti, che avevano disinnescato le potenzialità rivoluzionarie delle lotte operaie del «biennio rosso» (1919-1920) stipulando accordi di vertice con il governo e con gli imprenditori[44].

Nel marzo del 1920 gli operai delle Industrie Metallurgiche torinesi entrarono in sciopero (cd. sciopero delle lancette) per protestare contro i licenziamenti di alcuni membri della Commissione interna, accusati di aver arretrato di un’ora le lancette dell’orologio dello stabilimento. Attraverso tale atto i lavoratori intendevano esprimere il proprio dissenso in merito alla misura governativa che ripristinava l’ora legale già adottata durante la guerra e avversata dai lavoratori in quanto causa del degrado della loro condizione esistenziale e lavorativa.

L’Associazione degli industriali metalmeccanici reagì a questo episodio d’«indisciplina operaia» con la serrata delle fabbriche (29 marzo) e con la presentazione di uno «schema di procedura» che limitava le funzioni delle Commissioni interne[45]. Il «Comitato d’agitazione» rispose all’offensiva padronale con la proclamazione dello «sciopero generale», che assunse in questo contesto una valenza «schiettamente politica», ponendo la «questione [...] del potere operaio nelle fabbriche»[46] e dunque del «controllo sulla produzione»[47].

Il «Comitato di studi dei consigli di fabbrica torinesi» lanciò pertanto un appello (20 aprile) che incitava gli operai a lottare per il potenziamento dei «Commissari di reparto» e dei «Consigli di fabbrica», ovvero di quegli «istituti rivoluzionari» che non interessano «soltanto una categoria locale», ma riguardano «tutto il proletariato [...] italiano»[48].

La Direzione nazionale del PSI e la CGL non recepirono tale appello, manifestarono anzi la loro contrarietà allo sciopero[49], giungendo ad accusare i «compagni torinesi» di «indisciplina» per aver deciso autonomamente di accettare la «prova di forza» imposta «dagli imprenditori», di «allargare il movimento», nonché per aver tentato un «accordo con gli anarchici»[50].

Sulla base di queste premesse, i dirigenti sindacali giunsero a stipulare con gli industriali un «concordato», che limitava ampiamente i poteri delle Commissioni interne e dei Consigli di fabbrica e precludeva la possibilità di esercitare la «funzione di controllo sulla produzione»[51], ripristinando di fatto «l’autorità dei padroni»[52].

Il fallimento dello sciopero generale torinese dell’aprile del 1920[53] - ovvero dello sciopero «più grandioso e insieme tragico del dopoguerra»[54], perché «contrassegnato dall’eroismo della massa operaia torinese e dal suo pressoché totale isolamento»[55] - accrebbe pertanto le ragioni del contrasto tra i gruppi promotori dei Consigli di fabbrica e la direzione del PSI, tanto che Gramsci ricorse alla locuzione «scissione d’aprile» per definire quella frattura[56] che anticipava l’esplosione delle «contraddizioni», concretizzatasi nel mese di settembre con l’occupazione delle fabbriche da parte degli operai metallurgici di tutta Italia[57].

Nell’estate del 1920 le condizioni del conflitto di classe si inasprirono, infatti, a causa dell’intransigenza degli industriali, i quali decisero di reagire con la «serrata» alle lotte promosse dalla Fiom, finalizzate a rivendicare gli aumenti salariali ritenuti indispensabili in conseguenza della crescita del «costo della vita»[58].

I nuclei operai torinesi aderenti al movimento dei Consigli[59], risposero a loro volta con l’occupazione armata delle fabbriche, nell’ambito della quale il gruppo dell’Ordine Nuovo promosse la creazione di Consigli di fabbrica con lo scopo di introdurre forme di controllo sociale della produzione[60], mentre «le dirigenze politiche e sindacali» si rivelarono ancora una volta inconsapevoli della «posta in gioco» e continuarono a riproporre le rassicuranti «formule della crisi inevitabile e prossima» del sistema capitalista, nella cui attesa la rivoluzione veniva tuttavia continuamente rinviata[61].

I Consigli di fabbrica divennero, comunque, «per gli operai padroni delle officine un’esperienza [...] reale» di gestione e di «direzione della produzione»[62], anche se i «comunisti torinesi», dopo l’«amaro epilogo della lotta d’aprile», pur sostenendo la necessità di estendere il movimento, «rifiutarono di assumersi la responsabilità dell’iniziativa [...] di una lotta armata», poiché non nutrivano alcuna fiducia nell’intenzione della CGL di svolgere una funzione di «direzione nazionale dell’agitazione» e non avevano certezza che essa avrebbe impedito che si concentrassero «a Torino, come nell’aprile, tutte le forze militari del potere di Stato»[63].

All’inizio di settembre si affermò infatti, «nel seno della CGL, la tesi favorevole a un compromesso» che legittimò «gli organi dirigenti» del sindacato a stipulare «un concordato»[64] con gli industriali, che fece «conseguire ai lavoratori metallurgici notevoli miglioramenti salariali», ma trasformò una lotta politica per il controllo sulla produzione in una vertenza meramente sindacale[65].

Il «concordato» inflisse quindi al movimento operaio «una sconfitta gravissima», che sancì «il generale declino dell’ondata rivoluzionaria del dopoguerra»[66] e aprì una crisi profonda all’interno del PSI, mentre «l’iniziativa della classe dirigente borghese» si intensificava e si andava profilando la reazione fascista[67].

I riformisti, da sempre propensi a ricondurre le lotte operaie entro limiti sindacali, enfatizzarono i risultati ottenuti con il compromesso, mentre gli ordinovisti li criticarono, nonostante considerassero l’esperienza dell’occupazione delle fabbriche come una notevole scossa assestata al sistema capitalistico e come «una “grande manovra”» per nuove risolutive conquiste.

La differenza di posizioni tra le componenti del PSI, si manifestò tuttavia principalmente in merito al giudizio sui Consigli di fabbrica, invisi ai riformisti, ai massimalisti e agli astensionisti ma considerati dagli ordinovisti come «l’istituzione rivoluzionaria storicamente più vitale e necessaria della classe operaia»[68].

Proprio muovendo da questa valutazione positiva sul ruolo dei Consigli e sulla base di una riflessione relativa alle cause della disfatta[69], il gruppo dell’Ordine Nuovo cominciò a rivendicare la necessità di una «scissione» dai «locali menscevichi», ossia dai «dirigenti riformisti italiani», i quali avevano rinunciato a portare la lotta sul terreno rivoluzionario ed avevano mirato soltanto a un «compromesso onorevole», al fine di chiudere una «vertenza» divenuta ormai ingovernabile[70].

A partire dall’infausto esito delle occupazioni delle fabbriche, divenne quindi «insistente non più soltanto a Torino, ma nazionalmente, il motivo che sarà all’origine della scissione del gennaio 1921», ovvero quello della necessità di costruire le condizioni necessarie per evitare la replica del «sabotaggio riformista della rivoluzione»[71].

  1. La necessità e i limiti della scissione

La decisione dei nuclei operai ordinovisti e bordighisti di avviare la costituzione del Partito comunista[72], non può essere considerata quindi «un errore», bensì una scelta imposta dall’esperienza reale vissuta dal grande movimento proletario del primo dopoguerra, che aveva subito una grave sconfitta a causa del comportamento inerte dei dirigenti del PSI, i quali, impelagati in astratte dispute dottrinali, non intrapresero alcuna «iniziativa concreta» per «risolvere nel senso del progresso la crisi della società nazionale»[73].

Non fu pertanto la «scissione del partito» a determinare «la divisione della classe operaia», ma fu «la divisione già in atto nel movimento operaio» a provocare la scissione del PSI, definita da Gramsci come «la prima grande crisi affrontata dalla classe operaia per riconquistare la perduta unità»[74].

A Livorno, nel gennaio del 1921, i comunisti presero quindi «la via giusta»[75]. Gramsci osservò che se la scissione fosse avvenuta «almeno un anno prima» avrebbe potuto «sbarrare la via al fascismo»; si era verificata invece «in ritardo, quando già iniziava il riflusso dell’ondata rivoluzionaria del dopoguerra e all’orizzonte si profilava [...] una violenta offensiva reazionaria»[76].

Nel contesto di questa drammatica congiuntura, Lenin aveva senz’altro spinto i comunisti italiani a realizzare la scissione dai riformisti del PSI, ma li aveva, nel contempo, sollecitati a costruire un «fronte unico» con essi, considerato essenziale per combattere il fascismo. Tale indicazione non fu, tuttavia, accolta perché prevalse, in quel tempo, nel partito, l’impostazione «estremista» della direzione bordighiana[77] pregiudizialmente contraria ad «ogni alleanza» e quindi incapace di intraprendere un’efficace «azione politica»[78].

  1. L’avvio del processo di formazione di un nuovo gruppo dirigente e di un nuovo indirizzo politico tra continuità, discontinuità e rinnovamenti

La componente più consapevole del partito[79], che aveva compiuto «un effettivo progresso qualitativo nella capacità di comprendere le situazioni oggettive nazionali e internazionali» e di «adeguare ad esse [...] una vera azione politica», non limitata alla «propaganda» e all’«agitazione »[80], decise, alla fine del 1922, di avviare un «processo critico e autocritico» volto alla correzione di quei «difetti»[81].                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                           

Tale percorso sfociò in una prima trasformazione ispirata alle Tesi presentate da Gramsci al III Congresso del PCdI (Lione, gennaio 1926)[82] e in una successiva ispirata agli indirizzi indicati da Togliatti nel corso di una conferenza stampa (cd. svolta di Salerno), approvati dal I Consiglio nazionale del rinominato PCI (aprile 1944)[83].

Sotto «la guida di Gramsci» e degli altri membri dell’Ordine Nuovo fu avviato quindi un processo finalizzato alla formazione di un nuovo gruppo dirigente e di un «nuovo indirizzo politico», che, superando gli schematismi bordighiani, stimava come prioritario «il problema delle alleanze della classe operaia», considerato come «fattore decisivo nella lotta contro il regime fascista»[84].

Il percorso degli ordinovisti fu tuttavia «lento e faticoso», «subì interruzioni e ritorni addietro»»[85], non può essere dunque raffigurato come un’«ininterrotta processione trionfale»[86], ma piuttosto come un «processo»[87] fatto di «esitazioni» ed «errori», non interpretabili solo «come espressioni di inadeguatezza ideale, incomprensione, incapacità o peggio», bensì come «espressioni di una situazione particolare, di un gruppo di problemi non ancora risolti, di una esigenza non soddisfatta [...] che pesa su tutti i successivi sviluppi»[88].

Si è osservato, del resto, come «un partito che voglia essere [...] un vero partito della classe operaia con carattere di massa», non possa avere «una vita interiore [...] priva di contatto e legame con gli spostamenti che si compiono nelle masse lavoratrici e con i processi di coscienza che li accompagnano»[89]. La storia del PCI presenta infatti «elementi di «continuità» e, al tempo stesso, di «rinnovamento», snodi, attraverso cui si è articolato storicamente il «legame» tra i gruppi dirigenti, le esigenze delle masse e le necessità più profonde del paese[90].

Gli uomini dell’Ordine Nuovo riuscirono, comunque, ad imprimere una profonda trasformazione nella teoria e nella prassi del movimento operaio, seppero dotarlo di una «direzione politica», di una «coscienza critica» e dei «collegamenti internazionali»[91] necessari per affrontare «un processo lento e difficile, ma irreversibile», attraverso il quale la classe operaia divenne centrale nel «rinnovamento della società nazionale»[92].

Gli «elementi principali» di questo processo che testimoniano la «continuità [...] della direzione politica e ideale di Gramsci e Togliatti»[93], furono: il «confronto con la cultura italiana; la critica della società nazionale fondata sulla conoscenza della sua storia; la consapevolezza che nel problema del potere e della direzione dello Stato culminano le lotte e i contrasti tra le classi; l’inserimento di questa svolta politica in una dimensione internazionale» in cui la «rivoluzione di Ottobre» fu riconosciuta come «il fatto storico più importante dell’epoca»[94].

La «più forte continuità» tra l’impostazione di Gramsci e quella di Togliatti dev’essere individuata pertanto nell’opera di «trasformazione di un movimento di rivendicazione e di protesta, in una forza politica in lotta per realizzare l’egemonia sulla società nazionale»[95].

  1. L’impostazione teorico-politica del gruppo dell’Ordine Nuovo e la concezione del potere dal basso

L’esperienza ordinovista esercitò una profonda influenza sullo «sviluppo della storia del PCI». Gli ordinovisti furono in grado, infatti, di trasmettere con caratteri di «continuità», «la concezione del processo rivoluzionario che comincia dal basso, [...] che si ramifica dalle fabbriche»[96] e «trasforma molecolarmente lo Stato»[97] per mezzo di quegli «organismi di autogoverno»[98], quali «Commissioni interne»[99], «Consigli di fabbrica»[100]e «Comitati proletari di città»[101], dal cui collegamento e coordinamento sarebbe dovuta emergere una «democrazia operaia» capace di «sostituire lo Stato borghese in tutte le sue funzioni essenziali»[102].

L’«idea-forza» che, fin dall’estate del 1919, gli ordinovisti si impegnarono a diffondere tra gli operai fu quella della necessità di costruire un «movimento di Consigli di fabbrica, attraverso la trasformazione delle vecchie Commissioni interne in organismi che siano emanazione spontanea della “massa che si governa da sé” nel suo “territorio nazionale”», ovvero nell’«unità produttiva».

Nella prospettiva dei suoi promotori, il Consiglio di fabbrica formato dai «commissari di reparto eletti da tutti i lavoratori»[103], doveva costituire «una forma di soviet, un “potere proletario” conquistato nell’intimo del processo produttivo, la prima cellula del futuro Stato dei Consigli», il cui compito immediato era «quello di impossessarsi del meccanismo dell’azienda per prepararsi a dirigerla». Questa «costruzione ideale» riuscì a radicarsi nella «coscienza» degli operai mediante la «discussione» e l’«esperienza» concreta, giungendo a determinare, «nei grandi complessi industriali, [...] una situazione di dualismo di poteri», la quale fu fonte di conflitti radicali «tra industriali e operai».

Il nucleo essenziale della concezione ordinovista dei Consigli di fabbrica può essere individuato, quindi, nell’idea secondo la quale «il moto proletario verso la rivoluzione» deve esprimersi «in forme proprie» e generare «proprie istituzioni», nella consapevolezza che «la lotta per un ordine nuovo, [...] si inizia cominciando a costruire prima della presa del potere, gli ingranaggi di una macchina statale nuova» e «i proletari d’officina debbono esserne gli artefici, come produttori»[104].

Il gruppo ordinovista criticò, pertanto, radicalmente l’organizzazione burocratica del sindacato[105], contrapponendole «il Consiglio», considerato come l’unico «organismo capace di raccogliere la volontà di tutti i lavoratori e di temprarla sulla base della vita di fabbrica»[106].

Gramsci e gli ordinovisti ritenevano, del resto, che il «processo reale della rivoluzione» non potesse essere identificato con «lo sviluppo del partito e dei sindacati»[107], ma pensavano piuttosto che ambedue gli organismi dovessero limitarsi ad «organizzare le condizioni esterne generali in cui quel processo» si sarebbe potuto svolgere con «massima celerità»[108].

L’esperienza del movimento dei Consigli di fabbrica costituì, anche il fondamento della «concezione di un partito nuovo»[109] , come «partito indipendente della classe operaia», come «strumento di democrazia socialista», con l'obbiettivo di «organizzare le grandi masse in movimento, per renderle capaci di rovesciare il dominio della borghesia e di costituire un nuovo Stato»[110].

A differenza dei bordighiani, che concepirono il partito come un’«élite che si pone sulla classe operaia», gli ordinovisti lo considerarono «come una parte della classe» e seguendo le indicazioni metodologiche gramsciane, cercarono sempre la conferma delle proprie posizioni «nel seno della classe operaia» e risposero alla reazione radicandosi ancor più nelle fabbriche, preparando «con un lavoro sotterraneo, diuturno e difficile, le condizioni della ripresa»[111].

Gramsci, in un passo dei Quaderni, ripensando alle «accuse di spontaneismo e di «volontarismo» rivolte da Bordiga al movimento dei Consigli, ribadì «la fecondità e la giustezza della direzione» impressa dagli ordinovisti[112], osservando come essa non peccò di astrattismo, non ricorse alla ripetizione meccanica di «formule scientifiche», non confuse «l’azione reale, con la disquisizione teorica», ma si misurò con gli «uomini reali formatisi in determinati rapporti storici, con determinati sentimenti, modi di vivere e frammenti di concezione del mondo», coinvolgendoli ed educandoli in una reale dialettica tra «spontaneità» e «direzione consapevole»[113].

La concezione del potere sociale che muove dalle fabbriche[114] e che, assumendo la forma organizzativa dei Consigli[115], si propaga nel territorio fino a condizionare gli assetti della società e dello Stato, costituì «un punto fermo dell’elaborazione gramsciana, il filone rosso del suo pensiero», sempre ripreso e rilanciato, contrassegnando «la vicenda complessiva del partito»[116], come dimostrano gli sviluppi del Congresso di Lione, della “svolta di Salerno” e dell’Assemblea costituente. Quest'ultima, grazie al contributo essenziale dei costituenti comunisti, recepì un modello di democrazia economica e sociale dotato di poteri in grado di consentire alla «sovranità popolare» di immettersi nel circuito decisionale delle assemblee elettive locali e del Parlamento, per incidere sull’elaborazione degli indirizzi politici, economici e sociali del Paese (artt. 1; 3, comma 2; 5; 39; 49; 41, comma 3; 42; 43 Cost).

L’impostazione ordinovista riemergerà nel corso degli anni 1968-1978, nel momento in cui le lotte per l’attuazione della Costituzione si estesero dalla fabbrica al territorio fino a coinvolgere lo Stato, le istituzioni e l’economia, in un processo di democratizzazione e di socializzazione nell’ambito del quale furono create nuove istituzioni come le USL e sperimentate nuove forme di potere sociale come la rete dei Consigli di fabbrica, dei Comitati territoriali, dei Consigli di zona e di quartiere, che divennero soggetti attivi di una programmazione economica orientata a fini sociali[117].

  1. Ordinovisti e bordighisti: le ragioni del dissenso e della temporanea unità di azione

Il gruppo dell’Ordine Nuovo, la cui esperienza fu strettamente legata alle lotte operaie, considerava dunque i Consigli di fabbrica come gli «organismi di un auspicato autogoverno operaio»[118] e quindi il «terreno naturale» sul quale «doveva gettare le sue solide radici il partito»[119] e «il nuovo Stato socialista»[120].

Il gruppo del Soviet concepiva, invece, come «vero soggetto della rivoluzione», il partito, il quale aveva il compito di guidare le classi lavoratrici alla «presa del potere»[121], che si sarebbe potuta però realizzare solo quando fossero esplose le contraddizioni interne al modo di produzione capitalistico. Fino a quel momento non si sarebbero dovute disperdere le forze nell’attività elettorale e parlamentare, ma piuttosto impegnarsi nella «propaganda» e nell’«organizzazione» per essere pronti «a cogliere l’occasione rivoluzionaria che lo svolgimento storico» avrebbe ben presto offerto[122].

I due maggiori esponenti dei gruppi politici che fondarono il PCdI espressero, del resto, una differente concezione del partito e del futuro Stato socialista[123]. Mentre Gramsci, infatti, sostenne che l’azione del partito dovesse muovere dalle «situazioni reali» della classe operaia e dalla «determinazione degli «obiettivi concreti» ad essa corrispondenti[124], Bordiga, partendo da «principi astratti», ritenuti perennemente validi, affermò, invece, che il partito avrebbe dovuto perseguire il fine prioritario della «conquista rivoluzionaria del potere»[125], dinanzi alla quale considerava irrilevanti le «posizioni intermedie», le conquiste «sul terreno della democrazia» e le alleanze con le altre forze di sinistra, accusate di perseguire i medesimi interessi degli «avversari» di classe[126].

La direzione bordighiana non attribuì del resto alcun rilievo «al compito di conquistare [...] una influenza decisiva sulla maggioranza [...] della popolazione lavoratrice», pertanto sottopose il partito ad una «disciplina esteriore» che negava l’ «autonomia [...] delle istanze periferiche», la «diversità di posizioni» e, quindi, la rilevanza della «discussione»[127], che costituiva invece per gli ordinovisti, la sola modalità efficace per consentire ai «militanti» di acquisire «la capacità di comprendere a fondo ciò che bisogna fare e [...] di farlo» con «responsabilità» e con «successo»[128].

L’«avanguardia» finiva così per trasformarsi in «una setta che si temprava nell’attesa della situazione in cui le masse avrebbero raggiunto le sue posizioni ed essa sarebbe stata in grado di guidarle alla vittoria finale».

Si trattava dunque di una «visione del partito» non di tipo «politico», ma di tipo «militare»[129] e pertanto fondata «sulla pura obbedienza» ad «un capo» o a un «ridotto gruppo dirigente», ossia fondata sull'obbedienza ad un soggetto politico provvisto di una «quasi sovrumana capacità [...] di far fronte [...] ad ogni evenienza con le disposizioni opportune [...] e gli ordini necessari»[130].

Un’impostazione quindi antitetica a quella di Gramsci, che considerava il partito come un «moderno principe» produttore di nuove intellettualità[131], organizzato sulla base di rapporti paritari in grado di potenziare la capacità di analisi e di decisione[132] dei suoi «membri [...] considerati tutti [...] come intellettuali»[133] e coinvolti pertanto in un lavoro collegiale essenziale, al fine di affrontare in modo organico la complessa problematica dei rapporti tra società, economia e Stato[134].

Un partito configurato, dunque, in modo tale da anticipare, al suo interno, le caratteristiche democratiche e egualitarie da infondere all’organizzazione della nuova società e del nuovo Stato[135].

La concezione di Gramsci fu quindi quella di un «partito delle masse che vogliono liberarsi coi propri mezzi, autonomamente, dalla schiavitù politica e industriale attraverso l’organizzazione dell’economia sociale»[136] e non già quella di «un partito che si serve delle masse per tentare imitazioni eroiche dei giacobini francesi»[137].

Nonostante le profonde differenze su questioni così rilevanti, gli ordinovisti decisero di aderire alla frazione comunista creata nel Convegno di Imola (novembre 1920) e, in seguito, alla mozione comunista presentata al Congresso di Livorno (gennaio1921), guidate ambedue da Bordiga, perché considerarono indifferibile l’obiettivo di dar vita ad un «organismo unitario e compatto» sottoposto alla «direzione di un centro [...] omogeneo» e quindi capace di esercitare «con fermezza» il suo ruolo direttivo[138].

Le divergenze non furono dunque enfatizzate, perché prevalsero le esigenze di «unità» e di «disciplina», considerate necessarie per giungere alla formazione di un partito comunista capace di superare quei contrasti tra «correnti» e «frazioni» che in una «situazione oggettivamente rivoluzionaria» come quella del biennio rosso, avevano paralizzato l’azione politica del partito socialista[139].

Per realizzare la fondazione del nuovo partito, gli ordinovisti avevano bisogno del resto del sostegno della formazione bordighista che raccoglieva la maggioranza dei comunisti[140] e dovettero pertanto subordinarsi ai suoi indirizzi e rinunciare sia pur temporaneamente, ad alcune istanze originarie[141].

Nella fase successiva alla fondazione del partito, la situazione delle classi lavoratrici si era tuttavia aggravata[142] perché la controffensiva dei «gruppi dirigenti borghesi» si avvaleva ormai apertamente del sostegno della «violenza fascista»[143].

Gli ordinovisti avvertirono quindi l’urgenza di liberare il partito da quell’impostazione settaria che gli impediva di strutturare la propria azione adeguandola alle mutate condizioni dei rapporti di forza tra le classi[144] su scala nazionale ed internazionale[145].

Divenne, insomma, evidente che non esistevano più le premesse per una prospettiva insurrezionale[146] e che il partito sarebbe dovuto passare, - secondo la formula usata da Gramsci nei Quaderni - «dalla guerra manovrata applicata vittoriosamente in Oriente nel '17, alla guerra di posizione»[147], considerata «la sola possibile in Occidente dove [...] gli eserciti [...] potevano [...] in breve spazio [...] accumulare sterminate quantità di munizioni» e «dove i quadri sociali erano [...] ancora capaci» di erigere «trincee minutissime»[148].

Gramsci a partire dalla sua elezione a Segretario generale del partito nell’estate del 1924, avviò una battaglia culturale e politica contro quelle posizioni dogmatiche e settarie che impedivano l’adozione di una strategia di «più ampio respiro»[149].

Ai militanti fu raccomandato infatti lo «studio» e la «ricerca» di «possibili fasi intermedie», l’«abitudine alla distinzione»[150], la creazione di «nuove forme di aggregazione delle masse»[151] e l’attenzione agli «spostamenti politici»[152] che avrebbero potuto creare le condizioni per «contrastare il blocco di potere fascista» sia sul «piano politico» che su quello «istituzionale» [153]

I bordighisti e gli ordinovisti giudicarono tuttavia il fascismo in modo differente.

I primi lo sottovalutarono ritenendolo «un semplice fatto interno della classe dirigente borghese», ovvero una mera «rotazione di gruppi non sostanzialmente diversi»[154].

I secondi lo valutarono invece in un modo più organico, considerandolo come una «formazione politica di unificazione della borghesia», un’«espressione politica del blocco agrario-industriale, diretta dal grande capitale»[155].

Gli ordinovisti, riconoscendo dunque la natura di classe del fascismo, concepirono la lotta antifascista come una contrapposizione tra «un blocco storico antagonistico» e il blocco «industriale-agrario».[156]

La direzione bordighiana riteneva tuttavia che i comunisti dovessero avere proprie «formazioni di resistenza» e non dovessero quindi «mescolarsi» con le altre forze politiche e sociali, rinunciando così, «di fatto, ad essere fermento e guida del grande movimento di massa».

Nei primi mesi del 1921 fu adottata infatti la decisione di non partecipare al movimento degli Arditi del popolo[157] che avrebbe potuto costituire «un fenomeno di valida resistenza armata allo squadrismo»[158].

La nuova direzione gramsciana, in seguito al brutale omicidio del deputato socialista Matteotti, realizzò pertanto un’«inversione di tendenza»[159] che si tradusse nella ricerca delle alleanze necessarie per battere il regime fascista[160] e il «dominio del grande capitale» e per «rinnovare tutta la società italiana»[161].

A partire da quel momento, il partito conferì il dovuto rilievo all’«analisi della realtà», all’individuazione delle «varie forze [...] in gioco» e allo studio del contesto «politico e sociale», determinando così l'uscita «dalla notte hegeliana in cui tutte le vacche sono grigie[162]

Il «processo di rinnovamento» intrapreso dal nuovo gruppo dirigente non fu tuttavia «lineare», ma avanzò «a zig-zag»[163] tra errori[164]», contraddizioni e condizionamenti[165]. Si trattò di una «fase drammatica di trasformazione» caratterizzata da un intenso «travaglio politico»[166] che produsse i suoi primi risultati, nel gennaio del 1926, quando il III Congresso del PCdI, tenutosi a Lione nel gennaio del 1926, sancì l’avvio di un «nuovo corso politico»[167].

  1. Da Lione a Salerno: la continuità della matrice culturale ordinovista

Le Tesi approvate a larga maggioranza nel Congresso di Lione costituirono un passaggio cruciale perché per la prima volta in Italia, «un partito della classe operaia» affrontò «con un’analisi [...] rigorosa le questioni della struttura sociale del paese»[168], dello «sviluppo del movimento operaio» e del «regime capitalistico», nonché delle sue debolezze organiche e delle loro conseguenze politiche»[169].

Con le Tesi di Lione si affermò una «nuova concezione della politica»[170] non più caratterizzata dall’«attesa degli eventi», bensì dall’«iniziativa sociale e politica», dalle «parole d’ordine transitorie»[171], dalle alleanze»[172] e dall’«organizzazione politica dei lavoratori fin dalla fabbrica» e «dai territori»[173].

In tale contesto, la rivoluzione non fu più considerata come un «fatto isolato»[174], ma come «un processo reale inserito nella vicenda storica e politica» e quindi «fatto di lotte [...] di massa» e scandito da «fasi intermedie [...], che costituiscono, nello stesso tempo, obiettivi da raggiungere e basi da cui far ripartire il processo di cambiamento»[175].

Le Tesi di Lione riproposero inoltre la visione di un partito «radicato nella classe operaia» e dunque organizzato, «nei luoghi di lavoro», sulla base di «cellule di fabbrica»[176].

La continuità della matrice culturale ordinovista è comprovata del resto dalla Tesi n. 30 che, richiamando l’esperienza del movimento dei Consigli di fabbrica, rilevava come essa avesse «dimostrato che solo un’organizzazione aderente al luogo [...] della produzione permette di stabilire un contatto tra gli strati superiori e gli strati inferiori della massa lavoratrice [...] e di creare vincoli di solidarietà che tolgono le basi ad ogni fenomeno di “aristocrazia operaia”»[177].

La nuova concezione del «partito proletario da inserire nel tessuto connettivo della fabbrica», posava dunque le sue radici nell’elaborazione dell’Ordine Nuovo nel periodo 1919-1920, che non può essere quindi considerata come un’esperienza isolata, bensì come il parametro fondamentale su cui fu impostato il nuovo corso del PCdI, che continuerà ad influenzare le sue future evoluzioni[178].

Le riflessioni teoriche e politiche di Gramsci e di Togliatti scaturivano, del resto, dalla comune «esperienza ordinovista» nel corso della quale acquisirono consapevolezza della rilevanza della «dimensione di massa» nella «politica contemporanea» e quindi della importanza strategica che, in tale contesto, assume il «nesso democrazia-socialismo»[179].

Nelle Tesi elaborate per il Congresso di Lione[180], essi posero pertanto le basi di «una prima rielaborazione del nesso democrazia-socialismo» che aprì «nuove vie per la rivoluzione socialista in Occidente»[181].

A partire da quel momento fu avviato un processo di «recupero» e di «ampliamento [...] dell’idea di democrazia»[182] che sfocerà nella concezione della «rivoluzione italiana» come «rivoluzione popolare, nazionale, antifascista»[183].

Il «nesso democrazia-socialismo»[184] divenne quindi «il filo rosso di tutta l’elaborazione e l’esperienza storica del Pci», che, con la svolta di Salerno[185], assunse pienamente la «dimensione [...] della democrazia» intesa però in senso nuovo, ossia come «democrazia [...] antifascista, popolare e progressiva»[186]

Nell’aprile del 1944, Togliatti propose, infatti, alle forze democratiche, la creazione di un fronte unito[187] al fine di abbattere il fascismo e di sostituirlo con un «regime democratico e progressivo»[188], che avrebbe dovuto realizzare una radicale modificazione dei rapporti di produzione e quindi dei rapporti di forza tra le classi mediante un intervento dello Stato nell’economia orientato a fini sociali e integrato dalla partecipazione degli organismi rappresentativi dei lavoratori in merito alle determinazioni concernenti gli investimenti produttivi e gli indirizzi politici, economici e sociali del Paese[189].

In un discorso pronunciato dopo la liberazione di Roma, Togliatti definì la nozione di «democrazia progressiva»[190] chiarendo come essa si dovesse prefiggere l'obiettivo di non dare «tregua al fascismo», di distruggere «i residui feudali», di risolvere «il problema agrario dando la terra a chi la lavora», di precludere «ai gruppi plutocratici ogni possibilità di tornare [...] a concentrare nelle loro mani [...] le risorse del paese», di impedire la distruzione delle «libertà popolari» e di creare «un governo del popolo e per il popolo» col quale «le forze sane del paese [...] potranno [...] avanzare verso il soddisfacimento di tutte le loro aspirazioni»[191].

La rilevanza della riflessione togliattiana consiste però soprattutto nel fatto che essa pose in stretta connessione la «lotta»[192] per la «democrazia progressiva» con l’obiettivo dell’«Assemblea Costituente» e quindi di «una nuova Costituzione»[193], la quale avrebbe dovuto recepire non un qualunque modello di «democrazia»[194], bensì un modello caratterizzato da «un particolare indirizzo dell’attività economica»[195] capace di trasformare la «struttura economica del paese»[196] e dunque di garantire la realizzazione dei «nuovi diritti di carattere sociale»[197] corrispondenti alle «rivendicazioni economiche sostanziali» avanzate dalle «classi lavoratrici» che, nel corso della lotta antifascista, avevano conquistato «un alto grado di coscienza politica e di organizzazione» [198].

Per garantire questi nuovi diritti lo Stato avrebbe dovuto «prendere nelle sue mani la grande industria monopolistica» per rendere effettivo «il controllo di tutto il sistema bancario»[199].

I «mezzi e gli strumenti» per guidare ed orientare questo processo di trasformazione economica e sociale furono individuati nell’esercizio da parte dello Stato di una funzione di «direzione» e di «coordinamento [...] dell’attività produttiva» da svolgersi nell’ambito di «un piano economico»[200] elaborato dal Parlamento con la «partecipazione democratica dei lavoratori»[201], nel «riconoscimento costituzionale di forme di proprietà dei mezzi di produzione diversa da quella privata», nella «nazionalizzazione» delle imprese di servizio pubblico o monopolistiche allo scopo di precludere ai «gruppi plutocratici» la possibilità di imporre la «loro egemonia» sulla vita nazionale, nella limitazione del «diritto di proprietà», per garantirne la funzione sociale e nell’istituzione di «consigli d’azienda [...] per l’esercizio di un controllo [...] dei lavoratori [...] sulla produzione»[202].

Lo strumento principale di questo processo fu individuato nel «partito nuovo», ovvero nel «partito di massa, aperto, radicato capillarmente» e chiamato a svolgere un ruolo di «intellettuale collettivo in grado di promuovere migliaia di lavoratori a funzioni dirigenti»[203].

Il «nesso democrazia-socialismo» costituì anche il fondamento della prospettiva della «via italiana al socialismo»[204], ovvero di una strategia fortemente «radicata nella realtà concreta del paese»[205].

Nell’intervento del gennaio 1947, tenuto alla Conferenza nazionale di organizzazione, Togliatti sostenne infatti che le «condizioni attuali della lotta di classe» imponevano alla classe lavoratrice e al partito, la necessità di trovare la «via italiana[...] per arrivare al socialismo» attraverso la conquista di sempre «più avanzate riforme democratiche»[206].

Le principali proposte avanzate da Togliatti furono d’altronde recepite nella Costituzione come contenuti di un «patto» destinato a guidare «un profondo rivolgimento sociale» da realizzare «nella legalità»[207].

Basti pensare, a tale proposito, agli articoli della Costituzione che attribuiscono al legislatore il potere di «determinare i programmi e i controlli opportuni» per indirizzare «l’attività economica [...] a fini sociali» (art. 41, co. 3), il potere di introdurre «limiti» alla «proprietà privata [...] allo scopo di assicurarne la funzione sociale» e il potere di «riservare originariamente o trasferire [...], allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti, [...] imprese [...] che si riferiscano a servizi pubblici essenziali [...] o a situazioni di monopolio» (art. 43 Cost.)[208].

La «linea della democrazia progressiva», da attuarsi mediante la politica delle «riforme di struttura»[209], continuò a costituire, anche nella fase della guerra fredda caratterizzata dal contrasto con le forze reazionarie, «l’asse centrale della via italiana al socialismo» che, a sua volta, ha come «cardine fondamentale» la Costituzione, la cui attuazione conduce «di per sé a una democrazia di tipo nuovo»[210].

Appare dunque evidente come la matrice culturale ordinovista abbia esercitato una profonda influenza sul nuovo corso del PCdI e sui suoi sviluppi, riuscendo a veicolare, - a partire dall’esperienza torinese dei Consigli di fabbrica e passando attraverso le tappe del Congresso di Lione, della svolta di Salerno e della Resistenza[211] - una concezione del potere dal basso che confluirà nella Costituzione, diventandone il sostrato ideale e organizzativo.

La Costituzione non ha infatti individuato gli organi centrali dello Stato come sedi di un assetto organizzativo impermeabile alle istanze provenienti dai territori, ma come strumenti istituzionali idonei a recepirle e a porle a fondamento degli indirizzi politici ed economici.

Essa ha predisposto cioè un quadro organico di poteri funzionali alla realizzazione di un programma di trasformazione dal basso (art. 3, co. 2, Cost.), rispetto al quale il Parlamento e il Governo si pongono come punti di passaggio di scelte sempre rinnovabili nell’ambito di «un processo circolare» che può essere raffigurato da «una doppia freccia a salire e a scendere» e non da «una sola freccia a scendere»[212].

  1. I Costituenti comunisti, la disciplina costituzionale dei rapporti economici e la concezione del potere sociale dal basso

Rileggendo gli atti della III Sottocommissione dell’Assemblea costituente incaricata di elaborare la parte della Costituzione relativa ai rapporti economico-sociali, si può comprendere come la «maggioranza dei costituenti» volle introdurre «un sistema di democrazia progressiva aperta che, attraverso contrasti di classe e lotte sociali», puntasse «a realizzare una forma di socialismo in cui i mezzi di produzione essenziali» fossero «di proprietà della collettività o da essa indirettamente amministrati» e «gli altri» fossero comunque «controllati» per mezzo di «una programmazione nazionale»[213].

I Costituenti ebbero cioè l’intenzione di creare «un sistema [...] nuovo ed originale» che si può denominare di «democrazia economica» e «sociale», in quanto mira a sottoporre appunto tutti i rapporti economici e sociali «al continuo controllo delle masse» da esercitarsi mediante una programmazione democratica volta ad indirizzare l’attività economica verso la realizzazione di «fini sociali» (art. 41, co. 3, Cost.)[214].

Alla «sistemazione [...] coerente» e sistematica del «nuovo assetto sociale democratico», i Costituenti giunsero attraverso una riflessione sull’«esperienza collettiva nazionale [...] vissuta durante il fascismo» che si avvalse della «ricca [...] documentazione raccolta [...] dal Ministero per la Costituente»[215].

Il «contributo più vivo e più importante alla chiarificazione delle idee» provenne però «dalla aspra ed aperta lotta sociale in corso[216] che aveva creato istituti nuovi di democrazia diretta», quali i Consigli di liberazione nazionale aziendale (CLNA) e i Consigli di gestione (CdG), organismi unitari di partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa e alla determinazione degli indirizzi produttivi[217].

Tale fattore fu determinante nella riflessione dei Costituenti comunisti provenienti per la maggior parte dall’esperienza ordinovista dei Consigli di fabbrica e dunque ancora sensibili alle istanze della democrazia di base, che riuscirono a inserire nelle norme dedicate ai Rapporti economici, le quali, di conseguenza, delinearono una nuova forma di potere organizzato dal basso che, partendo dai luoghi della produzione e dai territori, puntava a condizionare le scelte attinenti «all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»[218].

Nell’ambito dei lavori della Commissione dei 75, i relatori comunisti «si posero subito su un terreno molto realistico», indicando al popolo italiano l’obiettivo prioritario di conquistare «una costituzione [...] che fosse aperta ad ogni evoluzione democratica, ad ogni nuova conquista sociale e non chiudesse [...] in una camicia di forza le vivaci lotte di classe [...] che tendevano ad una radicale trasformazione della società italiana»[219].

Un approccio questo che muoveva da un’analisi concreta della «struttura sociale esistente» e che non li indusse a proporre «una costituzione di tipo socialista»[220], bensì «una costituzione aperta e socialmente avanzata», fondata su un complesso di «principi progressivi»[221] deputati a svolgere una funzione di ponte verso il socialismo[222].

Tra questi principi occorre richiamare quelli relativi alla «funzione sociale della proprietà», alla partecipazione dei lavoratori alla «direzione del processo produttivo» e al potere dello Stato «di avocare a sé sotto diverse forme - statizzazione, nazionalizzazione, controllo - quelle forme di proprietà o di impresa» la cui «dimensione» o la cui «posizione monopolistica» possano arrecare pregiudizio alla «società» o all’«economia del Paese»[223].

Dai documenti del PCI e da quelli dell’Assemblea costituente, emerge dunque come i Costituenti comunisti che parteciparono ai lavori della I e della III Sottocommissione, delinearono «un insieme organico» di norme che, «nella loro coerente connessione», prefigurarono un nuovo sistema economico fondato su «principi più avanzati» simili a quelli che furono recepiti nelle disposizioni del Titolo III della Costituzione (artt. 41, 42, 43, 43, 46, 47 Cost.)[224].

  1. Le norme della Costituzione sui rapporti economici e sociali fra inattuazione, parziale attuazione e boicottaggio

I Costituenti comunisti riuscirono dunque a inserire nella Costituzione un insieme di principi di democrazia politica, economica e sociale espressivi della loro visione critica del sistema capitalistico, che ponevano le premesse per una transizione al socialismo.

I principi del lavoro e della sovranità popolare furono infatti posti come pilastri del processo di trasformazione della società e dello Stato; alla Repubblica fu assegnato pertanto il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto, la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»[225].

Dopo l’enunciazione dei Principi fondamentali e il riconoscimento dei «diritti inviolabili dell’uomo» comprensivi dei diritti sociali[226], nel Titolo III della Parte prima della Costituzione, furono indicati il «metodo generale» e gli «gli strumenti concreti» per ottenere l’«effettiva realizzazione» di questi «nuovi diritti»[227].

Il metodo generale attraverso il quale realizzare l’intervento pubblico nell’economia[228] fu individuato nella «programmazione economica democratica» che deve puntare a costruire le condizioni necessarie per «dare piena attuazione» ai «diritti sostanziali» previsti dalla Costituzione[229].

Nella visione dei Costituenti l’elaborazione «di una piattaforma programmatica di sviluppo democratico» necessita tuttavia della partecipazione dei lavoratori, cui la Costituzione conferisce appositi strumenti per immettere nel circuito rappresentativo, le istanze di riforme strutturali fondamentali al fine di fornire una «soluzione [...] ai problemi che travagliano il paese» e per consentire la conquista di «nuove condizioni economiche, sociali e politiche»[230].

Per tale ragione, la Costituzione ha collocato il Parlamento in una «posizione centrale»[231], affidandogli non solo il compito di adottare leggi volte a garantire l’esercizio dei diritti civili e politici, ma anche quello di emanare un «nuovo tipo di leggi» finalizzate a «supportare i compiti di direzione sociale» dei «meccanismi produttivi»[232].

La prima esperienza di programmazione economica fu realizzata nella fase dei primi governi di centro-sinistra, a partire dall’adozione del Piano Giolitti che rafforzò il ruolo dello Stato nel governo dell’economia, prevedendo peraltro l’obbligo per le grandi imprese di comunicare agli organi della programmazione i piani di investimento ai fini di una verifica di conformità tra gli obiettivi in essi previsti e quelli stabiliti dalla programmazione[233].

Alle «imprese a partecipazione statale» fu invece assegnato «un ruolo centrale nel raggiungimento degli obiettivi» indicati dalla programmazione»[234].

Sulla base della spinta delle lotte dei lavoratori per l’attuazione della Costituzione, fu disposto «il distacco delle aziende statali dalla Confindustria» e istituito il Ministero delle partecipazioni statali[235], rendendo possibile in questo modo il «coordinamento e il controllo unitario - anche da parte del Parlamento - delle attività dello Stato nei settori produttivi, con la conseguente possibilità di agire in modo autonomo anche contro la volontà dei grandi gruppi privati»»[236].

Il PCI espresse un giudizio interlocutorio sul Piano Giolitti, ma criticò il piano Pieraccini, considerandolo subalterno agli interessi degli oligopoli privati, in quanto poneva l’accento non sul controllo degli investimenti, ma sulla «politica dei redditi»[237], ovvero su una politica incompatibile con la concezione della programmazione espressa dai comunisti. Essa infatti puntava a «comprimere [...] i redditi da lavoro» allo scopo di fermare le lotte dei lavoratori che, muovendo dalle rivendicazioni salariali, erano giunte a porre in discussione le stesse «leggi del profitto capitalistico»[238].

Togliatti fece rilevare infatti come la programmazione proposta dal PCI mirasse invece «con misure di controllo e [...] di intervento nella sfera delle decisioni economiche, non già a impedire l’azione con la quale le forze del lavoro si sforzano di contestare le leggi del profitto capitalistico, ma anzi a contestare e limitare essa stessa il dominio di queste leggi, a distruggere le posizioni di sopraprofitto, di speculazione e di rendita» e a trasferire «gradualmente alla collettività, il potere di decisione relativo ai più grossi problemi che angustiano la vita del paese»[239].

Negli anni Settanta, le organizzazioni rappresentative dei lavoratori, sulla base della spinta delle grandi lotte operaie e studentesche che rivendicavano l’attuazione della Costituzione, riuscirono non solo a conseguire rilevanti conquiste sul piano istituzionale, sociale, sindacale e dei diritti civili[240], ma anche a sperimentare, in alcuni settori (industriale; sanitario), una «programmazione democratica dell’economia» impostata sul collegamento tra i Consigli di fabbrica; i Consigli di zona, la rete delle assemblee elettive locali e il Parlamento, la quale riuscì a realizzare non solo obiettivi di welfare, ma anche ad instaurare forme di «controllo operaio» sugli «investimenti» produttivi[241].

Nel corso della seconda metà degli anni Settanta si determinò tuttavia un mutamento dei rapporti di forza, che provocò il progressivo abbandono dell’ipotesi di una programmazione democratica dell’economia globale e vincolante, a favore di una programmazione indicativa e in seguito settoriale e per obiettivi per approdare infine ad una programmazione finanziaria[242] diretta a subordinare la garanzia dei diritti sociali ai vincoli di un bilancio preordinato al fine di tutelare gli interessi delle grandi imprese[243].

Il PCI contestò la programmazione verticistica posta in essere dai governi di centro-sinistra[244], rivendicando appunto una «programmazione democratica dal basso», capace di incidere sugli «assetti centrali del potere»[245]. Un’impostazione che riproponeva in sostanza la concezione ordinovista di un potere sociale che muove dal territorio per trasformare la società e lo Stato.

In quella fase storica, i gruppi oligopolistici si vollero insomma liberare da quei «lacci e lacciuoli»[246] che ostacolavano la realizzazione dei profitti e si attrezzarono per edificare una «nuova costituzione» fondata sui principi della governabilità e della stabilità economica[247].

  1. Le cause del declino e dello scioglimento del «partito nuovo»

Una larga parte del gruppo dirigente del PCI non restò però insensibile al canto delle sirene della globalizzazione ed iniziò ad operare per un mutamento degli orientamenti di politica economica del partito che abbandonò progressivamente la strategia della programmazione democratica e delle riforme di struttura per accogliere, nella propria cultura politica, «concetti propri dell’armamentario teorico monetarista e neoliberale»[248], quali il mercato, la moneta, il pil, le liberalizzazioni e le privatizzazioni.

Cominciò insomma a prevalere nella cultura politica del PCI, la posizione della componente riformista-migliorista ispirata a una «concezione “sacrificale” dell’austerità» basata sul «deflazionismo salariale» e sul «contenimento della conflittualità»[249].

Nel 1978 venne approvata infatti con il consenso del PCI e dei sindacati, la legge finanziaria[250] che pose le premesse per l’avvio del processo di recepimento degli obiettivi dell’europeizzazione neoliberista e quindi del processo di omologazione dell’ordinamento democratico-sociale all’ordinamento liberista dell’UE.

Nel corso di tale processo che - muovendo dall’istituzione dello SME (1979) e dall’adozione dell’AUE (1986) è giunto sino all’approvazione del Trattato di Maastricht[251] (1992) e in seguito del Fiscal compact (2012)[252] - la programmazione democratica fu sostituita - con il concorso attivo del PCI poi divenuto PDS, DS e infine PD - da una programmazione finanziaria orientata a subordinare la spesa sociale alle esigenze di efficienza proprie dell’«economicità privata»[253].

Una prospettiva opposta quindi a quella indicata da Togliatti nel Memoriale di Yalta in cui, dopo aver posto in evidenza come si stesse affermando «una programmazione [...] capitalistica [...] internazionale [...] dall’alto nell’interesse dei grandi monopoli» alla cui preparazione stavano lavorando «organi dirigenti del Mercato Comune», sostenne che «il movimento operaio e democratico» avrebbe dovuto opporle «un piano generale di sviluppo economico» capace di coordinare «le rivendicazioni immediate operaie» con le «proposte di riforma della struttura economica»[254].

Tra i fattori che spinsero «il maggior partito comunista dell’Occidente» ad aderire all’orizzonte del «social-liberismo» che si era imposto, sin dalla prima metà degli anni Ottanta, come «nuova cornice ideologica delle socialdemocrazie europee»[255], occorre richiamare la possente offensiva ideologica scatenata dagli oligopoli privati che si avvalsero di istituzioni di ricerca da loro finanziate (Mont Pelerin Society, Institute for Economic Affaire, Heritage Foundation) per diffondere nel mondo, specie in quello accademico, le teorie liberiste della scuola Austriaca (Hayek, Mises) e quelle monetariste della Scuola di Chicago (Friedman), le quali criticavano il concetto stesso di intervento pubblico nell’economia, evidenziando la necessità di rafforzare il potere delle istituzioni monetarie, di effettuare tagli ai salari e alla spesa pubblica e di conseguire la stabilità del bilancio al fine di eliminare l’inflazione, nella convinzione, priva di qualsiasi sostegno «teorico e politico, che sia sufficiente ridare spazio al profitto, a scapito del salario, per avere più investimenti e quindi più occupazione»[256].

A partire dalla seconda metà degli anni 70, quando i conflitti sociali avevano ormai assunto un netta caratterizzazione anticapitalistica, si manifestò infatti, nei vari ambiti delle scienze sociali, un «revisionismo a finalizzazione diversificata», che si espresse in quattro versioni: il «revisionismo storico», progettato per agire sulla memoria collettiva; il revisionismo etico-culturale, elaborato per influire sul profondo delle coscienze; il «revisionismo politico», predisposto per diffondere il pensiero unico e il «revisionismo istituzionale» che mirava a delegittimare le fondamenta stesse dello Stato democratico-sociale[257] al fine di omologarlo al sistema dell’Unione Europea, i cui Trattati contengono principi contrastanti con i Principi fondamentali della Costituzione italiana[258].

Le linee di questa controffensiva culturale e politica conservatrice furono tracciate da due documenti che hanno indicato la strada per l’edificazione di un sistema istituzionale imperniato su una «governabilità» funzionale alle esigenze di «stabilità economica» delle grandi imprese interessate a inserirsi senza ostacoli nelle dinamiche della competizione globale.

Il primo tra questi documenti è il Rapporto elaborato per la Commissione trilaterale da tre esperti internazionali, i quali rilevarono l’esistenza negli Stati democratici moderni di un «sovraccarico» di domande sociali «sul governo», che, nel tentativo di soddisfare la richiesta proveniente da tali domande, si trova costretto ad aumentare in modo disequilibrato i «suoi interventi», generando così una sempre maggiore crescita dell’«inflazione», considerata come «il male economico delle democrazie». Il Rapporto evidenziò dunque la necessità di ridurre le domande sociali al fine di garantire la «stabilità» economica e la «governabilità» del sistema[259].

Il secondo documento è il Piano di rinascita democratica della Loggia massonica P2 che ispirandosi ai contenuti del Rapporto della Commissione trilaterale ribadì il primato del principio della governabilità e lo tradusse in una serie di proposte che prevedevano il passaggio al presidenzialismo, la riduzione dei poteri del Parlamento, la revisione della legislazione sociale, l’abolizione del diritto di sciopero e l’abolizione delle Province[260].

Sulla base di queste premesse, il Segretario del PSI, Craxi, lanciò la parola d’ordine della grande riforma istituzionale, la quale riuscì a penetrare anche nelle file del PCI, coinvolgendone non solo l’area riformista, ma anche settori più radicali che si dichiararono disponibili a sostenere proposte di riforma costituzionale finalizzate a conferire al governo una forza istituzionale pari a quella del Parlamento, la cui «centralità» era stata invece rivendicata e difesa nel corso delle lotte degli anni Settanta per l’attuazione della Costituzione[261].

Nel 1989, sull’onda della «sconfitta epocale del socialismo reale», i potentati economico-finanziari, mossero la loro offensiva anche contro la «rappresentanza politica organizzata» delle classi lavoratrici con l’ obiettivo in specie di «eliminare dalla scena politica i partiti di classe [...] e di sostituirli con partiti non tanto interclassisti, quanto ridotti a mere consorterie» prive di «ogni riferimento a classi sociali e questioni sociali, sul modello dei partiti statunitensi (democratico e repubblicano)»[262].

In Italia questo disegno venne paradossalmente realizzato con il contributo del Segretario del PCI Achille Occhetto e della maggioranza del gruppo dirigente che, con la svolta della Bolognina (novembre 1989) e con i Congressi di Bologna (marzo1990) e di Rimini (febbraio 1991), sancirono lo scioglimento del PCI e la creazione di un nuovo partito denominato PDS (poi DS e PD). Questo nuovo soggetto politico si pose al di fuori della «stessa tradizione socialista e socialdemocratica» poiché respinse «ogni riferimento al socialismo» e tese «a presentarsi come un partito dei cittadini» che aveva «come unico e ultimo orizzonte la società capitalistica» della quale si proponeva di essere uno dei gestori[263].

Lo scenario in cui il nuovo partito intendeva muoversi implicava dunque «una radicale modificazione dell’assetto costituzionale con il passaggio al sistema maggioritario e al bipolarismo»[264]. Nel 1993 fu introdotto infatti, con il sostegno del PDS, il sistema elettorale maggioritario che inferse un grave vulnus al pluralismo politico e sociale [265].

A partire da quel momento le forze politiche di centrodestra e di centrosinistra accomunate dal «mito della governabilità»[266], perseguirono l’obiettivo di creare un sistema politico fondato su una sorta di «bipolarismo maggioritario» o meglio su una specie di «monopartitismo competitivo» predisposto per garantire la stabilita dei mercati[267].

Il bipolarismo è stato lo strumento usato dalle classi dominanti per comprimere e ridurre la rappresentanza politica delle classi lavoratrici, costrette così a convivere nell’ambito di «coalizioni dirette da frazioni della classe borghese», le quali si alternano al governo del sistema capitalistico considerato immodificabile e insuperabile[268].

Le contrapposizioni tra i diversi poli non si sviluppano infatti a partire da visioni alternative della società, ma riguardano piuttosto le modalità di gestione del potere politico-amministrativo, pur nella condivisione degli indirizzi liberisti stabiliti dalle istituzioni tecnocratiche dell’Unione Europea le quali prevedono univocamente la realizzazione di politiche di privatizzazione, di precarizzazione del lavoro e di smantellamento degli strumenti di intervento pubblico a fini sociali[269].

La torsione maggioritaria impressa nell’ultimo trentennio alla forma di governo pluralista[270] ha ridotto la dimensione della politica ad una competizione elettorale tra «due partiti o meglio tra due personalità», i cui «programmi» coincidono con gli interessi di «quell’1% che controlla la ricchezza e la vita politica del paese»[271].

Di questi interessi il PD si pone oggi come gestore in competizione con le altre formazioni politiche che condividono la convinzione dell’«insuperabilità dell’orizzonte capitalistico» e i dogmi della globalizzazione neo-liberista[272].

I lavoratori sono quindi stati abbandonati al loro destino e di conseguenza sottoposti ad indirizzi politici ed economici decisi da oligarchie politiche semi rappresentative, disposte solo a concedere forme di assistenzialismo condizionate dai vincoli di un bilancio gestito con criteri privatistici simili a quelli delle imprese.

Lo scioglimento del PCI ha inferto un duro colpo alle sorti della democrazia a causa dello stretto «intreccio» esistente tra la storia del Partito comunista e la storia della nostra Repubblica[273] che è fondata su una «Costituzione democratica e progressista così avanzata che non ha l’eguale in nessun altro paese capitalista» perché è stata congegnata in modo tale da «aprire la via a reali trasformazioni socialiste»[274].

Il merito del PCI fu appunto quello di «trasformare il programma sociale della Costituzione in un’azione politica di massa», che seppe porre le premesse per la «risoluzione dei problemi concreti della vita nazionale nel senso del progresso economico e sociale»[275].

La decisione di sciogliere il PCI costituì una cesura radicale non solo con la storia e la cultura del marxismo, ma anche con l’intero suo percorso che, muovendo dalla fase delle lotte dei Consigli di fabbrica, passò attraverso le fasi dei Fronti popolari e della Resistenza, per giungere a quella delle grandi lotte del dopoguerra e degli anni Sessanta e Settanta del Novecento, per la difesa e l’attuazione della Costituzione[276].

Prendendo in prestito le parole del Costituente comunista Mauro Scoccimarro: «Il Partito comunista ha vissuto la sua storia [...] in uno spirito di alta tensione morale e ideale, con uno sforzo costante di unità di pensiero e di azione, sempre teso a comprendere la realtà per trasformarla, e nel divenire della sua continua trasformazione creare le condizioni di una più alta giustizia eguaglianza e libertà, di una più alta e umana civiltà»[277].

  1. Ripartire dalle matrici culturali dell'Ordine Nuovo per uscire dal caos della crisi della globalizzazione

Le classi lavoratrici si trovano oggi immerse in una profonda crisi politica, economica, sociale che pone a rischio la stessa «coesione sociale»[278] e che potrebbe aprire la strada a nuovi esiti di tipo autoritario.

Le classi dominanti tendono infatti a governare tale «crisi organica»[279] ricorrendo ad un sistema di «bonapartismo soft» fondato sui poteri del «Presidente del Consiglio», il quale negli stati d’eccezione può trasformarsi «in un dittatore [...] nel senso romano del termine»[280], ovvero in un «dictator adversus plebem», deputato a garantire il «potere [...] dei ceti oligarchici [...] contro le pretese della plebe»[281].

La tendenza a concentrare il potere nelle mani del Presidente del Consiglio e del governo non si radicò in Italia per lungo tempo, perché le forze democratiche e in specie il PCI, furono consapevoli della rilevanza non solo politica, ma anche sociale del sistema «proporzionale», considerando gli attacchi contro di esso come espressivi di un disegno «conservatore» diretto a porre «le classi popolari in una condizione di subalternità politica» ed a «garantire ai grandi gruppi monopolistici» anche «il controllo [...] degli organismi rappresentativi»[282].

Il sistema proporzionale consentì infatti la formazione di partiti di massa, capaci di contenere il peso politico degli oligopoli privati, il quale si dispiega oggi in modo diretto e plateale[283].

A partire dall’introduzione del sistema maggioritario, si è consolidato infatti anche nel nostro Paese, quel «regime di monopartitismo competitivo» che ha come prevalente parametro di riferimento, gli interessi delle grandi imprese industriali e finanziarie[284].

Lo Stato è divenuto pertanto «un deferente servitore del capitale finanziario»[285] e le politiche di rigore attuate per fronteggiare la crisi del 2008[286], hanno provocato una forte crescita delle diseguaglianze, le quali sono aumentate con l’avvento dell’epidemia di Covid-19 che ha acuito «le fratture e le divisioni esistenti nella società», mentre «la ricchezza» si è ulteriormente concentrata[287].

Si può comprendere pertanto come in assenza di «una forza politica organizzata» capace di contrapporsi «al dominio [...] della borghesia monopolistica» e alla «controrivoluzione neoliberista»[288], si affermino non solo movimenti populisti[289] e sovranisti[290], ma anche, come avvenne negli anni Venti del Novecento, movimenti fascisti[291] che, strumentalizzando il «lacerante rancore» provocato dalla «macelleria sociale» in corso[292], puntano a smantellare le conquiste della democrazia[293].

Basti pensare, a tale proposito, al recente assalto alla sede della CGIL guidato da gruppi neo-fascisti che mirano a rendere più profonda la divisione tra i lavoratori iscritti ai sindacati confederali e i lavoratori non iscritti che, in larga parte, rifiutano le misure di profilassi e l’obbligo di esibire il green pass, considerato come un ricatto, poiché determina la perdita provvisoria del salario e in prospettiva il licenziamento.

L’obiettivo perseguito dai neo-fascisti è quello di indirizzare in senso reazionario le componenti sociali più colpite dalla crisi economico-pandemica, alimentando il loro risentimento nei confronti dei sindacati accusati di aver avallato la gestione autoritaria dell’emergenza sanitaria.

Pur non avendo replicato esattamente l'assalto fascista che nel 1919 portò all'incendio della sede dell’Avanti!, gli attuali movimenti neo-fascisti hanno tuttavia utilizzato l’argomento della «dittatura sanitaria», irrazionale quanto quello della «vittoria mutilata», per porre in discussione le fondamenta stesse della democrazia[294].

Il problema del fascismo di oggi, così come di ieri, non è però risolvibile in termini di ordine pubblico o stipulando un presunto patto antifascista con forze politiche e sociali di ispirazione neo-liberista. Occorre piuttosto ricostruire l’unità dei lavoratori nell'ambito delle lotte che perseguono l'obiettivo di rimuovere le cause del malessere sociale e di superare l’attuale sistema di produzione, generatore di diseguaglianze e di devastazioni ambientali.

Lo scioglimento del PCI, ovvero del «più grande partito di integrazione di massa d’occidente»[295], avrebbe dovuto facilitare - secondo quanto affermato dal segretario del partito Achille Occhetto e dal nuovo gruppo dirigente - «il rinnovamento democratico e sociale dell’Italia», ma tale evento ha finito, tuttavia, col porre le premesse per l’avvio di «una controrivoluzione» che ha avuto certamente origini internazionali, ma i cui effetti sono stati avvertiti «in modo particolarmente doloroso in Italia», ossia in un Paese che «grazie alla Resistenza e alla presenza di un forte Partito comunista, aveva conseguito conquiste democratiche e sociali assai rilevanti»[296].

La svolta della Bolognina[297] ha provocato in effetti l’insorgere di «un’onda lunga» che ha finito col travolgere l’ordinamento costituzionale e quindi le conquiste dei lavoratori[298] che si trovano oggi avviluppati nelle spire di una «crisi sistemica»[299] destinata a durare per un tempo indefinito, perché il sistema capitalistico per garantire la continuità dei profitti, riesce ad imporre politiche di rigore che amplificano e perpetuano le sue endemiche contraddizioni[300].

Nella fase attuale esistono dunque le condizioni oggettive e quindi le ragioni per avviare un processo di costruzione di un nuovo partito comunista di massa radicato nei luoghi di lavoro e nei territori e dotato degli strumenti teorici necessari per orientare le classi popolari verso una via di uscita dalla crisi del liberismo nella direzione di una società più giusta e solidale[301].

Una prospettiva che appare tuttavia lunga e laboriosa poiché presuppone un considerevole sforzo di ricostruzione dell’unità delle forze comuniste attualmente «frantumate in diverse organizzazioni e talvolta in piccoli circoli»[302].

Dalla riflessione sulla preziosa esperienza del PCI e sulla sua vasta elaborazione possono trarsi tuttavia indicazioni ancora valide «per superare l’attuale crisi globale acutizzata dalla pandemia» e per riprendere un «cammino democratico-progressivo»[303] verso una società non più fondata sullo «sfruttamento» del «lavoro» e della «natura»[304].

La necessità di «frenare lo strapotere delle corporations [...] e di trasformare il modello di sviluppo rimane [...] anche oggi una priorità [...] largamente avvertita»[305], come dimostrano le lotte degli operai per ottenere le misure di sicurezza necessarie per garantire la propria salute e quella di tutti i cittadini[306], le lotte dei lavoratori tessili e dei lavoratori della logistica a difesa del posto di lavoro e contro lo sfruttamento, le lotte dei ciclo-fattorini per il riconoscimento dei diritti e delle garanzie connesse alla loro prestazione, le lotte dei metalmeccanici per il rinnovo del contratto di lavoro, le lotte nei territori per la difesa dell’ambiente e quelle dei centri sociali occupati per rivendicare i diritti e le prestazioni sociali necessari per garantire pari dignità sociale agli immigrati e a tutti coloro che versano in condizioni di precarietà ed emarginazione[307].

Il neoliberismo non costituisce del resto per l’umanità un destino fatale[308], risulta infatti agevole dimostrare come sia possibile «uscire dalla crisi» e «assicurare il progresso [...] attraverso una «politica di programmazione antimonopolista»[309] finalizzata a superare le insostenibili diseguaglianze provocate dalle politiche ordoliberali[310].

Le residue forze politiche d’ispirazione socialista e comunista e i movimenti che tornano a rivendicare la necessità di «riequilibrare» il «rapporto» ormai alterato tra controllo politico e sociale e potenza dell’economia e della tecnica posta al suo servizio[311], dovrebbero tornare a riflettere pertanto sugli istituti e sui poteri di governo democratico dell’economia previsti dalla Costituzione per verificare l’attualità o la necessità di una loro rimodulazione che li renda adeguati ad affrontare le problematiche poste da un’economia mondializzata, ma non per questo meno bisognosa di essere governata - a livello nazionale, sovranazionale e internazionale[312] - secondo finalità di giustizia sociale.

Le gravi contraddizioni provocate dalla “terza rivoluzione industriale” dovrebbero spingere inoltre i costituzionalisti democratici[313] ad aprire un dibattito sul diritto dell’economia simile a quello che si sviluppò nel corso della “seconda rivoluzione industriale”, dal quale scaturì il primato del concetto di diritto pubblico-costituzionale dell’economia[314].

Lo sforzo dovrebbe essere quello di approfondire la questione del rapporto tra costituzionalismo e trasformazioni dell’economia, della scienza e della tecnica per individuare, su tali basi, i soggetti, i poteri, le istituzioni e i procedimenti capaci di orientare tali trasformazioni - che spesso si traducono in “restaurazioni” - verso l’attuazione delle finalità di giustizia sociale e ambientale prescritte dalle Costituzioni europee del secondo dopoguerra e dalla Carta dell’ONU.

Si tratterebbe, insomma, di delineare un nuovo tipo di programmazione che partendo dai luoghi di produzione e dai territori, riesca a penetrare nel circuito delle istituzioni nazionali, europee e mondiali, per incidere sul processo di formazione degli indirizzi politici ed economici e restituire alla storia una direzione progressiva.

In quest'ottica sarebbe indispensabile, naturalmente, restituire allo Stato le leve monetarie, fiscali e di bilancio necessarie per realizzare interventi di programmazione e, al tempo stesso, individuare nuovi strumenti di partecipazione democratica e di controllo sociale sull’elaborazione, la gestione e l’esecuzione degli indirizzi in essi contenuti.

Se è vero che la crisi economico-pandemica ha rivelato «le diseguaglianze del neoliberismo e i cataclismi ambientali del capitalismo estrattivo» che stanno spingendo l’Italia, l’Europa e il mondo verso una «nuova barbarie»[315], occorre allora riconoscere che «il sistema di accumulazione capitalistico dominato dai gruppi monopolistici [...] si è inceppato» e si è rivelato non solo inidoneo a risolvere i problemi sociali delle popolazioni, ma anzi li ha aggravati, sicché «per realizzare un “ordine nuovo” al posto del caos», occorre rilanciare «la lotta per una politica di programmazione democratica», capace di dare una soluzione ai problemi posti dalla persistente crisi economica»[316].

Tutti i piani e gli strumenti fino ad ora adottati per fronteggiare l’emergenza sanitaria e per sostenere la ripresa economica, contengono, invece, misure che si collocano nella direzione dell’«economia sociale di mercato, se pur ammantata di green e sostenibilità, e non nel senso del progetto di emancipazione sociale della Costituzione»[317].

La richiesta di una nuova programmazione democratica dell’economia non costituisce dunque «il frutto di una astratta preferenza dottrinaria»[318], ma deriva dalla consapevolezza che senza questa forma di potere pubblico-sociale che consente di conseguire una visione globale delle contraddizioni scaturite dai rapporti di produzione, non sia possibile esercitare una funzione unificante[319] che garantisca «la preminenza dell’interesse pubblico sugli interessi privati» e, quindi, che fornisca una risposta alle domande della società e possa condurre l’Italia e l’Europa «fuori dalla crisi»[320].

Nella fase storica presente, la «programmazione democratica» ritorna a porsi come un’«esigenza oggettiva» e dunque pressante «della società» e potrebbe quindi ritornare ad essere «il terreno di scontro in cui [...] svolgere la lotta sociale oggi»[321]. Tale programmazione non dovrebbe nascere da «astratte elaborazioni» svolte nelle sedi delle istituzioni tecnocratiche dell’UE, al contrario dovrebbe contrapporsi proprio «al tipo di programmazione proposto dalla classe dirigente»[322] nazionale ed europea e trovare affermazione invece «nel movimento reale»[323], mirando principalmente ad esercitare «un controllo democratico dei monopoli» che può assumere «molteplici espressioni, in fabbrica e fuori dalla fabbrica, attraverso l’azione coordinata delle commissioni interne, dei sindacati» e delle istituzioni rappresentative (Comuni, Province, Regioni e Parlamento) ed anche attraverso la «pressione» esercitata dai movimenti e dai comitati operanti nei territori[324].

Dalla riflessione teorica dei Costituenti comunisti ispirata alla visione ordinovista del potere sociale dal basso, ovvero alla concezione della democrazia di base, le forze politiche e sociali che lottano per un «altro mondo possibile»[325], possono trarre un’indicazione fondamentale, un’essenziale linea-guida, per riprendere un «cammino democratico e progressivo» finalizzato a porre «un argine» al «regresso civile, sociale e politico» provocato dai «processi avviati dalle oligarchie dominanti» ed a realizzare integralmente il programma di emancipazione sociale prescritto dall’art. 3, co. 2, della Costituzione[326].

La «libertà del capitale» e la sua «tendenza a centralizzarsi» in poche mani, invece, rappresentano «una minaccia per le altre libertà e per le istituzioni liberaldemocratiche del nostro tempo», sicché «l’unica rivoluzione in grado di scongiurare una catastrofe dei diritti, risiede nel recupero e nel rilancio della più forte leva nella storia delle lotte politiche: la pianificazione collettiva» che, nell’epoca attuale, dovrebbe essere considerata non solo come fattore di sviluppo della collettività, ma anche «della libera individualità sociale e di un nuovo tipo umano liberato»[327].

La «sfida epocale lanciata dal coronavirus», [...] che investe non solo l’economia ma anche i costumi e la cultura e soprattutto [...] la libertà e la democrazia», dovrebbe essere affrontata «alla luce di questa visione innovativa» della pianificazione[328].

Tutti «i movimenti di lotta e di emancipazione del nostro tempo» dovrebbero «riunirsi intorno a questo concetto straordinariamente fecondo» e quindi tutte le loro «iniziative» dovrebbero essere «riconcepite nella cornice logica del piano»[329], secondo la stessa prospettiva indicata dagli articoli 41, 42 e 43 della Costituzione[330].

In questa fase di crisi della globalizzazione ritornano quanto mai attuali le indicazioni e le esortazioni di Enrico Berlinguer volte ad evidenziare la necessità di lottare per una «effettiva programmazione economica» governata da «un saldo e autorevole potere democratico», al fine di «sottrarre alle concentrazioni monopolistiche [...] il potere di determinare [...] gli indirizzi dello sviluppo». Una programmazione che deve essere integrata dal protagonismo della «democrazia di base», ovvero dalla rete dei Consigli di fabbrica e dei Consigli di zona e dai movimenti generati dalle nuove contraddizioni provocate dall’attuale modo di produzione capitalistico imperniato sul primato della finanza[331].

Si tratta, insomma, di ripartire dalle matrici culturali dell’Ordine Nuovo per trovare una via d’uscita dal caos provocato dalla crisi della globalizzazione e per riprendere il cammino verso una società liberata dallo sfruttamento e dall’alienazione.

 

* Questo lavoro, già pubblicato nel fascicolo n. 1/2022 della rivista online Ordines, è dedicato alla memoria di Salvatore d’Albergo e di Gianni Ferrara.

[1] Il I Congresso della III Internazionale Comunista tenuto a Mosca nel marzo del 1919 su impulso del Partito bolscevico russo, considerò delegittimata la II Internazionale a causa della subalternità dimostrata dai gruppi dirigenti dei partiti socialdemocratici ad essa aderenti nei confronti dei governi e delle borghesie nazionali che avevano provocato l’insorgere del primo conflitto mondiale. Per superare tali limiti furono stabiliti come prioritari obiettivi: 1) il sostegno al governo bolscevico nella resistenza all’assedio organizzato dalle potenze straniere (Francia, Stati Uniti, Inghilterra) a supporto della reazione interna; 2) la formazione di partiti comunisti per estendere la rivoluzione proletaria nel mondo; 3) l’appoggio ai movimenti anticoloniali. P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. Da Bordiga a Gramsci, I, Einaudi, Torino, 1967, pp. 4, 20, pone in evidenza come la II Internazionale socialista creata nel 1889 entrò in crisi nell’agosto del 1914, perché non riuscì a organizzare un fronte di lotta idoneo a scongiurare la guerra, contravvenendo così agli impegni assunti nei Congressi di Stoccarda (1907) e Basilea (1912). V. I. Lenin, Conquistato e registrato, (Pravda, 6 marzo 1919), in Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1965, p. 1215, affermò che: «La fondazione della III Internazionale comunista» costituiva «il preludio della repubblica Internazionale dei soviet, della vittoria internazionale del comunismo».

[2] P. Spriano, Storia, cit., p. 70, sottolinea come il II Congresso della III Internazionale avviato a Pietrogrado il 19 luglio del 1920, tenutosi poi a Mosca dal 23 luglio al 7 agosto, ebbe un’«importanza storica maggiore» rispetto al precedente e fu considerato pertanto non solo come «il primo vero congresso del Komintern», ma anche come «una sorta di Manifesto generale del comunismo» perché recepì le ventuno condizioni formulate da Lenin, che obbligavano le «sezioni aderenti» a formare «partiti comunisti» conformi al «modello» dell’«esperienza rivoluzionaria russa» e quindi fondati su un’«organizzazione ferrea e centralizzata» e su un’«azione portata tra le masse». Le «delegazioni straniere» che parteciparono al Congresso non erano rappresentative di «nessun partito comunista di massa», bensì di partiti non ancora comunisti o di partiti comunisti «ristretti».

[3] Le ventuno condizioni per l’adesione all’Internazionale comunista furono pubblicate sull’Avanti! (ed. romana del 23/9/1920, Le condizioni di Mosca. Quello che deve essere un Partito Comunista aderente alla Terza Internazionale) con la premessa di una nota redazionale che affermava: «Ora che la lotta dei lavoratori metallurgici è finita, mentre dura la tregua d’armi destinata a mutarsi fra breve in più aspra battaglia, ci facciamo un dovere di pubblicare le condizioni di affigliazione alla Terza Internazionale votate dal Congresso di Mosca».

[4] La «sesta condizione» obbligava i partiti che aspiravano a far parte della III Internazionale a demistificare le ambiguità del «socialpatriottismo» e del «socialpacifismo» e a promuovere una presa di coscienza da parte degli operai rispetto alla necessità di realizzare una rivoluzione contro il capitalismo perché senza di essa nessun tribunale internazionale, nessun accordo sulla limitazione degli armamenti e nessun rinnovamento democratico della Società delle Nazioni avrebbero potuto impedire l’esplosione di «nuove guerre imperialistiche».

[5] La «diciassettesima condizione» vincolava i medesimi partiti ad adottare il nome di «partito comunista [...], sezione della III Internazionale» al fine di rendere evidente ai lavoratori la distanza dai tradizionali partiti socialisti e socialdemocratici, i quali avevano «tradito la bandiera della classe operaia». P. Spriano, Storia, cit., p. 6, osserva come fu «la guerra» a conferire al «termine comunista» la sua nuova accezione. Gli stessi bolscevichi iniziarono a denominarsi «comunisti» a partire dal periodo tra la rivoluzione di febbraio e quella di ottobre per distinguersi dalla «matrice socialista generale» e tale indirizzo fu recepito dal VII Congresso straordinario del partito tenutosi a Pietrogrado nel marzo del 1918. La proposta di dismettere il nome di Partito operaio socialdemocratico e di assumere quello di Partito comunista era stata avanzata da Lenin sulla base di una valutazione della situazione del socialismo su scala mondiale, che pareva diversa da quella di fine Ottocento quando «Marx ed Engels» si erano dovuti «scientemente» rassegnare all’uso del termine «socialdemocrazia», pur ritenuto equivoco e ipocrita. Il «capitalismo», spinto dalle sue esigenze oggettive, si era trasformato infatti in «imperialismo» generando una «guerra imperialista», che aveva «condotto l’umanità [...] sull’orlo del baratro». La rivoluzione del proletariato si presentava quindi come la sola «via d’uscita», sicché «era tempo di gettare via la camicia sudicia e [...] di mettersi della biancheria pulita» (cfr. V. I. Lenin, Progetto di piattaforma del partito del proletariato, in Opere scelte, vol. II, Mosca, 1948, p. 36).

[6] La diciannovesima condizione prescriveva ai partiti appartenenti all’Internazionale comunista e a quelli che aspiravano ad aderirvi, l’obbligo di «convocare» entro quattro mesi dalla conclusione del II Congresso dell’Internazionale comunista, un Congresso straordinario», che doveva pronunciarsi in merito a tutte le «condizioni». La ventunesima condizione disponeva conseguentemente l’espulsione di «quei membri del partito che respingano le tesi dell’Internazionale Comunista».

[7] Cfr. G. Galli, Storia del Pci. Il Partito comunista italiano: Livorno 1921, Rimini 1991, La scuola di Pitagora, Napoli, 2021, p. 30.

[8] Cfr. P. Spriano, Storia, cit., pp. 4, 5, 20.

[9] La «settima condizione» imponeva ai partiti che intendevano aderire all’Internazionale comunista, l’obbligo di attuare una rottura radicale con i riformisti e con i centristi, condizione necessaria alla realizzazione di una «coerente politica comunista». L’Internazionale non avrebbe tollerato pertanto «che opportunisti notori, quali Turati, Kautsky, Hilferding, Hillquit, Longuet, Macdonald, Modigliani, ecc.» potessero arrogarsi «il diritto di passare per membri della Terza Internazionale», poiché in tal modo essa sarebbe divenuta simile «alla defunta Seconda Internazionale».

[10] Cfr. P. Spriano, Storia, cit., p. 20 e Ibidem, «L’Ordine Nuovo» e i Consigli di fabbrica, Einaudi, Torino, 1971, p. 114, ove si pone in evidenza come il II Congresso della «nuova organizzazione operaia internazionale» stabilì come principale obiettivo la «lotta contro le deformazioni opportuniste e pacifiste piccolo borghesi del concetto di internazionalismo e della politica internazionalista», secondo gli indirizzi elaborati da Lenin.

[11] P. Spriano, Storia, cit., p. 21, nota come l’«ottimismo» bolscevico sulla possibilità di rivoluzioni in Europa parve trovare conferma nelle vicende della rivoluzione ungherese (Repubblica socialista dei Consigli, 1919) e dell’insurrezione tedesca (Lega Spartachista, 1919), le quali, nonostante il loro tragico epilogo, furono considerate «da Mosca» come prime tappe di un «cammino del proletariato» europeo, simili a quelle già percorse dal proletariato russo. Sulla «crisi economica generale» del dopoguerra, che provocò una «radicalizzazione» della «protesta sociale» in Europa e che sembrò convalidare le tesi di Lenin sulla «rivoluzione mondiale in atto» e sulla «necessità di formare partiti comunisti» idonei a guidarla, cfr. S. Gentili, Il Partito comunista Italiano. Storia di rivoluzionari / 1921-1945, bordeaux, Roma, 2021, p. 44, il quale osserva che l’Internazionale comunista, pur dinanzi al tragico fallimento dei tentativi rivoluzionari ungheresi e tedeschi, continuò a considerarli come «prova della persistente condizione rivoluzionaria» anziché come «sintomi di un cambio di fase politica». Sul primo ciclo rivoluzionario postbellico, che comprese anche le vicende della «Deputazione del Popolo finlandese» (1917-1918); della «Repubblica bavarese dei Consigli» (1919); dell’«insurrezione austriaca» (1919); del «biennio rosso» italiano (1919-1920) e dell’«insurrezione tedesca (1921), cfr. P. Aquilino, J. Pankovits, Ungheria 1919. Gli insegnamenti di una sconfitta nel 100° anniversario della Repubblica dei Consigli, PANTAREI, Milano, 2019, pp. 141 ss.

[12] Cfr. P. Spriano, Storia, cit., p. 20, rileva come dal 1917, i bolscevichi fissarono «sul piano internazionale» delle «analogie» che muovevano «dalla propria esperienza vittoriosa» la quale, partita da un’aspra «lotta [...] contro i menscevichi li aveva condotti alla conquista del potere».

[13] Cfr. V. I. Lenin, Tesi e rapporto sulla democrazia borghese e sulla dittatura del proletariato, ambedue presentati il 4 marzo 1919 (richiamati da P. Spriano, Storia, cit., p. 21, nt. 1).

[14] P. Spriano, Storia, cit., p. 21, richiama, a tale proposito, sia la dichiarazione di Trockij del dicembre del 1917: «Se i popoli d’Europa non si sollevano schiacciando l’imperialismo noi saremo schiacciati [...], o la rivoluzione russa susciterà il turbine della lotta in Occidente oppure i capitalisti di tutti i paesi soffocheranno la nostra lotta»; sia quella di Bucharin al VII Congresso del Partito bolscevico: «Noi [...] diciamo che [...] tutto dipende dal fatto che la rivoluzione internazionale vinca o non vinca. In definitiva, la rivoluzione internazionale, e soltanto essa, è la nostra salvezza».

[15] Cfr. Ibidem.

[16] Cfr. Ibidem, p. 5., ove si pone in evidenza come la scelta di tale formula comprovasse il «volontario isolamento» dei socialisti italiani, il loro «porsi da parte in attesa della fine della guerra». A. Ruggeri, 100° anniversario della fondazione del Partito Comunista d’Italia, in www.iskrae.eu, 10/2/20021, p. 9, sostiene che la parola d’ordine adottata dal PSI, «non possedeva un significato di capitolazione e di tradimento», ma era, comunque, una formula priva di prospettive, che condannava i lavoratori all’impotenza e, quindi, ad una posizione subalterna.

[17] Sulla diversa interpretazione che la destra e la sinistra del PSI diedero della parola d’ordine: «non aderire, né sabotare», cfr. P. Spriano, «L’Ordine Nuovo», cit., p. 15, il quale sostiene come tale formula esprimesse le incertezze e le contraddizioni del PSI nei riguardi del primo conflitto mondiale.

[18] P. Spriano, Storia, cit., pp. 7, 9, 10, osserva che nel 1917 emersero nell’ambito del PSI posizioni intransigenti inconciliabili con la linea della «maggioranza affermatasi [...] tra il 1912 e il 1915», le quali consideravano la «disfatta al fronte» come necessaria premessa per la sconfitta della «borghesia» e rivendicavano pertanto modalità di lotta radicali contro la guerra. Lazzari, il segretario del partito e rappresentante della corrente centrista, riteneva invece che i socialisti non potessero restare indifferenti alle ragioni della «patria» e il rappresentante della corrente di destra Turati sostenne nel discorso alla Camera del 20 maggio 1915, che i socialisti avrebbero dovuto assumere una condotta solidale nei confronti della «nazione in guerra». L. Cortesi, Le origini del PCI. Studi e interventi sulla storia del comunismo in Italia, Franco Angeli, Milano,1999, pp. 109, 110, 111, descrive la posizione di Turati che si era originariamente pronunciato contro i crediti militari, dopo la dichiarazione di guerra e aveva proposto al governo un «piano di “dignitosa collaborazione” per il successo italiano», garantendo che i «riformisti» si sarebbero impegnati per delineare un nuovo orientamento finalizzato a «“disasprire” la classe operaia e il PSI». Questa prospettiva «collaborazionista» fu recepita dalla Direzione del PSI (17 e 18 giugno 1915), la quale «invitò i socialisti a formare [...] nei Comuni dove erano maggioranza, Comitati di assistenza [...], senza rinunciare [...] alle “ragioni del Partito”». La forte presenza dei riformisti nelle giunte locali consentì in effetti la realizzazione di tale «opera di collaborazione» che si svolse «in piena autonomia rispetto al controllo degli intransigenti», i quali restarono ancora imbrigliati in una «illusoria unità» del partito che iniziò a incrinarsi «tra la fine del 1919 e gli ultimi mesi del ‘20», sino a giungere alla sua definitiva rottura, sancita formalmente nel Congresso di Livorno del gennaio del 1921.

[19] G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. VIII, Feltrinelli, Milano, 1987, pp. 163, 168, 172, 173, osserva come, nel 1917, l’aumento delle limitazioni alle libertà, determinato dall’inasprimento del «regime di guerra», unitamente alla crescita delle diseguaglianze tra gli imprenditori che profittavano delle «forniture militari» e i lavoratori costretti ad accollarsi i costi del conflitto bellico, provocarono l’insorgenza di moti popolari, culminati nella «sommossa di Torino» (agosto 1917) che, iniziata come «protesta» per la «mancanza di pane», si trasformò in una lotta «politica» per la pace e la giustizia sociale. Essa si concluse col tragico bilancio di «una cinquantina di morti tra i rivoltosi, una decina tra la forza pubblica e circa duecento feriti», cui diede un rilevante apporto la «voluta estraneità» dei dirigenti socialisti ai movimenti spontanei. Per una ricostruzione delle fasi della sommossa torinese dell’agosto 1917, cfr. P. Spriano, Storia di Torino operaia e socialista. Da De Amicis a Gramsci, Einaudi, Torino, 1972, pp. 416, 417, 420, 422, 427, 431, in cui si definisce il carattere della rivolta come «spontaneo» e al tempo stesso «politico», infatti le lotte continuarono anche dopo la riapertura dei panifici al grido di: «Ce ne infischiamo del pane! Vogliamo la pace! Abbasso i pescicani! Abbasso la guerra!». Tali rivendicazioni non furono recepite tuttavia dalla maggioranza dei dirigenti del partito, i quali non partecipando alle lotte e non avendo pertanto contezza della situazione, non seppero impartire alcuna direttiva. I tumulti si spensero così senza ricevere alcun supporto dal PSI, i cui deputati concertarono, viceversa, con gli esponenti delle forze armate, un «manifesto» che invitava «i lavoratori [...] a riprendere il lavoro». Sui «fattori strutturali ed ideali» che, nel 1917, indussero le «masse popolari» a dismettere comportamenti di «rifiuto [...] passivo» e ad adottare forme di lotta radicali cfr. P. Spriano, Storia, cit., pp. 7, 8, il quale rileva come l’aumento della «produzione bellica» determinò una crescita del «proletariato urbano» che, «sottoposto» a «dure condizioni di lavoro», divenne sensibile alla «propaganda sovversiva». Sull’influenza della rivoluzione sovietica nelle lotte di Milano e Torino, il cui «carattere politico» si espresse nella formula: «fare come in Russia», cfr. L. Cortesi, Le origini, cit., pp. 117 ss. Sulle questioni relative a «salari, orari e regolamenti» che suscitarono la «combattività degli operai» e sulla presenza nella sezione socialista torinese di correnti anarchiche e anarcosindacaliste, cfr. G. Candeloro, Storia dell’Italia, cit., p. 171 e P. Spriano, Storia, cit., p. 9, il quale ritiene che «l’aspetto più interessante di questa trama semiclandestina di organizzazione prerivoluzionaria» sia da individuarsi nella partecipazione ad essa di «gruppi giovanili» composti da socialisti e da anarchici.

[20] S. Gentili, Il Partito, cit., pp. 29, 30, 31, 33, pone in evidenza come la fondazione del PSI - avvenuta nel 1892 a Genova - costituì l’esito di un processo aggregativo tra diversi soggetti (sindacati, associazioni di mutuo soccorso, cooperative), che trasse impulso dal bisogno avvertito dal «popolo lavoratore» di dotarsi di uno strumento idoneo ad esprimere la «propria autonomia culturale» e la «propria rappresentanza politica», ritenute necessarie per fronteggiare le contraddizioni provocate dallo «sviluppo capitalistico» di fine secolo. Il Partito che ebbe come «riferimento ideologico», seppur generico, il Manifesto di Marx e Engels del 1848, indicò ai lavoratori la possibilità di edificare una «nuova società», fondata sull’abolizione dello «sfruttamento», imperniato sulla «simbiosi» tra le forme economiche «capitalistiche» e quelle «feudali» e supportato dal regime «politico elitario [...] e repressivo» costruito dalle «classi dirigenti risorgimentali [...] nell’Italia monarchico-liberale».

[21] Sulle comuni e sulle differenti caratteristiche delle concezioni delle «due anime» del PSI, cfr. S. Gentili, Il Partito, cit., pp. 36, 37.

[22] P. Spriano, Storia, cit., pp. 4, 5, il quale osserva come le «due anime» del socialismo italiano condivisero «una sincera passione umanitaria e antimilitarista», che le indusse a non mescolarsi con le «formazioni governative» e a promuovere la «propaganda» e l’«agitazione contro la guerra», distinguendosi così «dalla confusione e dal crak della II Internazionale», dissoltasi allo scoppio della Prima guerra mondiale, quando i maggiori partiti che la componevano - come il partito socialista francese e quello socialdemocratico tedesco - votarono i crediti di guerra e seguirono pertanto le rispettive borghesie nazionali in un conflitto senza precedenti, con l’eccezione, appunto, del PSI e del PSDR (bolscevico). A. Ruggeri, 100° anniversario della fondazione, cit., pp. 7, 8, sottolinea come il PSI, nel primo quindicennio del Novecento, riuscì comunque a guidare la classe operaia verso rilevanti conquiste sindacali e a propagare l’idea del socialismo, anche se scontò i limiti della scarsa omogeneità sociale della base del partito e di un’assimilazione superficiale e confusa del marxismo. Tali fattori lo indussero ad oscillare tra il riformismo e il massimalismo, nonché tra una sorta di integralismo e una scarsa autonomia rispetto alla politica borghese. In particolare il PSI non seppe contrapporre all’«egemonia della borghesia» un «disegno di alleanze», ovvero «un blocco storico alternativo», restando così subalterno «al quadro della politica giolittiana», come comprovato dalla vicenda relativa all’occupazione delle fabbriche del settembre 1920.

[23] S. Gentili, Il Partito, cit., p. 36, indica tra le «battaglie concrete» quella per la riduzione dell’orario di lavoro a otto ore e a parità di salario.

[24] Cfr. Ibidem.

[25] P. Spriano, Storia di Torino, cit., p. 423, riporta, a tale proposito, una testimonianza di Montagnana relativa alla sommossa di Torino dell’agosto del 1917, secondo la quale: «nessuno, né i riformisti né i rivoluzionari [...] sapeva che fare, quali parole d’ordine comunicare alla massa, la quale voleva la fine della guerra e la rivoluzione, ma non aveva la minima idea sui mezzi da adoperare per raggiungere questi obiettivi, così grandiosi e così alti» (cfr. M. Montagnana, Ricordi di un operaio torinese, I, Rinascita, Roma, 1949, p. 72). Sul punto cfr. anche, G. Liguori, Da Bordiga a Gramsci, in Critica marxista, n. 1/2, 2021, p. 11.

[26] Cfr. P. Spriano, Storia, cit., p. 27, il quale osserva come, nel 1919, tale «attesa» fu comune a «tutte le correnti» del PSI e venne infatti «formulata in termini più o meno apocalittici o evoluzionistici» dai «riformisti» (Treves), dai «massimalisti» (Serrati), e dagli «astensionisti» (Bordiga).

[27] A. Gramsci, nell’articolo, La conquista dello Stato, pubblicato su L’Ordine Nuovo del 12 luglio 1919 (cfr. 2000 pagine di Gramsci, vol. I, Nel tempo della lotta (1914-1926), a cura di G. Ferrata e N. Gallo, il Saggiatore, Milano, 1971, pp. 396 ss.), criticò la concezione deterministica dominante tra i dirigenti del partito e del sindacato, poiché li indusse ad accettare «supinamente [...] la realtà storica prodotto dell’iniziativa capitalistica» e ad adottare la «pratica [...] del compromesso» e una «tattica cretinamente parlamentarista». Egli concepì, invece, «la storia» come «insieme di libertà e di necessità» e sostenne pertanto che i «comunisti marxisti» avrebbero dovuto «impadronirsi del maggior numero possibile di termini concreti necessari» per avviare un processo di costruzione di «un nuovo tipo di Stato» di «transizione» verso il «comunismo dei mezzi di produzione e di scambio».

[28] Cfr. S. Gentili, Il Partito, cit., p. 36 e G. Liguori, Da Bordiga a Gramsci, cit., p. 11.

[29] Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1977 vol. I, pp. 330, 331. Gramsci esorta i «gruppi responsabili» delle organizzazioni operaie a non disprezzare i «movimenti spontanei», bensì a impegnarsi in un’azione che - coniugando «spontaneità» e «direzione consapevole» - miri a trasformarli in «un fattore politico positivo», sottraendoli così alle strategie golpiste poste in essere dai «gruppi reazionari» nelle fasi di «crisi economica».

[30] Cfr. S. Gentili, Il Partito, cit., p. 37, il quale ritiene che ambedue le anime del PSI furono «attesiste». La componente «riformista» aspettava un’«evoluzione indistinta» e quella «massimalista» attendeva un’«occasione rivoluzionaria», sicché l’intero partito restava in uno stato di aspettazione passiva di eventi palingenetici che non giungevano o che non si consideravano ancora maturi e ai quali nessuno lavorava seriamente.

[31] Sull’«attendismo» come «principale e storico limite della cultura politica del socialismo italiano», cfr. Ibidem, p. 52, ove si osserva che, seppur con diverse motivazioni, i massimalisti ed i riformisti, chiusero il PSI nel settarismo e nella subalternità, si autocelebrarono, non furono in grado di creare solidi legami con i lavoratori e si estraniarono dalla «concreta vicenda [...] nazionale», reputando tutti gli altri soggetti politici come «borghesi e nemici». La rivoluzione, pur considerata inevitabile, non fu concepita come un «processo già in atto da guidare» con l’«iniziativa sociale e politica», ma divenne mero «oggetto di propaganda».

[32] V. I. Lenin nel «Discorso sul parlamentarismo», tenuto il 2 agosto del 1920 al II Congresso dell’I.C. (cfr. La situazione rivoluzionaria in Italia, in Ibidem, Sul movimento operaio italiano, a cura di P. Spriano, Editori Riuniti, Roma, 1980, p. 157, nt. 2), rese chiaro come nel dopoguerra, in tutti i paesi, «la lotta [...] tra gli elementi rivoluzionari proletari e gli elementi opportunisti piccolo-borghesi» si fosse inasprita, perché quest’ultima «tendenza» - rappresentata da membri «dell’“aristocrazia operaia”, della vecchia burocrazia sindacale e cooperativa» e degli «strati intellettuali piccolo-borghesi» - aveva, «con le sue esitazioni», assicurato «l’influenza della borghesia sul proletariato dall’interno del movimento operaio e dall’interno dei partiti socialisti». Egli sostenne, pertanto, che se non si fosse giunti ad una scissione non sarebbe stato possibile «raggruppare saldamente il proletariato internazionale». Lenin richiamò, inoltre, come esempio delle conseguenze nefaste derivanti dal mito dell’«unità» socialista, la vicenda italiana del movimento di occupazione delle fabbriche (settembre 1920), abbandonato dai dirigenti del PSI (Turati, Prampolini) e della CGL (D’Aragona) nel momento in cui assunse un «carattere politico», perché essi «si rifiutarono di portarlo a uno sbocco rivoluzionario».

[33] P. Spriano, Storia, cit., p. 27, evidenzia come la corrente riformista e quella massimalista furono accomunate da un atteggiamento «rivoluzionaristico», caratterizzato da «dichiarazioni incendiarie». Fu specialmente la corrente massimalista a restare imbrigliata in un «formulario ideologico» e in un «gusto bizantino per le discussioni di principio», che trascuravano la questione delle «prospettive» concrete.

[34] Il «riformismo» come «ideologia» era presente in tutte le componenti del PSI e posava le sue radici nella tradizione gradualista, che considerava il progressivo inserimento delle forze rappresentative dei lavoratori nel circuito delle «istituzioni borghesi» come la premessa essenziale per una loro evoluzione in senso progressivo, se pur in un quadro di conservazione delle «strutture economiche e giuridiche» dominanti. A questo proposito si veda L. Cortesi, Le origini, cit., p. 14.

[35] Cfr. S. Gentili, Il Partito, cit., p. 9, il quale nota come la creazione della «sinistra di Zimmerwald» - di cui Lenin fu uno dei maggiori promotori - e la fondazione di partiti comunisti nei paesi europei, costituirono la «reazione» alle scelte dei partiti socialisti e socialdemocratici, che, nel 1914-1915, «tradendo la marxiana parola d’ordine Proletari di tutti i paesi unitevi!, avevano votato [...] i crediti di guerra, schierandosi con le rispettive borghesie nazionali [...] e mandando i lavoratori di tutti i paesi a uccidersi sui campi di battaglia».

[36] Cfr. P. Spriano, Storia, cit., p. 5.; L. Cortesi, Le origini, cit., pp. 113, 114, osserva come nelle Conferenze di Zimmerwald e di Kienthal prese avvio il processo di dissoluzione della vecchia Internazionale e contestualmente dell’«equivoca unità» del PSI. Nel corso degli incontri, gli esponenti della sua minoranza radicale stabilirono infatti «legami» con Lenin e Trockij e con le «minoranze internazionaliste europee». Si determinò così uno spostamento «a sinistra» in senso «filobolscevico» delle posizioni del partito. Ambedue le Conferenze, pur concludendosi con «risoluzioni di compromesso», contribuirono tuttavia ad aprire una nuova prospettiva ispirata alle tesi leniniste, le quali sostenevano la necessità di fondare una III     Internazionale e di trasformare la guerra imperialista in lotta rivoluzionaria di classe.

[37] Cfr. G. Candeloro, Storia dell’Italia, cit., p. 167.

[38] Cfr. P. Spriano, Storia, cit., p. 5.

[39] Sulla crisi economica e sociale che investì «tutti i paesi belligeranti», ma anche sui «fenomeni di riscossa delle masse contro i governi che avevano voluto la guerra», cfr. G. Candeloro, Storia dell’Italia, cit., pp. 163 ss.

[40] Cfr. P. Spriano, Storia, cit., pp. 5, 6, il quale richiama, a tale proposito, un brano di A. Kriegel (cfr. Id., Aux origines du communisme francais, vol. I, Paris, 1964, p. 155) in cui si pone in evidenza come, nel corso del 1917, si manifestò in tutti i Paesi partecipanti al conflitto mondiale una «crisi d’ideale» che coinvolse gli individui e le «comunità». Il concetto di crisi d'ideale individua per Kriegel sia la situazione in cui si viene a trovare l’«uomo» quando - dopo aver trascorso «una vita più o meno felice», scevra da interrogativi sui «misteri della propria vita» - incorra in «qualche disgrazia» che, precipitandolo in una condizione di profonda «infelicità», lo costringa a porsi «la questione del proprio destino»; sia quella in cui si vengono a trovare i «popoli» quando, colpiti da «calamità», si trovino dinanzi alla necessità di compiere scelte «umane irreversibili». Nella fase del primo dopoguerra, contrassegnata da una profonda «stanchezza» per le sofferenze causate dal conflitto, la rivoluzione russa testimoniava che «il disgusto popolare» poteva «trasformarsi in energia rivoluzionaria, in odio feroce contro il regime del massacro, contro il capitalismo».

[41] S. Gentili, Il Partito, cit., pp. 24, 25, osserva come alcuni dirigenti socialisti (tra cui Gramsci, Bordiga e Serrati) «sostenitori della rivoluzione russa» e in particolar modo della «proposta di Lenin sulla trasformazione della guerra imperialista in guerra civile», costituirono a Firenze, nel novembre del 1917, la «frazione intransigente rivoluzionaria», che recepì «come programma la socializzazione dei mezzi di produzione, l’abbattimento violento del regime borghese» e l’espulsione dal partito dei riformisti considerati come «un intollerabile freno allo sviluppo della rivoluzione».

[42] P. Spriano, «L’Ordine Nuovo», cit., p. 130, rileva che la «frazione comunista» fu costituita «ufficialmente al Convegno di Imola (28-29 novembre 1920) mediante «la fusione di vari gruppi» tra cui risultò preminente quello bordighiano. Tale prevalenza politica e organizzativa del gruppo del Soviet, impresse, però, «alla scissione» un «carattere di rottura “a sinistra” così marcatamente estremista da frustrare le speranze del gruppo torinese di trascinare su una piattaforma nuova la maggioranza delle forze rivoluzionarie». L. Cortesi, Le origini, cit., p. 239, osserva che nel corso del convegno fu approvata una mozione da presentare al futuro Congresso nazionale, che sollecitava il partito a rispettare le ventuno condizioni stabilite da Lenin per l’adesione alla III Internazionale, tra cui, in specie, la modifica del nome e l’espulsione dei riformisti. P. Spriano, «L’Ordine Nuovo», cit., p. 131, nt. 1, rileva come «alla vigilia del convegno di Imola», il gruppo ordinovista presentò un «programma» che costituiva «l’approdo dell’esperienza politica della sezione torinese», nel quale si riconobbe «il valore rivoluzionario dei Consigli di fabbrica» e si assunse l’impegno di «favorirne ovunque la costituzione e il rafforzamento». Il documento conteneva, inoltre, l’indicazione di costituire «gruppi comunisti nelle fabbriche e nei sindacati», nonché «circoli educativi» destinati a divenire «sede naturale dei gruppi comunisti, dei commissariati zonali e dei consigli d’officina». La prospettiva della costruzione di un partito imperniato sui Consigli di fabbrica e di zona e, quindi, «espresso direttamente dall’organizzazione rivoluzionaria delle masse», fu però temporaneamente abbandonata, perché divenne prioritaria in quella fase la comune «lotta contro i riformisti e i “centristi”»; venne, tuttavia, riproposta successivamente e riuscì ad incidere in modo rilevante sulla futura evoluzione del PCdI.

[43] Nel XVII Congresso nazionale straordinario del PSI, tenuto a Livorno nel gennaio del 1921, la mozione della frazione comunista fu sconfitta, sicché i suoi sostenitori decisero di abbandonare il Teatro Goldoni e di recarsi al Teatro San Marco per votare un ordine del giorno che dichiarava la fondazione del Partito comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale comunista.

[44] S. Gentili, Il Partito, cit., p. 52, evidenzia come il punto di partenza della costruzione del PCdI, fu «la durissima critica ai socialisti colpevoli di essersi fatti sfuggire l’occasione rivoluzionaria del dopoguerra, di aver illuso le masse parlando di rivoluzione e poi non averla né preparata, né fatta».

[45] Cfr. P. Spriano, Storia, cit., p. 52.

[46] Cfr. P. Spriano, «L’Ordine Nuovo», cit., p. 121.

[47] Cfr. P. Spriano, Storia, cit., p. 52 e Ibidem, «L’Ordine Nuovo», cit. pp. 105, 121, che sostiene come il gruppo ordinovista pose al centro [...] della lotta nazionale in corso» il «tema del controllo operaio sulla produzione», considerandolo «programma concreto e fine della rivoluzione italiana». Gramsci e Togliatti posero, tuttavia, l’accento sulla necessità di salvaguardare le «caratteristiche autonomistiche» di tale controllo, per evitare che potesse divenire «strumento di «collaborazione di classe [...] e di manovra nelle mani del governo e dei riformisti».

[48] Cfr. P. Spriano, Storia, cit., p. 55, in cui si specifica che il «Comitato di studi dei Consigli di fabbrica» pubblicò sul «bollettino degli scioperanti torinesi» del 20 aprile del 1920, un manifesto elaborato probabilmente da Palmiro Togliatti, intitolato: «Lavoratori avanti!», col quale si incitava «la classe operaia e contadina ad impegnarsi nella lotta per affermare «la sua potenza di contro alla classe proprietaria» e al «potere di Stato borghese».

[49] Cfr. P. Spriano, «L’Ordine Nuovo», cit., p. 99.

[50] Cfr. P. Spriano, Storia, cit., pp. 53, 79 e p. 77, nella quale in particolare richiama, a proposito delle alleanze con gli anarchici una frase di Zinov’ev, che esprimeva la medesima impostazione di Gramsci su tale questione: «Malatesta, in tempo di rivoluzione, è meglio di D’Aragona. Fanno delle sciocchezze. Eppure sono elementi rivoluzionari. Noi abbiamo combattuto insieme con i sindacalisti e gli anarchici contro Kerenskij e i menscevichi. Abbiamo mobilitato migliaia di lavoratori in questo modo. In tempo di rivoluzione occorrono rivoluzionari. Bisogna avvicinarsi ad essi e formare con loro un blocco in tempo di rivoluzione».

[51] Cfr. P. Spriano, Storia, cit., p. 56.

[52] Cfr. P. Spriano, «L’Ordine Nuovo», cit., pp. 98, 100. Lo sciopero generale di Torino durato dieci giorni, cui aderirono «più di duecentomila lavoratori torinesi», si esaurì il 24 aprile con un «concordato» stipulato tra la CGL e le organizzazioni industriali. L'accordo, pur non abolendo formalmente il sistema dei commissari di reparto e anzi riconoscendo il ruolo delle commissioni interne, ne riduceva, tuttavia, fortemente i poteri, sminuendo pertanto «le libertà operaie all’interno delle officine».

[53] P. Spriano, Storia, cit., p. 56, osserva come il «concordato promosso» dal segretario della CGL D’Aragona, sancì la «vittoria degli industriali», infatti, delimitando il potere dei Consigli di fabbrica «all’interno delle officine», rendeva impossibile l’esercizio della «funzione di controllo». A. Gramsci, Superstizione e realtà, in L’Ordine Nuovo, 8 maggio 1920 (reperibile in Scritti politici, a cura di P. Spriano, II, Editori Riuniti, Roma, 1973, pp. 110, 111), pone in evidenza come gli industriali torinesi sostenessero che «in officina non possono coesistere due poteri» e che pertanto i Consigli di fabbrica dovessero essere debellati.

[54] P. Spriano, «L’Ordine Nuovo», cit., pp. 101, 102, sostiene che Gramsci elaborò all’inizio dello sciopero d’aprile, un ordine del giorno, poi approvato dalla sezione socialista torinese in forma di «mozione» (cfr. Per un rinnovamento socialista, in L’ Ordine Nuovo, 8 maggio 1920), nel quale si prefiguravano due possibili prospettive: quella della «presa del potere, immediata, da parte della classe operaia o quella a breve scadenza di una reazione borghese aperta e violenta». La «mozione» costituiva «un documento di pressante contenuto politico», nel quale si criticavano gli «organismi centrali del partito» per il loro «atteggiamento [...] contraddittorio così sostanzialmente infedele, pur nel suo massimalismo, agli orientamenti e alla strategia della III Internazionale, da aver consentito ai riformisti di bloccare la spinta rivoluzionaria delle masse». Sulla base di tali premesse essa rivendicava «l’eliminazione dal partito dei “non comunisti rivoluzionari”», la trasformazione del PSI da «mero partito parlamentare [...] che si mantiene immobile entro i limiti angusti della democrazia borghese» in «partito del proletariato rivoluzionario» che assume «come compito preminente [...], il coordinamento e la concentrazione delle forze operaie e contadine» e l’elaborazione di un «programma rivoluzionario» nel quale si prospettino «le soluzioni reali a tutti i problemi assillanti la popolazione lavoratrice italiana». La mozione fu sottoposta, alla fine di luglio, all’attenzione del II Congresso dell’Internazionale, riscuotendo il consenso di Lenin, il quale la considerò «pienamente rispondente ai principi fondamentali della III Internazionale, sia nelle critiche rivolte al PSI, sia nelle proposte pratiche presentate». V. I. Lenin, La sezione di Torino del PSI e l’«Ordine Nuovo», (tratto dalle Tesi fondamentali del II Congresso dell’I.C.), in Ibidem, Sul movimento operaio italiano, cit., p. 150, scrive: «Per quanto riguarda il Partito socialista italiano, il II Congresso della III Internazionale ritiene sostanzialmente giuste la critica del partito e le proposte pratiche, pubblicate come proposte al Consiglio nazionale del Partito socialista italiano, a nome della sezione torinese del partito stesso, nella rivista L’Ordine Nuovo dell’8 maggio 1920, le quali corrispondono pienamente a tutti i principi fondamentali della III Internazionale. Il II Congresso della III Internazionale invita perciò il Partito socialista italiano a convocare un Congresso straordinario del partito per esaminare tali proposte, come pure tutte le decisioni dei due congressi dell’Internazionale comunista, al fine di rettificare la linea del partito e al fine di epurare il partito stesso [...] dagli elementi non comunisti». Lo stesso P. Spriano, in Storia, cit., p. 73, ha osservato tuttavia come «l’appoggio inatteso giunto da Lenin» fu contrastato da Serrati e Graziadei, i quali sostennero che la valorizzazione della «sezione torinese ribelle» avrebbe comportato la legittimazione del suo «atteggiamento contrario alla disciplina»; la medesima posizione fu assunta da Bombacci, il quale ritenne «pericoloso valorizzare le tendenze sindacaleggianti dell’Ordine Nuovo» e da Bordiga, che muovendo da una diversa impostazione critica, rammentò come gli ordinovisti fossero stati, «fino a poco tempo prima, fautori dell’unità del partito e confusi [...] nella maggioranza massimalistica unitaria».

[55] Cfr. P. Spriano, «L’Ordine Nuovo», cit., p. 98 e Ibidem, L’occupazione delle fabbriche. Settembre 1920, Einaudi, Torino, 1964, pp. 26, 27, 28, il quale evidenzia che gli organi nazionali della CGL e della Fiom accusarono «gli uomini dell’Ordine Nuovo» di «anarco-sindacalismo». Nel corso dello sciopero dell’aprile del 1920 gli ordinovisti, infatti, posero la «questione di principio del riconoscimento dei Consigli di fabbrica [...] come nuovi istituti rivoluzionari, come organi di potere», ovvero la «questione del potere nella fabbrica», problematica questa invisa ai «capi sindacali» propensi invece a orientare le lotte operaie «verso obiettivi [...] rivendicativi, salariali e normativi». Il «movimento torinese» fu lasciato, quindi, «nel più completo isolamento» e subì pertanto «una pesante sconfitta», che scavò «un fossato profondo» tra gli ordinovisti e la CGL determinando un rapporto contrassegnato da «reciproci rancori e sospetti che si misurerà appieno nel momento cruciale dell’occupazione» delle fabbriche, quando la «questione del controllo operaio [...] sepolta ufficialmente sotto le macerie della sconfitta di Torino, ritornerà all’ordine del giorno», divenendo «uno dei temi dominanti dell’agitazione di settembre».

[56] A. Gramsci, Superstizione e realtà, cit., individuò tra le cause della sconfitta dello «sciopero d’aprile», la «superstizione e la cortezza di mente» dei dirigenti del PSI e della CGL, i quali - secondo quanto affermato da un altro esponente del gruppo ordinovista (cfr. A. Leonetti, Avremo la rivoluzione?, in L’Ordine Nuovo, 21 agosto 1920) - avevano soffocato le potenzialità rivoluzionarie del movimento attraverso l’«impotenza demagogica del massimalismo» o la «piattitudine del riformismo».

[57] Cfr. P. Spriano, Storia, cit., p. 52.

[58] Cfr. P. Spriano, «L’Ordine Nuovo», cit., pp. 112,113, il quale specifica che la decisione degli imprenditori di imporre la serrata fu adottata nel mese di agosto, quando il sindacato pose in essere «forme di ostruzionismo nelle fabbriche».

[59] P. Spriano, Storia, cit., p. 50, osserva come tra «l’autunno del 1919 e la primavera del 1920», il «movimento dei Consigli», stimolato dal gruppo dell’Ordine Nuovo, crebbe impetuosamente conquistando le «organizzazioni sindacali locali», ma suscitando anche le critiche delle altre componenti del partito a causa del suo carattere libertario. I riformisti considerarono infatti i Consigli una «nuova forma di anarco-sindacalismo» e i massimalisti (Serrati) li reputarono un’«aberrazione» perché al loro interno gli operai iscritti al partito e quelli non iscritti possedevano pari poteri e diritti. Gli astensionisti (Bordiga) imputarono invece al movimento la sottovalutazione del problema della «conquista del potere politico» e individuarono nel perdurare del «regime capitalistico» un evidente pericolo che avrebbe potuto pervertire i Consigli in organi corporativi di «arrampicamento riformista». Gli ordinovisti replicarono rimarcando la prospettiva politica comunista del movimento consiliare, ma ribadendo per tutti i lavoratori, e quindi anche per quelli anarchici, il diritto di partecipare ai nuovi organismi di fabbrica al fine di collaborare allo «sforzo rivoluzionario comune».

[60] Cfr. P. Spriano, «L’Ordine Nuovo», cit., pp. 119, 112, il quale pone in evidenza come nel decennio giolittiano l’intensificazione delle lotte aggravò «la crisi dello Stato liberale», fino a farle «assumere i caratteri di aperta guerra civile».

[61] Cfr. Ibidem, p. 113, vi si richiama un passo di Angelo Tasca (cfr. A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, Nuova Italia, Firenze, 1950, p. 117) in cui si osserva come le formule deterministiche del crollo inesorabile e imminente del sistema capitalistico agissero come «stupefacenti», rimpiazzando «il contatto con la realtà con una sorta di mania monodelirante e inoffensiva» sulla quale la «borghesia» si sforzava di «gettare, alla prima occasione, la camicia di forza». Tasca evidenzia come in questo modo si andò creando «una psicologia parassitaria» simile a «quella dell’erede al capezzale di un morente - la borghesia - del quale non vale nemmeno la pena di scorciare l’agonia» e si trasformò pertanto «la vita politica italiana [...] in un banchetto permanente in cui il capitale della rivoluzione prossima» si dissipava «in orge di parole».

[62] Cfr. Ibidem, p. 120. P. Togliatti, Antonio Gramsci, un capo della classe operaia (in occasione del processo di Roma), in Ibidem, Opere, 1926-1929, II, a cura di E. Ragionieri, Editori Riuniti, Roma, 1979, pp. 262, 263. Togliatti definì il Consiglio di fabbrica come «la forma concreta e vivente, nella quale il proletariato della più grande città industriale d’Italia, il proletariato più omogeneo come classe e politicamente più progredito», pose e risolse «il problema della propria organizzazione come Stato».

[63] Cfr. P. Spriano, «L’Ordine Nuovo», cit., pp. 119, 122, 123, 124, il quale rileva come «gli uomini dell’Ordine Nuovo», sul cui stato d’animo pesavano «le lacerazioni, le diffidenze e i rancori» provocati dal tragico fallimento dello sciopero d’aprile, fossero consapevoli che il governo Giolitti perseguiva il disegno di sfiancare le lotte operaie e che la Fiom - dopo aver scatenato un movimento di cui non aveva previsto l’ampiezza - fosse ora «decisa» a contenerlo e poi a spegnerlo alla «prima occasione favorevole di compromesso». Essi erano altresì consapevoli del fatto che nessun membro della «direzione del PSI» aveva il proposito di «trasformare l’agitazione in un movimento politico per la presa del potere».

[64] Cfr. Ibidem, pp. 123, 124, che osserva come «il decreto giolittiano sul controllo operaio (restato poi lettera morta)» offrì ai membri della direzione del PSI e della CGL «la via di una ritirata onorevole».

[65] P. Spriano, L’occupazione, cit, pp. 7, 8, sostiene che la dinamica delle occupazioni impose al movimento una scelta tra una lotta per la conquista del potere e una vertenza meramente sindacale, i cui risultati tuttavia non possono considerarsi stabilmente acquisiti a meno che la situazione generale non venga orientata in una direzione favorevole ai lavoratori. L’occupazione delle fabbriche, a prescindere dal suo esito, rappresentò comunque per i lavoratori «un’esperienza fondamentale», che rivelò «quali energie» possa suscitare una lotta che non si limiti a una dimensione corporativa, ma sappia invece «investire la società intera, l’assetto dello Stato e la funzione di direzione nella produzione».

[66] Cfr. P. Spriano, «L’Ordine Nuovo», cit., p. 124. L. Cortesi, Le origini, cit., p. 227, evidenzia che l’enorme mobilitazione proletaria dell’estate del 1920 si spense nel quadro di un accordo stipulato tra il governo e la CGL, che pur legittimando la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle industrie, stabiliva tuttavia che essa dovesse svolgersi nell’ambito della consolidata organizzazione produttiva, improntata a una razionale disciplina, da esprimersi soprattutto attraverso i sindacati, di cui gli organismi di fabbrica dovevano essere emanazione.

[67] Cfr. P. Spriano, «L’Ordine Nuovo», cit., pp. 112, 127, 128, il quale ritiene che in quella fase storica, i «gruppi comunisti» interni al PSI condivisero con la III Internazionale la «convinzione dell’esistenza di una situazione rivoluzionaria in Italia», ma anche la percezione della possibile insorgenza di «una reazione borghese di nuovo tipo», ovvero disposta a travalicare i confini del tradizionale «quadro liberale e democratico». G. Liguori, Da Bordiga a Gramsci, cit., p. 12, osserva come nel primo dopoguerra, di fronte al «nuovo protagonismo delle masse» che reagivano ai «sacrifici patiti» e ai «salari [...] operai in netto calo», l’ala sinistra del PSI sosteneva che l’Italia stesse vivendo una «situazione prerivoluzionaria».

[68] Cfr. Ibidem, pp. 124, 125, che richiama una frase di Gramsci contenuta in Cronaca dell’Ordine Nuovo, 2 ottobre 1920.

[69] Cfr. Ibidem, pp. 110, 111, nt. 1, in cui si cita una lettera di Gramsci (inviata a Alfonso Leonetti, il 28 gennaio 1924) nella quale, riflettendo sulle cause delle sconfitte del 1919-1920, scrisse: «noi abbiamo commesso errori gravissimi che [...] adesso scontiamo. Non abbiamo, per paura di essere chiamati arrivisti o carrieristi, costituito una frazione e cercato di organizzarla in tutta Italia. Non abbiamo voluto dare ai Consigli di fabbrica di Torino un centro direttivo autonomo [...] che avrebbe potuto esercitare un’immensa influenza in tutto il Paese per paura di una scissione nei sindacati e di essere troppo prematuramente espulsi dal PSI [...]. In verità, se dopo la scissione d’aprile avessimo assunto la posizione che io pure pensavo necessaria, forse saremmo arrivati in una situazione diversa all’occupazione delle fabbriche e avremmo rimandato questo avvenimento a una situazione più propizia». P. Spriano, Storia, cit., p. 57, specifica che la posizione che Gramsci ritenne essenziale adottare «dopo la “scissione d’aprile”», fosse appunto quella di avviare prontamente «un processo di chiarificazione politica all’interno del PSI», volto ad analizzare le «insufficienze» e a porre le premesse per «nuove scelte».

[70] Cfr. P. Spriano, «L’Ordine Nuovo», cit., pp. 124, 125, 126 e p. 128, il quale evidenzia come «i giovani dell’Ordine Nuovo» si rivelarono sensibili alla «polemica di Lenin contro i menscevichi» e accolsero la sua indicazione di perseguire come principale obiettivo quello della «liberazione dai riformisti», perché nell’aprile e nel settembre del 1920 si erano dovuti misurare con le «esitazioni» e le «remore» delle burocrazie politiche e sindacali, che avevano neutralizzato la «spinta rivoluzionaria» delle masse.

[71] Cfr. Ibidem, p. 126, in cui si sostiene come nel settembre del 1920, tutte le correnti di sinistra del PSI richiedevano, in armonia con quanto sostenuto dall’Internazionale comunista, l’espulsione dei riformisti e tale obiettivo sintetizzerà «il senso della battaglia» che si aprirà al Congresso di Livorno «sulle famose “ventun condizioni” di Mosca». S. Gentili, Il Partito, cit., p. 10, osserva come «la nascita del Pcd’I fu la risposta anche alle esitazioni dei socialisti durante il biennio rosso, al “massimalismo parolaio” misto alla inconcludenza politica, alle illusioni legalitarie dei riformisti di fronte al dilagare dello squadrismo fascista». A. Ruggeri, 100° anniversario della fondazione, cit., pp. 9, 10, evidenzia che, nel 1920, alcuni giovani socialisti come Gramsci e Togliatti, cominciarono a esprimere dissenso nei confronti dell’atteggiamento ostile adottato dai gruppi dirigenti del PSI e della CGL, sia rispetto allo “sciopero delle lancette”, sia rispetto all’occupazione delle fabbriche. In ambedue le situazioni infatti, essi perseguirono l’obiettivo di mantenere le lotte entro i margini sindacali, al fine di precluderne gli sviluppi politici.

[72] A. Gramsci, Contro il pessimismo, in L’Ordine Nuovo, n. 2, 15 marzo 1924, descrive il contesto nell’ambito del quale si collocò «la scissione di Livorno» e la fondazione del PCdI, nei seguenti termini: «Fummo [...] travolti dagli avvenimenti, fummo, senza volerlo, un aspetto della dissoluzione generale della società italiana, diventata un crogiuolo incandescente dove tutte le tradizioni, tutte le formazioni storiche, tutte le idee prevalenti si fondevano qualche volta senza residuo: avevamo una consolazione alla quale ci siamo tenacemente attaccati, che nessuno si salvava, che noi potevamo affermare di aver previsto il cataclisma, quando gli altri si cullavano nella più beata e idiota delle illusioni. [...] Dovemmo trasformare, nell’atto stesso della loro costituzione, del loro arruolamento, i nostri gruppi in distaccamenti per la guerriglia, della più atroce e difficile guerriglia che mai la classe operaia abbia dovuto combattere. Si riuscì tuttavia: il partito fu costituito e fortemente costituito: esso è una falange d’acciaio».

[73] Cfr. M. Scoccimarro, Sui cinquanta anni del partito, in Critica marxista, quaderni, n. 5/1972, p. 375. S. Gentili, Il Partito, cit., pp. 25, 26, pone in evidenza come gli astensionisti e gli ordinovisti condividessero la volontà di fondare un nuovo partito perché «dopo la sconfitta dell’occupazione delle fabbriche (biennio rosso 1919-1920), dovuta alle incertezze socialiste e del sindacato», ritenevano indispensabile «la fondazione di un partito comunista in grado di dare alla crisi sociale uno sbocco rivoluzionario» e reputavano necessaria, di conseguenza, «la separazione dall’anima riformista», che frenava «il moto rivoluzionario».

[74] Cfr. M. Scoccimarro, Sui cinquanta anni, cit., p. 375, in cui si osserva come l’ideologia socialdemocratica avesse «già da tempo provocato una frattura nella classe operaia e di riflesso anche nel Partito socialista».

[75] Cfr. Ibidem, p. 376. A. Höbel, Prefazione, in S. Gentili, Il Partito, cit., pp. 9, 10, afferma, a tale proposito, come si siano manifestate, anche in occasione del centenario della nascita del PCdI, «letture discutibili» che imputano «al “peccato originale” della scissione comunista del ’21», la responsabilità di «tutti i mali della sinistra italiana» e individuano pertanto «nel Congresso di Livorno, l’inizio di una vera e propria “dannazione”, quella appunto delle scissioni e delle divisioni». Tali letture «tendono a mettere in ombra» la circostanza non secondaria per la quale «la frattura interna al movimento operaio» si produsse «non a Livorno» bensì «sul piano internazionale su una questione decisiva come la guerra o la pace» e si approfondì ulteriormente a causa delle «esitazioni dei socialisti durante il biennio rosso» e, in seguito, dinanzi «al dilagare dello squadrismo fascista». A. Ruggeri, 100° anniversario della fondazione, cit., pp. 1, 2, osserva che nel corso del dibattito sviluppatosi in occasione del centenario della fondazione del PCdI, alcuni intellettuali della sinistra sia «riformista» che «radicale», quasi per esorcizzare un’arcaica «paura» suscitata da quell’evento, hanno sostenuto che la «scissione» si sarebbe dovuta evitare, mentre, «nella realtà», fu «inevitabile, indispensabile e necessaria» per superare sia «il riformismo e il massimalismo parolaio», elementi che avevano bloccato l’iniziativa politica del movimento operaio e determinato la sconfitta delle lotte del biennio rosso, sia la «deriva opportunista della II Internazionale», la quale aveva sostenuto la «guerra imperialista», consentendo il «massacro dei lavoratori di tutto il mondo».

[76] Cfr. M. Scoccimarro, Sui cinquanta anni, cit., p. 376. Sul punto cfr. anche G. Liguori, Da Bordiga a Gramsci, p. 14 e A. Gramsci, Socialisti e comunisti, in L’Ordine Nuovo, 12 marzo 1921. S. Gentili, Il Partito, cit., p. 27, osserva che all’epoca della fondazione del PCdI, dominava l’opinione secondo cui sussistevano «le condizioni oggettive per attuare la rivoluzione mondiale». L’esperienza invece rivelò l’esistenza di «una realtà profondamente diversa», ove non v’era alcuna «rivoluzione da dirigere, ma un attacco fascista [...] armato da contrastare», di fronte al quale non era schierato «un movimento operaio unito e combattivo», bensì «un movimento indebolito, isolato» e «diviso [...] nel proprio interno». In questo «quadro avverso, i comunisti avviarono la costruzione del loro partito, lasciandosi alle spalle i limiti del massimalismo parolaio e del riformismo rinunciatario».

[77] P. Spriano, Storia, cit., p. 69, osserva come Lenin e i bolscevichi considerassero, da un lato, l’«opportunismo» dei riformisti come «il nemico principale da combattere», ma reputassero, dall’altro, l’«estremismo» dei bordighisti come una «malattia infantile del comunismo», ovvero «come una “malattia di crescenza” del partito rivoluzionario, che va curata per tempo perché non ostacoli il contatto con le più larghe masse, né impedisca quella souplesse tattica che deve consentire di unire mezzi legali e mezzi illegali, di “utilizzare” il lavoro parlamentare come la penetrazione nei sindacati socialdemocratici, di agitare tutti i rami della vita sociale».

[78] Cfr. M. Scoccimarro, Sui cinquanta anni, cit., p. 376, il quale evidenzia, tuttavia, come «quel difetto» costituisse anche il frutto di «una situazione oggettiva aspra e dura» provocata dall’«offensiva» scatenata da «tutte le forze politiche» contro il Partito comunista, nell’ambito della quale fu utilizzato «ogni mezzo fino [...] alle brutalità del fascismo». P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del partito comunista italiano, Editori Riuniti, Roma, 1962, p. 21, 22, 29, afferma che «il partito nel suo complesso» accolse i rigidi indirizzi della direzione bordighiana anche a causa delle «condizioni oggettive che spingevano alla chiusura settaria piuttosto che a vaste azioni politiche di massa». Togliatti rileva come quell’impostazione dogmatica fosse espressiva di un «modo errato [...] di reagire alla confusione e al marasma che erano stati dominanti nel partito socialista e da cui ci si voleva liberare [...] facendo ricorso ai rimedi più radicali», propri dei soggetti politici ancora inesperti e quindi incapaci di compiere le scelte richieste dalla situazione. Secondo Gramsci, tali richieste dovevano tradursi in un’«ampia azione politica» capace di porre «in modo nuovo [...] il problema [...] dell’unità d’azione contro l’avversario di classe», mentre «gli estremisti della frazione astensionista» restavano avulsi «dall’evoluzione delle cose» perché la loro logica minoritaria gli precludeva la possibilità di svolgere una funzione di guida delle masse lavoratrici per condurle verso «nuovi risultati positivi», nel contesto di «una situazione nuova».

[79] P. Spriano, Introduzione, in P. Togliatti, Opere, 1935-1944, IV, a cura di F. Andreucci e P. Spriano, Editori Riuniti, Roma, 1979, p. LXXI. Spriano sostiene che Togliatti considerava il gruppo dell’Ordine Nuovo come il reale fondatore del Partito comunista, perché dotato «di più robusta coscienza teorica e più carico di avvenire». Il nucleo ordinovista originario era composto da quattro giovani intellettuali (Gramsci, Togliatti, Tasca, Terracini), i quali, il primo maggio del 1919, iniziarono la pubblicazione della rivista L’Ordine Nuovo, che divenne l’organo del movimento dei Consigli di fabbrica, ovvero di quegli «organismi di autogoverno operaio» che si contrapponevano agli «apparati burocratici» del sindacato, subalterni alla maggioranza riformista del PSI. A. Gramsci, Il programma dell’«Ordine Nuovo», in L’Ordine Nuovo, 21 agosto 1920 (reperibile in: 2000 pagine di Gramsci, vol. I, cit., p. 478) scrive: «gli operai amarono l’Ordine Nuovo» perché ritrovarono nei suoi «articoli [...] la parte migliore di se stessi»; perché li sentirono «pervasi dallo stesso loro spirito di ricerca interiore: Come possiamo diventar liberi? Come possiamo diventare noi stessi?”»; perché «non erano fredde architetture intellettuali, ma sgorgavano dalla discussione [...] con gli operai migliori, elaboravano sentimenti, volontà, passioni reali della classe operaia torinese, che erano state [...] saggiate e provocate»; perché «erano quasi un “prendere atto” di avvenimenti reali, visti come momenti di un processo di intima liberazione ed espressione [...] della classe operaia».

[80] Cfr. P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente, cit., p. 11.

[81] Cfr. M. Scoccimarro, Sui cinquanta anni, cit., p. 376. P. Togliatti, La formazione, cit., p. 18, osserva che il PCdI, a due anni dalla fondazione, prospettava «uno sviluppo» contrassegnato da «due aspetti collegati [...], ma in realtà contraddittori»: quello «positivo», relativo alla sua capacità di determinare «lo spostamento su posizioni [...] di lotta rivoluzionaria, di [...] parecchie migliaia di proletari» e quello negativo, relativo alla sua propensione a «incapsulare questa spinta rivoluzionaria entro una cornice angusta» fatta di schemi rigidi avulsi dalla realtà e quindi inidonea a consentirle «di dispiegare [...] la sua efficacia politica reale».

[82] Cfr. A. Tortorella, Un partito diverso quello di Togliatti e Berlinguer, in il manifesto, 21/1/2021.

[83] Il nome di PCdI fu mantenuto fino al maggio 1943 quando, a seguito dello scioglimento della III Internazionale, fu modificato in PCI. Sul tema cfr. G. Galli, Storia del Pci, cit., p. 52, nt. 47; A. Hӧbel. L’impronta di Togliatti, in Critica marxista, n. 1/2, 2021, p. 38; M. Prospero, Alla Bolognina si è chiusa la Repubblica, in il manifesto, 21/1/2021.

[84] Cfr. P. Togliatti, La formazione, cit., p. 30, secondo cui il problema delle «alleanze» fu fortemente avvertito «dalla maggioranza del partito e da vasti strati delle masse lavoratrici», specie dopo il «brutale assassinio del deputato socialista Matteotti (giugno 1924). M. Scoccimarro, Sui cinquanta anni, cit., p. 376, richiama, a riprova del consenso riscosso dal nuovo indirizzo politico, il fatto che, in pochi mesi, il PCdI raddoppiò i suoi iscritti e «la sua influenza sulle forze popolari» crebbe «ad un livello mai prima raggiunto».

[85] Cfr. P. Togliatti, La formazione, cit., p. 30.

[86] Cfr. Ibidem, p. 31.

[87] P. Spriano, «L’Ordine Nuovo», cit., p. 21, evidenzia come Gramsci attiri l’attenzione dei compagni «sulla “cultura materiata di filosofia storicistica” dei bolscevichi “che concepiscono la storia come processo infinito di creazione» (cfr. A. Gramsci, Per conoscere la rivoluzione russa, in Il Grido del Popolo, 29 aprile 1917).

[88] Cfr. P. Togliatti, La formazione, cit., p. 32.

[89] Cfr. Ibidem.

[90] Cfr. la nota redazionale premessa allo scritto di M. Scoccimarro, Sui cinquanta anni, cit., p. 374. Gramsci, muovendo dal «presupposto analitico della complessità delle formazioni sociali», ritiene che «il marxismo (come ogni apparato teorico che pretenda di essere scientifico) [...], si sviluppi fondamentalmente [...] attraverso crisi gnoseologiche che tendono a rifarlo ex novo, pur in ciò recuperando parte più o meno ampia dei suoi materiali preesistenti (cfr. sul punto L. Vinci, Gramsci e Lenin, Togliatti e Gramsci. Continuità e discontinuità, in Aa.Vv., Seminario su Gramsci, Punto Rosso, Milano, 2019, p. 131).

[91] P. Spriano, «L’Ordine Nuovo», cit., p. 135, osserva come l’apertura della riflessione delle masse sull’«orizzonte internazionale [...], e la sensibilità mostrata per i problemi di una rivoluzione culturale che accompagni e susciti quella politica», furono «due caratteristiche fondamentali dell’Ordine Nuovo» che perdurarono nel tempo e riuscirono a influenzare le evoluzioni del partito comunista italiano.

[92] Cfr. E. Ragionieri, Introduzione, in P. Togliatti, Opere, 1917-1926, I, a cura di E. Ragionieri, Editori Riuniti, Roma, 1967, p. LVIII, secondo il quale il movimento operaio era caratterizzato sino a quel momento dalla mescolanza tra «sovversivismo», «riformismo», «municipalismo» e «solidarismo», aspetti questi che costituivano nel contempo la sua «vitalità» e il suo «limite». P. Spriano, Storia, cit., p. 46, ritiene che i fondatori dell’Ordine Nuovo arrecarono «esperienze, idee, quadri intellettuali e operai», che acquisirono progressivamente «maggiore rilevanza fino a divenire prevalenti, pur perdendo molti dei caratteri iniziali».

[93] L. Vinci, Gramsci e Lenin, cit., pp. 131, 132, sostiene che tra Gramsci e Togliatti vi sia stata una significativa «continuità», ma anche una rilevante «discontinuità», che tuttavia, derivò dalle differenti situazioni storiche concrete nelle quali si trovarono ad operare come dirigenti del Partito comunista italiano.

[94] Cfr. E. Ragionieri, Introduzione, cit., p. LVIII.

[95] Cfr. Ibidem, p. XXXI, Ragionieri osserva come «pochi movimenti politici nella storia» abbiano conosciuto «una simile continuità di direzione». S. Gentili, Il Partito, cit., pp. 67, 68, 69, evidenzia come Gramsci, eletto segretario del PCdI, nell'agosto del 1924, intraprese, seppur nella difficile situazione segnata dall’omicidio Matteotti, un’azione politica e culturale volta a trasformare il partito in un «soggetto d’iniziativa politica» aperto alle alleanze, in particolare a quella con il Fronte unico antifascista, consapevole che la conquista della «maggioranza del proletariato» costituiva la premessa essenziale per la vittoria della rivoluzione e per la costruzione dello «Stato socialista».

[96] A. Gramsci, nell’articolo intitolato: Al potere, pubblicato su L’Ordine Nuovo del 15 maggio 1920, sostenne che i «marxisti» dovessero cogliere «i termini del problema del potere [...] nell’organismo produttivo», perché «la rivoluzione [...] è comunista solo in quanto [...] è liberazione di forze produttive e proletarie» (cfr. anche Ibidem, Due rivoluzioni, in L’Ordine Nuovo, 3 luglio 1920).

[97] Cfr. P. Spriano, «L’Ordine Nuovo», cit., pp. 138 e 140, che richiama un articolo di P. Togliatti, La nostra ideologia, pubblicato su L’Unità del 23 settembre 1925, nel quale egli respinse le accuse di idealismo e di volontarismo rivolte all’esperienza dei Consigli di fabbrica, rivendicandone la coerenza con l’impostazione marxista. Togliatti pose in evidenza infatti come il gruppo dell’Ordine Nuovo avesse concepito «la riscossa operaia» in connessione con la «trasformazione dei rapporti sociali, che doveva partire dal luogo della produzione e sul luogo della produzione assumere la sua forma elementare concreta», nella consapevolezza che «la classe» costituisce un’entità «che si organizza, che acquista [...] coscienza» e che, «vuole», pertanto, far «pesare la sua volontà [...] e la sua organizzazione, su tutto il processo della trasformazione sociale». Nell'ambito di questa concezione, il «partito», come «massima organizzazione volontaria della classe», non poteva, quindi, che «essere una parte di essa» e inserirsi «nel movimento, in modo attivo».

[98] Cfr. A. Gramsci, Democrazia operaia, L’Ordine Nuovo, 21 giugno 1919, in Ibidem, L’Ordine Nuovo, (1919-1920), PGRECO, Milano, 2020, pp. 10 ss.

[99] Cfr. P. Spriano, «L’Ordine Nuovo», cit., p. 137 e p. 46, ove osserva come Gramsci considerasse la «commissione interna» come «un germe [...] di governo dei Soviet in Italia» e sollecitasse pertanto «a studiare questa istituzione, a concentrare l’attenzione sulla fabbrica capitalista come organismo politico, come territorio nazionale dell’autogoverno operaio». In tale contesto il «problema dello sviluppo delle commissioni interne», fu posto come «problema fondamentale della rivoluzione proletaria», ovvero come «come problema della “libertà” operaia» (sul punto, cfr. A. Gramsci, Il programma dell’«Ordine Nuovo», in L’Ordine Nuovo, 21 agosto 1920 (reperibile in: 2000 pagine di Gramsci, vol. I, cit., pp. 476, 477).

[100] Cfr. Ibidem, p. 45 e p. 139, Spriano richiama uno scritto in cui Gramsci ritiene che «le masse operaie, come classe, non possono fare a meno di cercare degli organi e delle forme in cui sia loro possibile trovare una espressione politica propria». A tale proposito egli osserva che nel 1919, quando «i Sindacati abbandonarono il terreno della lotta di classe, la massa trovò nel Consiglio di fabbrica la sua espressione politica», con cui affermò «una volontà diversa» da quella espressa dai «dirigenti sindacali». La prima traccia di una ricerca orientata all’«idea dei Consigli di fabbrica», viene individuata in uno scritto (Maggioranza e minoranza nell’azione socialista) pubblicato su L’Ordine Nuovo del 15 maggio 1919, in cui Gramsci osservò come «la rivoluzione internazionale» avesse «acquistato forma e corpo, da quando il proletariato russo» aveva «inventato (nel senso bergsoniano) lo Stato dei Consigli, escavando nella sua esperienza di classe sfruttata, estendendo alla collettività un sistema di ordinamento che sintetizza la forma della vita economica proletaria organizzata, nella fabbrica intorno ai comitati interni» e nella forma politica intorno ai «circoli rionali», alle «sezioni urbane e di villaggio» e alle «federazioni provinciali e regionali in cui si articola il Partito».

[101] Cfr. Ibidem, p. 138, nt. 2, in cui si richiama un passo della relazione esposta da Gramsci, nell’agosto del 1924, dinanzi al C.C. del PCdI, nella quale sollecitò le «cellule» del partito a «spingere le Commissioni interne a incorporare nel loro funzionamento, tutte le attività proletarie» e a promuovere, «un largo movimento nelle fabbriche» per dar vita a un’ «organizzazione di Comitati proletari di città, eletti dalle masse direttamente», con il compito di svolgere, nel corso della «crisi sociale», la funzione di «presidio degli interessi generali del popolo lavoratore». Il «Partito nel suo complesso» doveva dunque perseguire l’obiettivo di conquistare la «maggioranza dei lavoratori» al fine di avviare un processo di «trasformazione molecolare delle basi dello Stato democratico» necessario per consentire «il passaggio ad una fase successiva di sviluppo [...] nel cammino della rivoluzione». Sul punto, cfr. anche P. Striano, Storia, cit., pp. 35, 62, il quale sostiene come il gruppo bordighiano ponesse l’accento sul ruolo prioritario del partito, mentre quello ordinovista mirasse a creare «organismi» di base per «dare una nuova espressione politica alle masse».

[102] Cfr. A. Gramsci, Democrazia operaia, cit. P. Spriano, «L’Ordine Nuovo», cit., p. 45, 46, ritiene che l’editoriale «Democrazia operaia, scritto da Gramsci in collaborazione con Togliatti», segnò «la svolta dell’Ordine Nuovo» perché prospettò «il problema delle Commissioni interne di fabbrica» in modo innovativo, considerandole come «futuri organi del potere proletario» nell’ambito di «un nuovo sistema di democrazia operaia». G. Liguori, Da Bordiga a Gramsci, cit., pp. 12, 13, osserva che la concezione gramsciana dei Consigli di fabbrica, considerati come elementi di uno stato socialista «in fieri», sia connessa alla concezione marxiana dell’«autogoverno dei produttori», inteso come forma del superamento della separazione «tra ruolo produttivo e ruolo politico» e, quindi, «tra economia e politica» (cfr. K. Marx, La Guerra civile in Francia, 1871).

[103] A. Gramsci, Il programma dell’«Ordine Nuovo», in L’Ordine Nuovo, 21 agosto 1920 (reperibile in: 2000 pagine di Gramsci, vol. I, cit., p. 482), sostiene che per «il movimento dei Consigli di fabbrica [...] le rappresentanze operaie» dovessero essere «emanazione diretta della massa» e, quindi, legate ad essa mediante un «mandato imperativo».

[104] Cfr. P. Spriano, Storia, cit., pp. 48, 49, il quale richiama un articolo di A. Gramsci, Il nostro programma, pubblicato su L’Ordine Nuovo dell’aprile 1924, in cui si evidenzia come il gruppo dell’Ordine Nuovo seppe tradurre «nel linguaggio storico italiano, i principali postulati della dottrina e della tattica dell’Internazionale comunista» e come, negli anni 1919-1920, ciò comportò l’adozione «della parola d’ordine dei Consigli di fabbrica e del controllo sociale della produzione».

[105] A. Gramsci in un articolo intitolato Funzionarismo, pubblicato su L’Ordine Nuovo del 4 marzo 1921, (reperibile in Ibidem, Scritti politici, a cura di P. Spriano, II, cit., pp. 203 ss.), osserva che «i funzionari non rappresentano le masse» così come «gli Stati assoluti», che furono «gli Stati [...] della burocrazia», non rappresentavano «le popolazioni», finendo perciò con l’essere «sostituiti dagli Stati parlamentari». Per Gramsci, la CGL poneva un ostacolo allo «sviluppo storico del proletariato», analogamente a quanto fatto dallo Stato assoluto nei confronti dello «sviluppo storico delle classi borghesi». Egli ipotizzò pertanto, che la Confederazione sarebbe stata «sostituita dall’organizzazione dei Consigli», di fatto «parlamenti operai, che hanno la funzione di corrodere i sedimenti burocratici e di trasformare i vecchi rapporti organizzativi». Per una definizione della «burocrazia» come «forza consuetudinaria e conservatrice più pericolosa» e come «corpo solidale» che «sta a sé e si sente indipendente dalla massa», cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., vol. III, p. 1604.

[106] Cfr. P. Spriano, Storia, cit., p. 62. Lo stesso autore nel volume «L’Ordine Nuovo», cit., pp. 134, 137, richiama sul punto, un articolo (Sindacati e Consigli), pubblicato su L’Ordine Nuovo del 5 marzo 1921, che conteneva l'indicazione di rendere i «Consigli di fabbrica, la base dei Sindacati e delle federazioni d’industria e lo strumento per unificare le varie categorie di produttori (operai, manuali, tecnici e impiegati)», nonché un articolo di A. Gramsci, pubblicato su L’Ordine Nuovo del 7 febbraio 1922 (La tattica sindacale del PCI), nel quale si sosteneva che: «Per raggiungere l’autonomia nel campo industriale la classe operaia deve superare i limiti dell’organizzazione sindacale e creare un tipo nuovo di organizzazione a base rappresentativa e non più burocratica, che abbracci tutta la classe operaia anche quella che non aderisce all’organizzazione sindacale».

[107] A. Gramsci, Il programma dell’«Ordine Nuovo», in L’Ordine Nuovo, 21 agosto 1920 (reperibile in: 2000 pagine di Gramsci, vol. I, cit., p. 479), sostiene che, secondo la concezione dell’Ordine Nuovo, «mentre il partito e il sindacato sono associazioni di carattere “privato”» nelle quali «l’operaio entra a far parte “volontariamente”, [...] firmando un “contratto” che [...] può stracciare in ogni momento», il «Consiglio di fabbrica» costituisce un «istituto di carattere “pubblico”» nel quale «l’operaio entra a far parte come produttore, in conseguenza cioè di un suo carattere universale, [...] della sua posizione e della sua funzione nella società, allo stesso modo in cui il cittadino entra a far parte dello Stato democratico parlamentare». Il partito e il sindacato con il loro carattere volontarista e contrattualista, non possono essere, pertanto, «confusi col Consiglio, istituto rappresentativo, che si sviluppa non aritmeticamente ma morfologicamente e tende, nelle sue forme superiori, a dare [...] rilievo proletario» all’«apparecchio di produzione e di scambio creato dal capitalismo ai fini del profitto».

[108] Cfr. P. Spriano, «L’Ordine Nuovo», cit., p. 106.

[109] Cfr. Ibidem, p. 109, Spriano osserva che senza «l’elaborazione consiliare» del gruppo ordinovista, senza la sua «azione costante in mezzo alle masse», senza la sua «fiducia teoretica e pratica [...] nell’operaio di fabbrica quale protagonista della rivoluzione», senza «quella polemica contro [...] il partito e il sindacato tradizionali» e senza «quella ripulsa» della «sterile [...] disputa tra “elezionisti” e “astensionisti” [...], non sarebbe sorta la concezione di un partito nuovo della classe operaia, strutturalmente diversa» dalla concezione riformista, da quella massimalista e da quella bordighiana.

[110] Cfr. Ibidem, p. 109, in cui Spriano, partendo dall’osservazione di Gramsci secondo cui la «Commissione interna» fu il «germe del Soviet», sostiene che, allo stesso modo, il «movimento dei consigli» costituì il «germe» della «concezione nuova del partito». Analoga la posizione di P. Togliatti, Attualità del pensiero e dell’azione di Gramsci, in Rinascita, aprile 1957, p. 143, secondo il quale «dal movimento dei consigli uscì l’ossatura di un nuovo partito».

[111] Cfr. P. Spriano, Storia, cit., pp. 62, 63.

[112] Cfr. P. Spriano, «L’Ordine Nuovo», cit., p. 136,

[113] Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., vol. I, p. 330, in cui afferma che l'«elemento di spontaneità non fu trascurato», né «disprezzato», ma fu «educato, [...] indirizzato» e «purificato da tutto ciò che di estraneo poteva inquinarlo», soggiungendo che tale «unità» tra «spontaneità» e «direzione consapevole», costituisce l’«azione politica reale delle classi subalterne, in quanto politica di massa e non semplice avventura di gruppi che si richiamano alla massa». P. Spriano, «L’Ordine Nuovo», cit., p. 136, osserva come «la giusta soluzione del rapporto spontaneità-direzione consapevole, risulti nella riflessione del Gramsci del carcere, il maggior merito storico del movimento ordinovista, nonché l’ispirazione che deve guidare l’azione politica del partito operaio nelle varie circostanze in cui si trova a operare». Gli scritti dal carcere confermano, quindi, «la continuità [...] di un modo di concepire la dialettica del movimento e il rapporto fra forze sociali e forze politiche», come attestato dalla coerenza delle posizioni espresse da Gramsci nel 1921, nel 1922, nel 1923 e nel 1924-26.

[114] A. Gramsci, Il Consiglio di fabbrica, in L’Ordine Nuovo, 5 giugno 1920, (reperibile in Ibidem, Scritti politici, a cura di P. Spriano, II, cit., p. 121), osserva che: «lo svolgimento reale del processo rivoluzionario avviene sotterraneamente, nell’oscurità della fabbrica e nell’oscurità della coscienza delle moltitudini sterminate che il capitalismo assoggetta alle sue leggi». Esso si attua cioè «nel campo della produzione [...], dove non esiste libertà per l’operaio, dove non esiste democrazia; [...] dove l’operaio è nulla e vuole diventare tutto, dove il potere del proprietario è illimitato, è potere di vita e di morte sull’operaio, sulla donna dell’operaio, sui figli dell’operaio».

[115] Cfr. P. Spriano, Storia, cit., p. 62, il quale evidenzia il «peso che l’esperienza ordinovista» ebbe nello «sviluppo della storia del PCI» e, specie, «nell’elaborazione politica, di dirigente e di teorico, di Gramsci», che manifestò sempre «la volontà e l’ambizione [...] di suscitare organismi di massa, [...] diversi dai sindacati tradizionali», al fine di conferire «una nuova espressione politica alle masse».

[116] Cfr. Ibidem.

[117] Cfr. sul punto, A. Ruggeri, 100° anniversario della fondazione del Partito Comunista d’Italia, in www.iskrae.eu, p. 12.

[118] Cfr. G. Liguori, Da Bordiga a Gramsci, cit., p. 12.

[119] Cfr. P. Spriano, «L’Ordine Nuovo», cit., p. 134.

[120] Cfr. S. Gentili, Il Partito, cit., p. 26. G. Liguori, Da Bordiga a Gramsci, cit., p. 12, ritiene che Gramsci sostenesse la creazione di una «democrazia operaia» che doveva sostituire lo «Stato borghese» mediante la creazione di una rete di «organismi di autogoverno proletario», diffusa e radicata nel territorio. Si trattava, insomma, «di introdurre [...] l’ordine proletario» nella «fabbrica» per farla divenire «cellula del nuovo Stato», ovvero di uno Stato come «riflesso dei rapporti industriali del sistema di fabbrica» (cfr. sul punto, A. Gramsci, Due rivoluzioni, reperibile in Ibidem, L’Ordine Nuovo, 1919-1920, cit., p. 137). Bordiga, in polemica con la prospettiva di Gramsci, sottolineò come «il problema rivoluzionario» non consistesse «nella creazione formale dei Consigli», ma «nel passaggio del potere politico nelle loro mani» (cfr. A. Bordiga, Per la costituzione dei consigli operai in Italia, in Il Soviet, 4 gennaio 1920). Sulle profonde divergenze tra le diverse correnti del nuovo partito in merito alla valutazione del ruolo dei Consigli e del movimento sorto intorno ad essi con la guida dell’Ordine Nuovo, cfr. P. Togliatti, La formazione, cit., pp. 15, 16.

[121] Cfr. P. Spriano, Storia, cit., pp. 41, 42.

[122] Cfr. G. Liguori, Da Bordiga a Gramsci, cit., p. 12, il quale nota come i bordighisti, muovendo da una concezione rigidamente deterministica del marxismo e, quindi, da un’interpretazione meccanicistica del processo storico, finirono col privilegiare il momento “catastrofico”» e col sottovalutare, pertanto, il ruolo fondamentale dell’«azione politica per obiettivi», della ricerca delle «alleanze» e dei «movimenti di massa». Ogni iniziativa fu dunque rinviata a «dopo la conquista del potere», perché «prima occorreva solo una predicazione rigorosa dei principi per rendere le masse consapevoli di un processo rivoluzionario che si matura di per sé».

[123] P. Spriano, Intervista sulla storia del PCI, Laterza, Roma-Bari, 1979, pp. 47, 48, evidenzia come Gramsci intense sempre recuperare «l’idea originaria» dei Consigli di fabbrica come «base di una nuova concezione dello Stato».

[124] Cfr. P. Togliatti, La formazione, cit., p. 20.

[125] A. Bordiga, Gli scopi dei comunisti, in Il Soviet, 29 febbraio 1920, afferma: «Lo scopo storico dei comunisti è la formazione del partito politico di classe e la lotta per la conquista rivoluzionaria del potere». Sul punto cfr. anche, S. Gentili, Il Partito, cit., p. 26, il quale evidenzia come la frazione bordighista ritenesse «centrale il ruolo del partito» e indicasse come «obbiettivo immediato [...], l’abbattimento dello stato borghese».

[126] Cfr. P. Togliatti, La formazione, cit., p. 20.

[127] Nella lettera da Vienna del 9 febbraio del 1924 inviata a Togliatti, Terracini ed altri, Gramsci scrive che nel partito guidato da Bordiga: «ogni partecipazione delle masse all’attività e alla vita interna del partito, che non fosse quella delle grandi occasioni» e che non fosse autorizzata da «un ordine formale del centro, era vista come un pericolo per l’unità e l’accentramento». Il partito non fu concepito «come risultato di un processo dialettico in cui convergono il movimento spontaneo delle masse rivoluzionarie e la volontà direttiva e organizzativa del centro, ma solo come qualcosa di campato in aria, che si sviluppa in sé e per sé e che le masse raggiungeranno quando la situazione sia propizia e la cresta dell’ondata rivoluzionaria giunga fino alla sua altezza, oppure quando il centro del partito ritenga di dover iniziare un’offensiva e si abbassi alla massa per stimolarla e portarla all’azione» (cfr. P. Togliatti, La formazione, cit., p. 195).

[128] P. Togliatti, La formazione, cit., p. 20.

[129] G. Liguori, Da Bordiga a Gramsci, cit., p. 13, osserva che Gramsci non considerava i Consigli come organismi contrapposti al partito, ma, al tempo stesso, non concepiva il partito in senso militare, bensì come una «parte della classe» che doveva svolgere un ruolo di guida in un contesto democratico e partecipato. Bordiga respinse comunque la proposta ordinovista di porre i Consigli al «centro del movimento rivoluzionario» e sostenne la creazione di Soviet, che dovevano essere espressione delle «sezioni locali del Partito comunista», considerato l’unico «organo della rivoluzione» (sul punto, cfr. A. Bordiga, Formiamo i «Soviet»?, in Il Soviet, 21 settembre 1919). P. Spriano, Significato storico della formazione del nuovo gruppo dirigente del PCI, in Aa. Vv., Problemi di storia del Partito comunista italiano, Editori Riuniti, Roma, 1976, pp. 20, 21, rileva, a tal proposito, come Bordiga fosse contrario alle «cellule di fabbrica [...] perché temeva il cristallizzarsi di posizioni corporative» e perché riteneva che «solo il partito in quanto organo che impersonava una sintesi superiore, poteva contrastare la deriva tradeunionistica insita nella classe operaia». Gramsci confidava invece nel «processo di rinnovamento del partito attraverso il suo legame anche organizzativo più stretto [...] con la classe di cui è espressione». Egli aveva, insomma, «fiducia nella dialettica tra spontaneità e direzione consapevole» e quindi «nella costante funzione di educazione e di direzione che non si esercita solo in un senso ma in entrambi». La battaglia dell’Ordine Nuovo per i Consigli di fabbrica fu, del resto, intrapresa anche allo scopo di ristrutturare il sindacato e il partito «in modo democratico».

[130] Cfr. P. Togliatti, La formazione, cit., p. 21.

[131] Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., vol. III, pp. 1555-1561 e pp. 1752-1755.

[132] Sulla concezione anti-deterministica del marxismo propria di Gramsci, la quale attribuiva un’importanza fondamentale all’«intervento soggettivo» e, quindi, alla «cultura» alla «politica» e alla «volontà», cfr. G. Liguori, Da Bordiga a Gramsci, cit., p. 12.

[133] Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., vol. III, p. 1522.

[134] P. Togliatti, La formazione, cit., p. 35, evidenzia come Gramsci, in qualità di Segretario del partito, attribuì massima rilevanza al metodo dell’«elaborazione collettiva», nella convinzione che esso avrebbe contribuito al superamento dell’«ambito ristretto della problematica organizzativa» e alla nascita di una riflessione relativa alla più ampia tematica dei rapporti politici e di classe che «stavano maturando».

[135] Cfr. sul tema, S. D’albergo, Diritto e Costituzione. La questione dello Stato in Gramsci, in Gramsciana, fasc. n. 6/2018, pp. 15, 26, 27, 29.

[136] Gramsci sosteneva che «la rivoluzione» non poteva considerarsi comunista solo proponendosi «[...] di rovesciare il governo politico dello Stato borghese», ma doveva piuttosto «[...] promuovere l’espansione [...] di forze proletarie [...] capaci di iniziare il lavoro paziente e metodico necessario per costruire un nuovo ordine nei rapporti di produzione e distribuzione [...], sulla base del quale sia resa impossibile l’esistenza di una società divisa in classi». (cfr. A. Gramsci, Due rivoluzioni, cit., in Ibidem, L’Ordine Nuovo, 1919-1920, cit., p. 136). Tale lavoro doveva mirare pertanto a realizzare «una rete di istituzioni proletarie [...] nelle quali la classe degli operai e dei contadini» potesse assumere «una forma ricca di dinamismo e di possibilità di sviluppo». Queste «istituzioni di tipo nuovo» avrebbero dovuto sostituire progressivamente «le istituzioni private e pubbliche dello Stato democratico parlamentare» e «la persona del capitalista nelle funzioni amministrative e nel potere industriale» col fine di pervenire all’«autonomia del produttore nella fabbrica». La «creazione di uno Stato proletario» non poteva avvenire, insomma, mediante «un atto taumaturgico», bensì attraverso «un processo di sviluppo» imperniato sul potenziamento «delle istituzioni proletarie di fabbrica» e sulla costruzione di istituzioni «simili» nel territorio urbano e rurale. La «formula “conquista dello Stato”» doveva essere intesa nel senso di «creazione di un nuovo tipo di Stato generato dalla esperienza associativa della classe proletaria» (cfr. A. Gramsci, La conquista dello Stato, in L’Ordine Nuovo, 12 luglio 1919, in Ibidem, L’Ordine Nuovo, (1919-1920), cit., pp. 17,18).

[137] A. Gramsci, Due rivoluzioni, cit., in Ibidem, L’Ordine Nuovo, (1919-1920), cit., p.140.

[138] Cfr. P. Togliatti, La formazione, cit., p. 17, il quale pone in evidenza come «anche su questo punto» si manifestò successivamente «un serio dissenso» tra i fautori di un «centralismo “organico” tendenzialmente burocratico» e i sostenitori di «un centralismo democratico».

[139] Cfr. Ibidem.

[140] Cfr. A. Ruggeri, 100° anniversario della fondazione, cit., pp. 35-37.

[141] Cfr. G. Liguori, Da Bordiga a Gramsci, cit, p. 14, il quale rileva come la prevalenza dei bordighisti nella direzione del PCdI determinò, negli anni successivi, una «perdita di peso del gruppo gramsciano» che era stato l’unico tra i gruppi fondatori del partito a dare vita ad un’«esperienza effettiva sul terreno dei movimenti di massa».

[142] Cfr. Ibidem, ove si osserva che pochi mesi dopo il Congresso di Livorno, la situazione politica era mutata. Mentre in Europa era svanito il «sogno di una rapida sollevazione [...], in Italia alla reazione padronale nelle fabbriche» si era aggiunta «la violenza delle squadracce fasciste pagate [...] dal capitalismo industriale e agrario» e «coadiuvate dagli apparati repressivi dello Stato».

[143] Cfr. P. Togliatti, La formazione, cit., p. 36. A. Hӧbel, Gramsci e la Costituente. Dall’Aventino alla Liberazione, in www.academia.edu, p. 1, evidenzia come Gramsci sviluppò «la parte più consistente della sua elaborazione nella fase storica del riflusso del processo rivoluzionario e dell’affermazione dei fascismi» e pertanto essa si concentrò principalmente sulle ragioni di tale sconfitta e specie sui «modi per invertire la rotta e in prospettiva per ribaltare la situazione».

[144] Nella Conferenza nazionale del PCdI tenutasi a Como nel maggio del 1924, Togliatti espresse una netta critica nei confronti dell’impostazione ideologica bordighiana, affermando che «la dittatura del proletariato» si sarebbe potuta realizzare solo quando il partito fosse stato in grado di «porre sul terreno della lotta per la conquista del potere le grandi masse della popolazione lavoratrice e non solo l’avanguardia». Per giungere a quel momento occorreva pertanto «saper costruire tutta una catena storica attraverso i suoi successivi anelli e quindi saper lanciare delle parole d’ordine adattate [...] ai rapporti di forza reali» (cfr. sul punto, P. Striano, Storia, cit., p. 359).

[145] Cfr. P. Togliatti, La formazione, cit., ove si rileva che negli anni successivi alla fondazione del PCdI «anche negli altri Stati europei le ondate dei movimenti rivoluzionari si stavano esaurendo». Nel 1923 si ebbe infatti «l’ultima lotta diretta per il potere». Gramsci già nel 1920, aveva osservato, del resto, che: «In Germania, in Austria, in Baviera, in Ucraina e in Ungheria, [...] alla rivoluzione come atto distruttivo», non era «seguita la rivoluzione come processo ricostruttivo in senso comunista» (cfr. A. Gramsci, Due rivoluzioni, cit., in Ibidem, L’Ordine Nuovo, (1919-1920), cit., p. 137).

[146] M. Scoccimarro, Sui cinquanta anni, cit., p. 376, osserva come con l’avvento al potere del fascismo, si manifestò subito una differenziazione tra la componente bordighista che, reputando la situazione sostanzialmente immutata, sosteneva che il partito non dovesse modificare la sua linea politica e le altre componenti che ritenevano necessario introdurre un «nuovo indirizzo politico».

[147] A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., vol. II, p. 801, considera il «passaggio dalla guerra manovrata [...] alla guerra di posizione [...] la quistione di teoria politica [...] più importante e [...] più difficile» da risolvere «giustamente». Sul tema, cfr. P. Togliatti, La formazione, cit., p. 36 e G. Liguori, Da Bordiga a Gramsci, cit., p. 19. R. Mordenti, La rivoluzione in Occidente e la guerra di posizione (contributi per un nuovo paradigma della rivoluzione oggi e qui), in www.sinistrainrete.info, 14 febbraio 2018, p. 1. Mordenti individua in Gramsci «il massimo innovatore del concetto di rivoluzione e il massimo teorico della rivoluzione in Occidente», le cui riflessioni sono ancora attuali per «ripensare concretamente la rivoluzione fuori [...] dai dogmatismi» e per cercare di rilanciarla «nella fase della crisi del capitalismo globalizzato». Nel pensiero di Gramsci «il concetto di rivoluzione in Occidente», risulta «sempre [...] connesso al concetto di guerra di posizione» e non possiede alcuna valenza moderata, perché si riferisce, comunque, ad un tipo di «guerra [...] difficile in cui si domandano qualità eccezionali di pazienza e di spirito inventivo» ed «enormi sacrifizi». Si tratta, insomma, di una «guerra» che richiede «una concentrazione inaudita dell’egemonia» (cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., vol. II, p. 802).

[148] Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., vol. III, p. 866. Nella lettera del 9 febbraio del 1924 (cfr. P. Togliatti, La formazione, cit., p.197), Gramsci aveva già osservato che mentre in Russia si erano determinate le condizioni per un «assalto rivoluzionario», nell’Europa centrale la situazione si presentava più complicata, perché il maggiore sviluppo del capitalismo aveva provocato il sorgere di molteplici «superstrutture politiche», che rendevano «più lenta e più prudente l’azione della massa» e domandavano quindi «al partito rivoluzionario una strategia [...] ben più complessa e di lunga lena».

[149] Cfr. P. Togliatti, La formazione, cit., p. 39. S. Gentili, Il Partito, cit., pp. 60, 61, in cui si sostiene come dopo soli due anni dalla fondazione del partito la direzione bordighiana si era rivelata inadeguata sia rispetto ai «compiti immediati concreti», sia rispetto alle «prospettive lontane». La nuova realtà nazionale e internazionale, contrassegnata da un mutamento dei «rapporti di forza», richiedeva «un nuovo orientamento ideale e pratico [...] che il vecchio gruppo dirigente per la sua stessa natura non era in grado di dare». Gramsci prese quindi «l’iniziativa per costituire un nuovo gruppo dirigente di centro per condurre una battaglia culturale e politica contro l’estremismo di Bordiga e il manovrismo di Tasca». Nella corrispondenza che Gramsci avviò tra il 1923 e il 1924 con gli altri membri del gruppo torinese (Terracini, Scoccimarro ed altri), al fine di ricompattarlo e di sottrarlo all’influenza politica di Bordiga, chiarì le ragioni della sua netta critica nei confronti della direzione bordighiana, evidenziando come essa avesse «inaridito il dibattito, impedito l’iniziativa politica e [...] ridotto il partito ad una irrilevante frazione esterna del PSI».

[150] Nell’ambito di una «situazione di guerra civile» Bordiga non colse «alcuna differenza tra il fascismo e le altre forze borghesi» e non volle pertanto «mescolare i militanti del [...] partito con quelli delle altre forze [...] del movimento [...] antifascista». Gramsci analizzò invece il movimento fascista con il metodo dell’«analisi differenziata» (cfr. G. Liguori, Da Bordiga a Gramsci, cit., p.15) che lo condusse a valutare la sua composizione di classe e le sue contraddizioni interne e a prefigurare su tali basi le alleanze e le strategie adeguate per combatterlo (cfr. P. Spriano, Significato storico, cit., p. 26).

[151] P. Spriano, Significato storico, cit., p. 26, pone in evidenza come Gramsci di fronte all’«impotenza dell’Aventino», al «rifiuto della CGIL di aderire alla proposta [...] di sciopero generale» e all’insistenza dei bordighisti «sul ruolo autonomo dell’opposizione comunista», accentuò «il motivo di unità dal basso» tra le «forze sociali» e «politiche». In tale prospettiva ripropose, da un lato, lo «schema ordinovista» dei «Consigli di fabbrica» e dei «Comitati proletari di città» e propose , dall’altro, «soluzioni intermedie», come quella dell’«Antiparlamento» (1924) quale «organismo rappresentativo» delle «correnti antifasciste» che negavano legittimità al «parlamento dominato da Mussolini» e quella dell’«Assemblea repubblicana sulla base dei Comitati operai e contadini» (1925), che coniugava «l’istanza rappresentativa tradizionale» con quella «soviettista». Ambedue le proposte furono considerate come «obiettivi» della «prima fase di lotta al fascismo», ovvero come «tappe intermedie» del «processo di emancipazione» delle classi lavoratrici. A. Hӧbel, Gramsci e la Costituente, cit., p. 5, osserva come la proposta della Costituente repubblicana indicasse due obiettivi: «il “controllo operaio sull’industria” e la “terra ai contadini». Si trattava, quindi di «un programma rivoluzionario» aperto alle alleanze con le altre forze antifasciste.

[152] Gramsci considerò il fascismo «un tentativo della borghesia agraria di affermarsi nello Stato [...] come forza indipendente alleata ai grandi proprietari contro i contadini e contro gli operai». La sua funzione era quindi quella di garantire la prevalenza degli interessi del blocco agrario e industriale anche a scapito degli interessi della piccola e media borghesia. Questi strati sociali, che pure erano stati parti integranti del «primo movimento fascista», sarebbero potuti pervenire pertanto alla decisione di rompere i legami col regime fascista. Gramsci reputò quindi «un grave errore» [...] credere che l’avvento al potere di Mussolini [...] escludesse qualsiasi prospettiva di vasti movimenti politici e di massa». Egli avanzò, «in questo modo, l’ipotesi concreta di una prospettiva democratica, che il movimento operaio e il partito comunista dovevano essere in grado di affrontare» (cfr. P. Togliatti, La formazione, cit., p. 38).

[153] Cfr. P. Spriano, Significato storico, cit., p. 23.

[154] Cfr. S. Gentili, Il Partito, cit., p. 54.

[155] Cfr. P. Spriano, Significato storico, cit., p. 29, che evidenzia come Togliatti, sin dal 1923, aveva osservato che il fascismo mirava «a creare un’unità di organizzazione politica della borghesia». Questa interpretazione trovò una «formulazione più rigorosa [...] nelle tesi di Lione», in cui si afferma: «nel campo economico il fascismo agisce come strumento di una oligarchia industriale e agraria per accentrare nelle mani del capitalismo il controllo di tutte le ricchezze del paese». Si superavano, in questo modo, tutte quelle interpretazioni che avevano indotto a ritenere il fascismo «come qualcosa di estraneo agli interessi [...] del grande capitale». Questo riconoscimento del «carattere di classe del fascismo» definito come «capitalismo nascente», portò a considerare l’Italia non come un «paese arretrato», ma come un paese caratterizzato da uno «sviluppo [...] tipicamente capitalistico». A Lione, il capitalismo fu infatti considerato come «l’elemento predominante nella società italiana», il quale era fondato «sulla simbiosi tra capitale industriale e capitale bancario», ovvero «sull’intreccio tra profitto capitalistico e rendita fondiaria». A. Gramsci in un articolo pubblicato su L’Ordine Nuovo del 20 marzo 1921(reperibile in: 2000 pagine di Gramsci, vol. I, cit., p. 577) aveva già osservato come «il capitalismo industriale» avesse «perduto ogni indipendenza» e fosse ormai «alla mercé [...] dei predoni della finanza», ovvero del capitalismo degli affari bacati» con «il gusto del suicidio» e «nel suo programma la distruzione e la rovina». P. Togliatti, Lezioni sul fascismo, Editori Riuniti, Roma, 1978, p. 3, sostiene che «la definizione più completa di fascismo» fu quella data dal XIII Plenum dell’IC (novembre-dicembre del 1933), secondo cui: «Il fascismo è una dittatura terrorista aperta agli elementi più reazionari, più sciovinisti, più imperialisti del capitale finanziario».

[155] Cfr. Ibidem.

[156] Cfr. Ibidem.

[157] Cfr. P. Togliatti, La formazione, cit., p. 23, il quale considera l’adozione di tale decisione «un serio errore di schematismo settario».

[158] Cfr. P. Spriano, Significato storico, cit., p. 17, il quale nota come la direzione bordighiana non credesse «alla possibilità del colpo di stato fascista» e ritenesse anzi che «il manganello avrebbe potuto lasciare tranquillamente luogo a un nuovo approdo giolittiano-socialdemocratico della crisi».

[159] Cfr. Ibidem, cit., p.22. Gramsci in una lettera del 18 marzo 1923 indirizzata a Togliatti (reperibile in P. Togliatti, La formazione, cit., p. 67), scrisse che: «il primo fondamentale problema rivoluzionario» era quello di «unificare il proletariato d’avanguardia» e di «distruggere la tradizione popolaresca demagogica». Per tale ragione denunciò «i limiti e gli errori del bordighismo», muovendogli «le accuse di “formalismo”, di “scolasticismo”, di “bizantinismo”» e «di “mentalità matematica”». Sulla base di tali premesse, unitamente ai «suoi collaboratori più vicini», perseguì, nel periodo 1924-1926, il fine di «far politica» e quindi l’obiettivo di «uscire dall’eterna litania della lotta al centrismo massimalista», di «lavorare in mezzo alle masse» e di «assumere la direzione di un raggruppamento unitario». In questo contesto, «il problema della conquista della maggioranza della classe lavoratrice, il problema della costruzione di un partito di massa, il problema del Mezzogiorno» divennero «l’asse della prospettiva del partito» (cfr. P. Spriano, Significato storico, cit., pp. 17, 23). P. Togliatti, La formazione, cit., p. 34, afferma che: «non si può non essere colpiti dal contrasto che emerge tra le posizioni nuove, giuste, dettate da una acuta percezione del presente e dell’avvenire [...] esposte da Gramsci nelle sue lettere [...] e il continuo ricadere degli altri compagni in una cerchia di problemi sempre più ristretta, dove il passato incombe ancora, col peso di considerazioni che tarpano le ali alla creazione politica».

[160] G. Liguori, Da Bordiga a Gramsci, cit., p. 19, osserva che, nel corso della crisi Matteotti, «la nuova direzione gramsciana [...] non riuscì a convincere le opposizioni liberal-democratiche e socialiste dell’Aventino [...] a combattere apertamente il fascismo nel paese, a sottoscrivere un appello per lo sciopero generale e a trasformarsi in un vero Antiparlamento», ma riuscì comunque a fare uscire il PCdI «dal solito immobilismo» e a fargli riprendere l’iniziativa politica.

[161] Cfr. P. Togliatti, La formazione, cit., p. 39, il quale riferisce che Gramasci attribuiva al proletariato una «funzione nazionale», ovvero quella di fondare «su nuove basi democratiche l’unità del paese» al fine di conseguire «quella interiore costruzione unitaria» che le «classi capitalistiche» non avevano saputo» realizzare, perché «avevano considerato il Mezzogiorno come «terra di conquista e sfruttamento». Gramsci sostenne pertanto la necessità di stabilire alleanze tra gli operai delle «zone industriali avanzate» e la «popolazione povera [...] del Mezzogiorno» nella comune lotta contro il sistema capitalistico, nonché di sviluppare rapporti di «solidarietà con i movimenti autonomisti» delle «regioni meridionali». Egli propose dunque che nell’organizzazione del futuro «Stato operaio e contadino», si dovesse prevedere una «particolare struttura di potere» con il compito di rispondere alle istanze di tali movimenti.

[162] Cfr. P. Spriano, Significato storico, cit., p. 22, il quale osserva come la nuova direzione gramsciana non confuse più «Mussolini con Turati e con De Gasperi» e si concentrò sull’individuazione degli «strati sociali fondamentali» che potevano «stringere un’alleanza con la classe operaia», sulla valorizzazione della «componente federativa, autonomistica» che poteva confluire nella «prospettiva generale di un governo operaio e contadino» e sull’apertura di una riflessione relativa alla «questione agraria», su «quella contadina» e «su quella del Mezzogiorno».

[163] Cfr. Ibidem, pp. 24, 25.

[164] Cfr. Ibidem, p. 11, ove si richiama una nota dal carcere nella quale Gramsci suggeriva di osservare le vite dei «grandi uomini» al fine di porsi il seguente interrogativo: «Non è forse attraverso gli sbagli che si sono formate le attuali personalità scientifiche? E la biografia di ognuno non è in gran parte la lotta contro il passato e il superamento del passato?».

[165] Cfr. Ibidem, cit., p. 25, il quale pone in evidenza i molteplici «fattori» che ostacolarono «lo sforzo di elaborazione originale» del nuovo gruppo dirigente. Dal gennaio del 1925 fu avviata la «costruzione dello Stato dittatoriale fascista» che riuscì «a spegnere la possibilità di una lotta politica aperta sul terreno democratico». Persistevano inoltre, nel movimento comunista, «residui di dottrinarismo» che si traducevano nel paralizzante «assillo ideologico [...] di mantenere in ogni fase di manovra l’autonomia del partito, di non confondersi nel fronte aventiniano». L’esercizio della «funzione egemonica del nuovo gruppo dirigente» fu reso infine più difficile dagli esiti del V Congresso dell’I.C (1924) che diede un’interpretazione «estremamente restrittiva del concetto di fronte unico» e assimilò la «formula del governo operaio e contadino» a quella di «dittatura del proletariato». Nella stessa direzione si posero gli indirizzi del VI Congresso dell’I.C. (1928) che, sotto il dominio di Stalin, varò la «sciagurata formula del socialfascismo», la quale potenziò le «tendenze estremistiche» presenti nel partito.

[166] Cfr. Ibidem, pp. 24, 25.

[167] Cfr. S. Gentili, Il Partito, cit., p. 69. M. Scoccimarro, Sui cinquanta anni, cit., p. 377, considera il Congresso di Lione come «il vero congresso di fondazione ideologica e politica del partito» nel quale furono poste le premesse politiche e strategiche per «il rovesciamento del fascismo». G. Liguori, Da Bordiga a Gramsci, cit., p. 20, sostiene che tale Congresso fu «un vero e proprio congresso di rifondazione [...] rispetto al PCdI di Bordiga» perché in esso si affermò un «nuovo modo di essere del partito». P. Spriano, Significato storico, cit., p.32, ritiene, in modo più calzante, che il Congresso di Lione costituì l’esito di «un processo di sviluppo» nel corso del quale la parte più consapevole dei comunisti italiani, riuscì a superare il «primitivo estremismo» mediante l’uso di un metodo realistico che seppe tradurre «nei termini della rivoluzione italiana» gli insegnamenti di Lenin e della rivoluzione d’ottobre.

[168] P. Togliatti, La formazione, cit., p. 39, osserva come Gramsci approfondì, fin dal 1924, «i problemi della storia, delle strutture e delle sovrastrutture della società italiana [...], con «un metodo marxista rigoroso» da cui trasse «una conseguente nuova azione tra le masse».

[169] Cfr. P. Togliatti, Il Partito comunista italiano, cit. pp. 70, 72, in cui sostiene come le Tesi di Lione individuarono come causa principale della debolezza strutturale del capitalismo italiano il divario Nord-Sud, che il fascismo avrebbe acuito, portando «all’estremo [...] il sistema di sfruttamento e di oppressione delle masse meridionali», il quale poteva essere superato solo con la lotta unitaria degli operai e dei contadini contro la grande impresa industriale e agraria (cfr. Tesi 17). Un’altra debolezza strutturale fu indicata dunque nell’ascesa del fascismo, definito come lo «strumento di un’oligarchia industriale e agraria per accentrare nelle mani del capitalismo il controllo della ricchezza del paese». Sulla base di tale premessa, le Tesi prefigurarono le contraddizioni che sarebbero potute sorgere al suo interno e dunque le alleanze che la classe operaia avrebbe potuto stipulare «nella sua lotta contro il capitalismo» (cfr. Tesi 15). Sulle Tesi di Lione come analisi puntuale della società italiana e delle forze motrici della rivoluzione, cfr. A. Höbel, Prefazione, in S. Gentili, Il Partito, cit., p.12; G. Liguori, Da Bordiga a Gramsci, cit., p. 20.

[170] Cfr. S. Gentili, Il Partito, cit., p. 69.

[171] P. Togliatti, Intervento sulla questione italiana al segretariato latino del VI Congresso dell’IC, in Ibidem, Opere, 1926-1929, II, cit., pp. 531, 532, 533, 534, pose in evidenza come, specialmente dal 1927, il PCdI lanciò «parole d’ordine di azione» al fine di mobilitare le masse ed emanciparle dalla diffusa condizione di passività. Togliatti specificò tuttavia come queste parole d’ordine non fossero incompatibili con quelle «finali del partito» perché il suo compito fondamentale era, appunto, quello di connettere «le une alle altre». Nei documenti e nei manifesti pubblicati in quel periodo, dopo l’individuazione degli obiettivi «di carattere transitorio» (aumenti salariali, elezione delle commissioni operaie, ecc.), risultavano del resto sempre indicati gli obiettivi finali, ovvero il superamento del fascismo e del capitalismo e l’edificazione di una nuova società socialista. Sul punto cfr. anche Ibidem, Il Partito comunista, cit., p. 76. Nella Tesi 35, si legge che: «Il Partito comunista lega ogni rivendicazione immediata a un obiettivo rivoluzionario, si serve di ogni lotta parziale per insegnare alle masse la necessità dell’azione generale, dell’insurrezione contro il dominio reazionario del capitale».

[172] M. Scoccimarro, Sui cinquanta anni, cit., p. 377, ritiene che il tema centrale del dibattito nel Congresso di Lione fu quello delle «alleanze» perché la direzione bordighiana, nonostante le esperienze negative del passato, continuava a rifiutarle, relegando la classe operaia «in una posizione [...] di passività». Il gruppo dell’Ordine Nuovo condusse pertanto «una energica lotta politica, sostenendo che «non si poteva rovesciare il fascismo senza un potente movimento di massa». Su questo terreno, l’«estremismo» fu per la prima volta «sconfitto». Sul tema delle alleanze, cfr. anche P. Togliatti, Direttiva per lo studio delle questioni russe, in Ibidem, Opere, 1926-1929, II, cit., p. 175.

[173] Cfr. S. Gentili, Il Partito, cit., p. 70, 75.

[174] Cfr. A. Hӧbel, L’impronta di Togliatti, cit., p. 36, il quale sostiene come Togliatti, già nel 1927, considerasse «la rivoluzione proletaria» come «un processo» che doveva svolgersi con «il concorso delle grandi masse popolari».

[175] Cfr. S. Gentili, Il Partito, cit., p. 75. A. Gramsci, Un esame della situazione italiana, 2 agosto 1926, in Ibidem, La costruzione del partito comunista, 1923-1926, Einaudi, Torino, 1971, pp. 119, 123, considerava impossibile un «passaggio [...] immediato [...] dal fascismo alla dittatura del proletariato» e riteneva anzi che il «problema fondamentale» fosse quello di modulare la strategia del fronte unico sui «problemi concreti della vita nazionale». Sull’«azione di massa» considerata come «condizione essenziale nella lotta contro il regime» e quindi come strategia fondamentale della «nuova politica del partito», cfr. M. Scoccimarro, Sui cinquanta anni, cit., p.377, 378. Sulle «fasi intermedie», cfr. la lettera del 21 marzo 1924, inviata da Gramsci a Togliatti, Scoccimarro, Leonetti, in P. Togliatti, La formazione, cit., p. 246. L. Longo, Tra reazione e rivoluzione. Ricordi e riflessioni sui primi anni di vita del PCI, a cura di C. Salinari, Edizioni del Calendario, Milano, 1972, p. 343, evidenzia come «il problema della ricerca e della conquista di obiettivi intermedi o transitori da cui partire per andare avanti verso [...] battaglie più avanzate, venne posto [...], da Gramsci e dalla nuova direzione [...], nel periodo della crisi Matteotti».

[176] Cfr. P. Spriano, «L’Ordine Nuovo», cit., p. 140; S. Gentili, Il Partito, cit., p. 71.

[177] Cfr. Tesi 30.

[178] Cfr. P. Spriano, «L’Ordine Nuovo», cit., p. 141. Sul nesso tra «partito nuovo», «democrazia progressiva» e «Costituzione repubblicana», cfr. S. Gentili, A. Pirone, Togliatti e la democrazia, bordeaux, Roma, 2014, pp. 72 ss.

[179] Cfr. A. Hӧbel, L’impronta di Togliatti, cit., p. 35.

[180] Le Tesi approvate dal III Congresso del PCdI, furono elaborate da Gramsci e da Togliatti (cfr. sul punto, P. Togliatti, Il Partito comunista italiano, a cura di L. La Porta, Editori Riuniti, Roma, 2020, p. 70; M. e M. Ferrara, a cura di, Conversando con Togliatti, Edizioni di Cultura Sociale, Roma, 1954, pp. 152 ss.).

[181] Cfr. A. Höbel, Prefazione, cit., p. 12. P. Togliatti nel Rapporto al V Congresso del Partito comunista italiano, (Roma, 29 dicembre 1945 - 6 gennaio 1946), in Ibidem, Opere, 1944-1955, V, cit., p. 212, afferma: «Noi siamo [...] democratici in quanto siamo non soltanto antifascisti, ma socialisti e comunisti. Fra democrazia e socialismo non c’è contraddizione». L. Longo, Tra reazione e rivoluzione, cit., p. 355, osserva come nelle decisioni del Congresso di Lione, si trovino le premesse della «nuova concezione» della «via italiana al socialismo», anche se essa maturò «lentamente e non linearmente».

[182] A. Hӧbel, L’impronta di Togliatti, cit., p. 37, pone in evidenza come la lotta per la democrazia fu individuata come il «terreno fondamentale per l’azione dei lavoratori» sia «in chiave difensiva», sia nella prospettiva di una «loro ascesa al potere». Sulla necessità di ampliare «la lotta per la difesa delle istituzioni democratiche» e di trasformarla in «lotta per il potere», cfr. P. Togliatti, Lezioni sul fascismo, Editori Riuniti, Roma, 1978, p. 8. Sul punto cfr. anche Ibidem, Problemi del fronte unico, cit., p. 725.

[183] Cfr. A. Höbel, Prefazione, cit. Sul rapporto tra le riflessioni delle Tesi di Lione sui caratteri della lotta antifascista e le caratteristiche della guerra di «Liberazione» come «rivoluzione popolare (e non più solo proletaria) di carattere antifascista», cfr. Ibidem, L’impronta di Togliatti, cit., p. 36). P. Togliatti nel Discorso alla conferenza delle donne comuniste, tenutasi a Roma dal 2 al 5 giugno del 1945, in Ibidem, Opere, 1944-1955, V, cit., p. 147, osservò come, in quella fase storica, fosse «in corso [...] un profondo processo di rinnovamento» che poteva essere definito come «rivoluzione democratica» perché mirava «a creare un regime del tutto nuovo in confronto non solo del fascismo, ma anche degli ordinamenti che lo precedettero». Egli chiarì che la democrazia costituisce «un governo del popolo nell’interesse del popolo, sotto il controllo del popolo» e che la «rivoluzione democratica» si verifica «quando un governo siffatto viene conquistato attraverso un profondo sommovimento popolare».

[184] Sul nesso democrazia-socialismo e sulla democrazia di tipo nuovo, cfr. G. Ferrara, I comunisti e la democrazia. Gramsci, Togliatti e Berlinguer, Editori Riuniti, Roma, 2017.

[185] Con la svolta di Salerno, esposta nel Consiglio nazionale del PCI (31 marzo - 1 aprile 1944), Togliatti indicò come obiettivo prioritario l’abbattimento del nazi-fascismo e propose pertanto di rinviare la questione istituzionale al periodo successivo alla fine della guerra e di risolverla mediante un referendum popolare sulla forma dello Stato (monarchica o repubblicana) e l’elezione di un’Assemblea costituente per l’elaborazione di una nuova Costituzione.

[186] Cfr. A. Höbel, Prefazione, cit., p. 13.

[187] La politica dei Fronti Unici, ovvero dei Fronti Popolari, fu introdotta dalle «Tesi sulla tattica» presentate da Lenin al III Congresso dell’I. C. (Mosca, 22 giugno-12 luglio 1921), nelle quali sostenne che la rivoluzione non poteva considerarsi prossima e che anzi si prospettava, per la sua preparazione, un lungo periodo, durante il quale emerse in maniera evidente la necessità di alleanze tra le classi lavoratrici. Tale politica venne ribadita dal IV Congresso (Pietrogrado e Mosca, 5 novembre - 5 dicembre 1922) e smentita dal V Congresso (Mosca, 17 giugno - 8 luglio 1924) nell'ambito del quale si ritennero nuovamente presenti le condizioni per una prospettiva insurrezionale e si considerarono dunque superflue le ipotesi delle fasi intermedie e quindi dei Fronti Unici. Le medesime posizioni furono sostenute dal VI Congresso (Mosca 17 luglio - 10 settembre 1928) che, definendo i socialisti come «socialfascisti», ripropose una strategia settaria ed estremista. Le politiche dei Fronti Unici e dei Fronti Popolari furono rilanciate e adottate infine dal VII Congresso (Mosca, 25 luglio - 20 agosto 1935), il quale, dinanzi all’ascesa del nazismo e al pericolo di guerra, affermò la necessità di promuovere alleanze con le altre forze democratiche per combattere efficacemente il nazi-fascismo.

[188] Cfr. P. Togliatti, La politica di unità nazionale dei comunisti, in Ibidem, Opere, 1944-1955, V, cit., p. 32., il quale sostenne che non sarebbe stato possibile sradicare il fascismo e creare un nuovo regime democratico, senza la spinta di un movimento di lotta composto da operai, contadini e intellettuali, il cui obiettivo principale doveva essere quello di pervenire all’adozione di una Costituzione che sancisse la garanzia di «tutte le libertà» (di pensiero, di parola, di stampa, di associazione, di riunione, di religione e di culto), compresa quella «della piccola e della media proprietà di svilupparsi, senza essere schiacciata [...] dal grande capitalismo monopolistico».

[189] Cfr. A. Höbel, Prefazione, cit., p. 13, il quale rileva come «questa ispirazione» fu «largamente recepita» nella Costituzione e continuò a caratterizzare l’impostazione strategica del PCI dalla Liberazione in avanti, ponendo le basi di «una lunga e difficile guerra di posizione».

[190] A. Hӧbel, L’impronta di Togliatti, cit., p. 38, chiarisce come «la prospettiva della democrazia progressiva» lanciata da Togliatti, avesse «dietro di sé [...] una elaborazione quasi ventennale» e si inserisse «in un disegno strategico complessivo, ponendosi come la forma della transizione al socialismo in Occidente». Sulla definizione togliattiana di «democrazia progressiva» come «intreccio di democrazia popolare e di democrazia rappresentativa», cfr. P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. La Resistenza. Togliatti e il partito nuovo, V, cit., p. 390. Sulla concezione della «nuova democrazia progressiva aperta a tutti i possibili sviluppi di progresso sociale e civile», cfr. M. Scoccimarro, Sui cinquanta anni, cit., p. 382. P. Togliatti, L’Italia e la guerra contro la Germania hitleriana, in Ibidem, Opere, 1935-1944, IV**, cit., p. 393, sostenne che «la nuova democrazia italiana» avrebbe dovuto essere costruita «su una vasta rete di libere organizzazioni di massa, di sindacati, di cooperative e di partiti politici antifascisti» e che avrebbe dovuto, da un lato, «garantire tutte le libertà popolari» e, dall’altro, impedire, «con un [...] intervento dello Stato», che i «gruppi plutocratici» potessero sfruttare «il monopolio delle risorse del paese per asservire il popolo intiero e gettare il paese nell’abisso di criminali avventure di guerra».

[191] Cfr. P. Togliatti, Per la libertà d’Italia, per la creazione di un vero regime democratico, (9 luglio 1944), in Ibidem, Opere, 1944-1955, V, cit., p. 76.

[192] A. Höbel, La «democrazia progressiva» nell’elaborazione del Partito comunista italiano, in Historia Magistra, n. 18/2015, p. 64, nt.7, richiama il rapporto presentato da Luigi Longo, nel novembre del 1944, alla Conferenza dei triumvirati insurrezionali del PCI, nel quale si ribadiva, da un lato, come «l’obiettivo dei comunisti» fosse la «democrazia progressiva» e si chiariva, dall’altro, come essa non potesse essere considerata come «un idillio» perché presupponeva «la lotta» delle «classi progressive [...] contro i gruppi più reazionari, [...] e i residui [...] del fascismo». E. Curiel, Perché vogliamo la democrazia progressiva, in l’Unità, 25 luglio 1944, in Ibidem, Scritti 1943-1945, Editori Riuniti, Roma, 1973, p. 117, si osserva come la «democrazia progressiva» non sia un «ordinamento elargito dall’alto», ma una «lotta nella quale le masse popolari acquistano esperienza, maturità e capacità politica».

[193] Cfr. Ibidem, p. 65.

[194] Cfr. P. Togliatti, Rapporto al V Congresso, cit., p. 211.

[195] Cfr. P. Togliatti, Diritti e rapporti sociali, in Ibidem, Discorsi alla Costituente, Editori Riuniti, Roma, 1973, p. 34.

[196] Cfr. P. Togliatti, Rapporto al V Congresso, cit., p. 212, ove afferma: «abbiamo bisogno di una Costituzione che seppellisca per sempre un passato di conservazione sociale e di tirannide reazionaria» e che si ponga come «un programma per il futuro» (p. 197).

[197] Cfr. P. Togliatti, Diritti e rapporti sociali, cit., p. 33, il quale richiama, a tal proposito, i «nuovi diritti» al lavoro, all’assicurazione sociale, al riposo e ad una retribuzione proporzionata alle necessità fondamentali dell’esistenza.

[198] Cfr. P. Togliatti, Rapporto al V Congresso, cit., pp. 211, 212.

[199] Cfr. P. Togliatti, Rapporto al V Congresso, cit., p. 215.

[200] Cfr. P. Togliatti, Diritti e rapporti sociali, cit., p. 34.

[201] Cfr. P. Togliatti, Rapporto al V Congresso, cit., p. 215, il quale riteneva essenziale la «partecipazione democratica dei lavoratori» al processo di elaborazione della programmazione, al fine di garantire l’«interesse di tutti». Sul punto cfr. anche A. Höbel, La «democrazia progressiva», cit., p. 65.

[202] Cfr. P. Togliatti, Diritti e rapporti sociali, in Discorsi alla Costituente, cit., pp. 34, 35 e ivi S. D’ Albergo, Prefazione, pp. XXIII, XXIV.

[203] Cfr. A. Hӧbel, L’impronta di Togliatti, cit., p.40 e p. 39, ove si evidenzia come la prospettiva della democrazia progressiva implicasse una trasformazione della concezione del partito, che da «ristretta organizzazione di propagandisti» doveva trasformarsi in «partito di massa».

[204] Sul «nesso democrazia-socialismo» come «nucleo» della «via italiana al socialismo», che mira a realizzare una profonda trasformazione sia politico-istituzionale, che economica-sociale, cfr. A. Hӧbel, L’impronta di Togliatti, cit., p. 40.

[205] Cfr. M. Scoccimarro, Sui cinquanta anni, cit., p. 385, che definisce «la concezione della via italiana al socialismo» come una «concezione [...] pluralistica [...] della società e della lotta delle classi». A. Höbel, La «democrazia progressiva», cit., p. 68, pone in evidenza come la strategia della «via italiana al socialismo» fu sancita dall’VIII Congresso del PCI (Roma, dicembre 1956).

[206] Cfr. P. Togliatti, Aprire al popolo italiano la via che porta alla democrazia e al socialismo, [gennaio 1947], in Ibidem, Opere, 1956-1964, VI, cit., pp. 866, 867. A. Höbel, L’impronta di Togliatti, cit., p. 45, sostiene che «la questione di una rivoluzione democratica legata a riforme strutturali che aprano la strada al socialismo emerge [...] come un elemento di lunga durata della riflessione e della battaglia politica di Togliatti e del suo partito».

[207] Cfr. P. Togliatti, Diritti e rapporti, cit., in Discorsi alla Costituente, cit., pp. 36, 37 e ivi S. D’ Albergo, Prefazione, p. XXIV.

[208] Cfr. sul punto, A. Hӧbel, L’impronta di Togliatti, cit., p. 40 e Ibidem, La «democrazia progressiva», cit., p. 67. M. Scoccimarro, Sui cinquanta anni, cit., p. 383, osserva come nella «Costituzione repubblicana» siano state «poste le premesse di una democrazia progressiva» che «nessuno» potrà «mai [...] cancellare».

[209] P. Togliatti nel Rapporto all’VIII Congresso del Partito comunista Italiano, in Ibidem, Opere, 1956-1964, VI, cit., pp. 211, 212, pone in evidenza come «le riforme di struttura» non siano «il socialismo», ma costituiscano «una trasformazione delle strutture economiche che apre la strada [...] verso il socialismo». Egli concorda sul fatto che una singola «nazionalizzazione» possa «non significare grande cosa» e anzi possa perfino avvantaggiare «certi gruppi capitalistici», ma osserva tuttavia come la situazione cambi «quando questa o altre misure [...] siano parte integrante di una azione continua [...] per imporre [...] una politica economica che sia a favore dei lavoratori e del ceto medio. [...] Allora anche l’intervento dello Stato nella vita economica può assumere un valore ben diverso da quello che ha quando il governo agisce come puro comitato di affari dei gruppi monopolistici e le forme di capitalismo di Stato non sono che altre forme di subordinazione dell’apparato statale alla volontà e agli interessi dei grossi capitalisti».

[210] Cfr. A. Höbel, L’impronta di Togliatti, cit., pp. 41, 42 e Ibidem, La «democrazia progressiva», cit., p. 65 ove evidenzia come nella riflessione di Togliatti, «la concezione processuale della Costituzione» e la concezione della «democrazia progressiva» costituiscano «due facce della stessa medaglia».

[211] La continuità della matrice culturale ordinovista può essere rilevata anche nell’impostazione data alla Resistenza. A. Höbel, La «democrazia progressiva», cit., p. 62, nt. 2, ripropone infatti un articolo di L. Longo, Comitati di agitazione e Comitati di liberazione nazionale di officina, pubblicato su «La nostra lotta», n. 12/1944, nel quale ritiene che i comunisti sostennero sempre che «il movimento di liberazione» dovesse affondare le sue radici negli «organismi di base» considerati come «forma di autogoverno delle masse» e che le «molteplici forme di organizzazione» dovessero trovare espressione anche nel nuovo regime democratico. Nelle esperienze di autogoverno delle «zone liberate», iniziò infatti a maturare la concezione di un nuovo tipo di democrazia che Longo raffigurò come «una struttura piramidale, fortemente democratica, in cui ogni istanza rappresentativa dà vita ad un’istanza superiore, in modo da garantire partecipazione diffusa, controllo democratico e forme di coordinamento, fino al livello nazionale». Il PCI continuerà a muoversi su tale linea anche nel trentennio successivo, perseguendo l’obiettivo di limitare il potere degli oligopoli e di «passare gradualmente alla collettività il potere di decisione relativo ai più grossi problemi [...] del paese» attraverso «la lotta organizzata» delle classi lavoratrici e la loro effettiva partecipazione ad «una programmazione democratica» che miri «con misure di controllo e [...] di intervento nella sfera delle decisioni economiche [....], a [...] limitare [...] il dominio» delle «leggi del profitto capitalistico» (cfr. P. Togliatti, Programmazione o politica dei redditi?, pubblicato su Rinascita, n. 24 del 13 giugno 1964, reperibile in Ibidem, Da Salerno a Yalta. Vent’anni di lotta politica negli articoli di Rinascita, Edizioni Rinascita, Roma, 1984, p. 270).

[212] Cfr. S. D’ Albergo, “Governabilità” o “trasformazione”? Il nodo dell’ente intermedio nella riforma dello Stato e nella programmazione democratica dell’economia, in Aa. Vv., Quale riforma, Pozzi, Gazzada-Schianno (Va), 1982, p. 84.

[213] Cfr. A. Pesenti, La struttura sociale dell’economia nella Costituzione e lo sviluppo economico italiano, in Studi per il ventesimo anniversario dell’Assemblea costituente, III, Rapporti sociali e economici, Vallecchi, Firenze, 1969, pp. 283, 284, il quale osserva come i Costituenti comunisti consapevoli del significato di questa prospettiva, «non proposero una costituzione di tipo socialista», ma «parlarono [...] di democrazia progressiva». P. Togliatti, Discorsi alla Costituente, cit., pp. 8, 36, 37, chiarisce infatti come il modello di Costituzione proposto dai Costituenti comunisti non fosse quello di una «Costituzione socialista» come quella sovietica del 1936 che si riferiva a conquiste già realizzate, bensì quello di una Costituzione di «democrazia progressiva», la quale mira a realizzare una profonda trasformazione economica e sociale che ponga le premesse per una transizione verso il socialismo. Sul punto, cfr. G. Ferrara, Togliatti, il rivoluzionario costituente, in Ibidem, I comunisti italiani e la democrazia, cit., pp. 84, 85.

[214] Cfr. A. Pesenti, La struttura sociale, cit., p. 280.

[215] Cfr. Ibidem, p. 281, ove si richiamano, in particolare, i «rapporti» e gli «studi» elaborati dalla Commissione economica istituita nell’ambito del Ministero per la Costituente, dai quali emerse «l’alto grado di concentrazione monopolistica raggiunto dal sistema economico [...] sotto il fascismo» e quindi divennero evidenti i danni che tale «rafforzamento del dominio dei grandi gruppi» aveva arrecato «allo sviluppo tecnologico dell’apparato industriale». Sul tema cfr. Rapporto della Commissione economica presentato all’Assemblea costituente, Poligrafico dello Stato, Roma, 1946-1947.

[216] Cfr. Ibidem, p. 287, ove si rileva come dopo il ventennio fascista la «lotta di classe» fosse «riapparsa vivace». La situazione sociale appariva infatti «caratterizzata da aspre lotte contadine contro la grande proprietà assenteista [...] e per la modifica dei contratti agrari» e da una «decisa lotta» della classe operaia «non solo [...] per aumenti salariali e per miglioramenti nelle condizioni di lavoro, ma anche per un aumento del potere di decisione dei lavoratori nell’ambito dell’impresa e per una ricostruzione dell’apparato produttivo in senso democratico».

[217] Cfr. Ibidem, p. 282. Sul tema, cfr., Aa. Vv., I Consigli di Gestione e la democrazia industriale e sociale in Italia. Storia e prospettive, a cura di G. Amari, Ediesse, Roma, 2014.

[218] Cfr. artt. 1; 3, co. 2; 5; 39; 40; 49; 41, co. 3; 43 Cost.

[219] Cfr. A. Pesenti, La struttura sociale, cit., p. 285. La Commissione dei 75 Costituenti, presieduta da Meuccio Ruini, ebbe il compito di predisporre il progetto della Costituzione. Essa era composta dalla I Sottocommissione che aveva per oggetto i rapporti civili, politici e sociali, dalla II Sottocommissione con il compito di delineare l’ordinamento costituzionale della Repubblica e dalla III Sottocommissione deputata alla elaborazione delle norme concernenti i rapporti economici e sociali.

[220] P. Togliatti, Discorsi alla Costituente, cit., pp. 8, 36, 37, chiarì come il modello di Costituzione proposto dai costituenti comunisti non fosse quello di una «Costituzione socialista» come quella sovietica del 1936 che si riferiva a conquiste già realizzate, bensì quello di una Costituzione di «democrazia progressiva», la quale mira a porre le premesse per una transizione al socialismo. Sul punto, cfr. G. Ferrara, Togliatti, il rivoluzionario costituente, in Ibidem, I comunisti italiani e la democrazia, cit., pp. 84, 85.

[221] Cfr. A. Pesenti, La struttura sociale, cit., p. 287.

[222] Sul tema cfr. C. Lavagna, Costituzione e socialismo, il Mulino, Bologna, 1977, p. 63.

[223] Cfr. A. Pesenti, L’impresa economica nella rilevanza costituzionale, in Assemblea Costituente, Atti della Commissione per la Costituzione. Relazioni e proposte, III Sottocommissione, (26 luglio 1946), p. 109, il quale specificò come il «principio della funzione sociale della proprietà» riguardasse anche l’«impresa» e sostenne pertanto come «tutte le forme di proprietà» dovessero essere sottoposte «alle limitazioni» stabilite dalla «politica economica nazionale, si esplichi essa in un piano organico di produzione oppure soltanto in piani di intervento parziali». P. Togliatti, Principi dei rapporti sociali (economici), in, Assemblea Costituente, cit., I Sottocommissione (20 luglio 1946), p. 3, affermò che nella Costituzione si sarebbero dovuti riconoscere «nuovi diritti della persona umana, il cui contenuto è in relazione diretta con l’organizzazione economica della società», i quali per essere effettivamente garantiti richiedono «azione dello Stato» volta a realizzare profonde trasformazioni economiche e sociali» considerate essenziali al fine di impedire ai «gruppi di plutocrati» di concentrare «la ricchezza» nelle loro «mani» e di usarla «per dominare la vita di tutto il paese, per dirigerne le sorti nel loro interesse esclusivo, per appoggiare movimenti politici reazionari, per instaurare [...] tirannidi fasciste, per scatenare guerre imperialistiche di rapina, operando sistematicamente contro l’interesse del popolo, della Nazione».

[224] Cfr. A. Pesenti, La struttura sociale, cit., p. 289, il quale pone in evidenza, tuttavia, come i principi recepiti dagli artt. 41, 43, 44 e 46 della Costituzione, furono più «attenuati rispetto alle proposte fatte nella III Sottocommissione».

[225] G. Ferrara, Riflessioni sul diritto, La scuola di Pitagora, Napoli, 2019, p. 115, osserva come l’art. 3, secondo comma, della Costituzione, contenga «la parafrasi normativa delle conclusioni del secondo paragrafo del Manifesto del 1848 di Marx e di Engels».

[226] Cfr. art. 2 e artt. 4, 32, 33, 40 Cost.

[227] Cfr. P. Togliatti, Principi dei rapporti, cit.

[228] M. Montagnana nell’intervento svolto il 6 maggio 1947 nel corso del dibattito all’Assemblea costituente (cfr. Ibidem, L’intervento dello Stato, in AA. VV., L’Assemblea costituente, 1946-1947. Problemi economici e sociali, a cura di M. Lichtner, Editori Riuniti, Roma, 1974, pp. 56, 57, osserva come le disposizioni del «Titolo III del progetto di Costituzione», superando la concezione liberale dell’economia, sancirono «il diritto» dello «Stato [...] di intervenire per controllare e coordinare, secondo un piano, le iniziative dei singoli nell’interesse della collettività».

[229] Cfr. G. Amendola, Quale programmazione, Rinascita, 30 marzo 1963, in Ibidem, Classe operaia e programmazione democratica, Editori Riuniti, Roma, 1966, pp. 397, 398, il quale afferma che i comunisti sostengono «l’esigenza della programmazione [...] come condizione essenziale di un vasto rinnovamento in senso democratico e socialista della [...] società nazionale. Non si tratta di una pianificazione [...] socialista», ma di «un preciso programma di politica economica» che mira a superare la «situazione caratterizzata dalla subordinazione degli interessi generali della collettività agli interessi del capitale finanziario». Per una ricostruzione delle posizioni assunte dalle forze politiche sul tema della pianificazione nel dibattito all’Assemblea costituente, cfr. S. Bartolozzi Batignani, La programmazione, in Aa. Vv., La cultura economica nel periodo della ricostruzione, a cura di G. Mori, il Mulino, Bologna, 1980, pp. 120 ss.

[230] Cfr. G. Amendola, Obiettivi di una politica di programmazione democratica, (Critica marxista, n. 5-6, settembre-dicembre 1965) in Ibidem, Classe operaia, cit., pp. 606, 609, 612.

[231] Cfr. P. Ingrao, Crisi e riforma del Parlamento, a cura di M. L. Boccia e A. Olivetti, Ediesse, Roma, 2014, p. 32.

[232] Cfr. S. D’albergo, La Costituzione tra le antitesi ideologiche. Dopo il referendum del 2006, Aracne, Roma, 2008, pp. 22, 122. M. Fioravanti, Laterza, Roma-Bari, 2009, pp. 17, 18, chiarisce come la Costituzione abbia attribuito al Parlamento il potere di adottare «grandi leggi organiche» finalizzate a orientare l’azione dei pubblici poteri verso la realizzazione degli obiettivi indicati dall’art. 3, comma 2, che rappresenta «una sorta di indirizzo fondamentale» nel campo delle politiche economiche e sociali.

[233] Cfr. «Programma economico nazionale per il quinquennio 1966-1970» finalizzato al «superamento degli squilibri territoriali e sociali» generati dallo «sviluppo economico» mediante «una politica costantemente rivolta alla piena occupazione e alla più umana e alta valorizzazione delle forze di lavoro».

[234] Cfr. G. Amendola, Quale programmazione, cit., p. 399.

[235] Cfr. Legge 22 dicembre 1956, n. 1589 e specie l’ultimo comma dell’art. 3, il quale prevedeva che entro un anno dall’entrata in vigore della legge, sarebbero dovuti cessare «i rapporti associativi delle aziende a prevalente partecipazione statale con le organizzazioni sindacali degli altri datori di lavoro».

[236] Cfr. A. Pesenti, La struttura sociale, cit., p. 308. G. Amendola, Quale programmazione, cit., p. 399, pone in evidenza come sulla base dell’impostazione della Costituzione, fu avviata «una revisione degli orientamenti e dei criteri» sui quali era stata impostata, nel precedente regime, l’azione delle imprese pubbliche, che furono sciolte dalla «soggezione diretta o indiretta alle scelte operate dal capitale finanziario monopolistico» e gli fu dato un «nuovo inquadramento» idoneo a consentire «al governo e al Parlamento» la possibilità di orientarne l’attività e di esercitare su esse «un efficace controllo». Sulla riqualificazione operata dal nuovo ordinamento delle aziende pubbliche, che il fascismo aveva utilizzato per sostenere il meccanismo di accumulazione della ricchezza privata, cfr. S. D’albergo, La Costituzione tra le antitesi, cit., p. 21.

[237] Cfr. A. Höebel, Il PCI di Luigi Longo (1964-1969), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli-Roma, 2010, p. 59.

[238] P. Togliatti, Programmazione o politica dei redditi?, cit., p. 269, 270.

[239] Ibidem, p. 270.

[240] Cfr. P. Ingrao, Risposta a Bobbio: democrazia di massa, in Id., Masse e potere, Editori Riuniti, Roma, 1977, p. 237, il quale richiama, a tale proposito, l’attuazione dell’ordinamento regionale, la riforma della Rai, la riforma della scuola, l’istituzione del Servizio sanitario, lo Statuto dei lavoratori, la scala mobile, la riduzione dell’orario di lavoro, i permessi retribuiti per il diritto allo studio, la legge sul divorzio, la riforma del diritto di famiglia, l’obiezione di coscienza, la legge sulla chiusura dei manicomi e la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza.

[241] Cfr. M. Gambilonghi, Il PCI e la democrazia industriale. Consigli di fabbrica e partecipazione conflittuale, in marxismo oggi-online, 10/6/2019, pp. 3, 4, il quale osserva come nelle teorizzazioni dei dirigenti del PCI, il controllo operaio e sindacale sugli investimenti, fosse considerato come un «primo momento dell’ascesa delle classi lavoratrici alla direzione dello Stato». Sul ruolo svolto dai Consigli di fabbrica e dai Consigli di zona nella programmazione economica, cfr. P. Ingrao, Risposta a Bobbio, cit., pp. 233, 234.

[242] Sul tema sia consentito rinviare a G. Bucci, Dal governo democratico dell’economia alla crisi come dispositivo di governo, in Riv. AIC, n. 1/2020, pp. 371 ss.

[243] Sui diritti finanziariamente condizionati, cfr. F. Merusi, Diritto contro economia. Resistenze istituzionali all’innovazione economica, Giappichelli, Torino, 2006.

[244] Cfr. S. D’albergo, Società civile e società politica: processi di organizzazione del potere e ruolo delle istituzioni, in Quad. rass. sind., n. 62-63, settembre-dicembre 1976, p. 27, il quale osserva come la programmazione sia «storicamente fallita l’anno stesso in cui nascevano le Regioni», a causa della «pretesa delle forze di centrosinistra di fare della politica di piano un’area riservata all’esecutivo». Si trattava di una prospettiva già affermatasi in epoca centrista, la quale svalutava il ruolo delle Regioni e quello dei sindacati.

[245] Cfr. S. D’albergo, La Costituzione tra democratizzazione e modernizzazione, ETS, Pisa, 1996, p. 114.

[246] Sull’uso di tale espressione, cfr. G. Carli, Lacci e lacciuoli, Luiss University Press, Roma, 2003.

[247] Cfr. Gruppo Di Milano, Verso una nuova Costituzione, Giuffrè, Milano, 1983.

[248] Cfr. M. Gambilonghi, Governare lo sviluppo: il PCI e la programmazione economica negli anni Sessanta, in Materialismo storico, 2017, n. 1, p. 355.

[249] Cfr. Ibidem, p. 356.

[250] V. Legge 5 agosto 1978, n. 468 (mod. con L. n. 362/1988), concernente «Riforma di alcune norme di contabilità generale dello Stato in materia di bilancio».

[251] G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana, a cura di P. Peluffo, Laterza Roma-Bari, 1996, pp. 1-8, 389 ss. e p. 432 ss., pose in evidenza come il Trattato di Maastricht imprimeva un «un mutamento profondo nella costituzione materiale del Paese» perché attraverso l’apposizione di un «vincolo esterno», sottraeva allo Stato i «poteri di sovranità monetaria», costringendo così «gli operatori» di «mercato» a ripudiare i comportamenti inflazionistici». Una prospettiva dunque incompatibile con «l’idea stessa di programmazione economica», che avrebbe dovuto essere pertanto sostituita dalla «politica dei redditi», dalla «stabilità della moneta» e dal «pareggio di bilancio».

[252] Sul contrasto tra i Principi fondamentali della Costituzione e la Legge cost. n. 1/2012 attuativa del c.d. Fiscal compact, la quale ha introdotto il principio dell’equilibrio di bilancio nell’art. 81 Cost., sia consentito rinviare a G. Bucci, Le fratture inferte dal potere monetario e di bilancio europeo agli ordinamenti democratico-sociali, in Costituzionalismo.it, Fasc. n. 3/2012, pp. 46 ss.

[253] Cfr. S. D’albergo, Il diritto forma e articolazione del potere, in Aa. Vv., Studi in onore di Gianni Ferrara, II, Giappichelli, Torino, 2005, p. 138. Per una critica della Legge finanziaria considerata contrastante con l’impianto sociale della Costituzione, cfr. A. Musumeci, La legge finanziaria, Giappichelli, Torino, 2000.

[254] Cfr. P. Togliatti, Memoriale di Yalta, reperibile in P. Ciofi, G. Ferrara, G. Santomassimo, Togliatti il rivoluzionario costituente, Editori Riuniti, Roma, 2014, p. 83.

[255] Cfr. P. Favilli, Il riformismo e il suo rovescio. Saggio di politica e storia, Franco Angeli, Milano 2009, pp. 113 ss. e 139, il quale pone in evidenza come le caratteristiche del «paradigma del nuovo riformismo» siano il «superamento dell’«economia mista», lo «smantellamento del [...] compromesso sociale», la «riforma del capitalismo» intesa come «rivoluzione liberale» e il «passaggio da un welfare fornitore di servizi ad un welfare creatore di mercati». Sul tema cfr. anche L. Michelini, La fine del liberismo di sinistra, 1998-2008, Il Ponte Editore, Firenze 2008.

[256] Cfr. il discorso di L. Paggi tenuto alla Camera dei Deputati, il 31 marzo 2015, per i cento anni di Pietro Ingrao in www.centroriformastato.it, marzo 2015, p. 5. Una versione più breve è stata pubblicata sul manifesto del 31 marzo 2015 con il titolo, A che ora è il comunismo.

[257] Cfr. G. Ferrara, La sovranità popolare e le sue forme, cit., p. 272. Sul tema cfr. anche M. Pivetti, La distribuzione della ricchezza socialmente prodotta, in Costituzionalismo.it, n. 2/2008, p. 3. Sul ruolo degli intellettuali nella diffusione dell'ideologia neoliberista, cfr. S. Amin, I mandarini del capitale globale, Datanews, Roma, 1994; E. W. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Feltrinelli, Milano, 1995; C. Lasch, La ribellione delle élite. il tradimento della democrazia, Feltrinelli, Milano, 1995; P. Bourdieu, Il mestiere di scienziato, Feltrinelli, Milano, 2003; E. W. Said, Cultura e imperialismo, Gamberetti, Roma, 1998.

[258] Cfr. sul tema, V. Giacché, Costituzione italiana contro Trattati europei. Il conflitto inevitabile, Imprimatur, Reggio Emilia, 2015; G. Bucci, Implicazioni dei rapporti tra ordinamento giuridico italiano ed ordinamento comunitario sul ruolo della Banca d’Italia, in Riv. it. dir. pubbl. com., n. 1/1998, pp. 110 ss.

[259] Cfr. M. J. Crozier, S. P. Huntington, J. Watanuki, La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale, Franco Angeli, Milano, 1977, pp. 168 ss.

[260] Cfr. S. D’albergo, A. Catone, Lotte di classe e Costituzione. Diagnosi dell’Italia repubblicana, La Città del Sole, Napoli, 2008, pp. 127 ss. e pp. 230 ss.

[261] Cfr. S. D’albergo, La democrazia sociale tra rilancio e delegittimazione, in S. D’albergo, A. Catone, Lotte di classe, cit., pp. 147, 163.

[262] Cfr. S. D’albergo, A. Catone, Lotte di classe, cit., p. 207. A. Gramsci, Quaderni del carcere, vol. III, cit., p. 1809, osservò come si stesse passando da un sistema di partiti che «elaboravano» nel seno della «società civile» gli «indirizzi politici» e che «educavano [...] gli uomini [...] in grado di applicarli», ad «un regime di partiti della peggior specie» che «operano nascostamente, senza controllo» e sono governati «da camarille e influssi personali non confessabili».

[263] Cfr. S. D’albergo, A. Catone, Lotte di classe, cit., pp. 208, 212.

[264] Cfr. Ibidem, p. 212.

[265] Sul tema cfr. L. Canfora, La trappola. Il vero volto del maggioritario, Sellerio, Palermo, 2013, pp. 23; A. Algostino, La legge elettorale del neoliberismo, in Dem. e dir., n. 2/2014, p. 106.

[266] Cfr. M. Betzu, Mistica della governabilità e sistema delle fonti: La riforma costituzionale Renzi-Boschi, in Costituzionalismo.it, fasc. 3/2015.

[267] Sul «monopartitismo competitivo» come «governo di classe», cfr. D. Losurdo, Democrazia o bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale, Bollati Boringhieri, Torino, 1993, p. 308. Sul bipolarismo introdotto dalle leggi elettorali maggioritarie che coarta le dinamiche politiche democratiche e ostacola la partecipazione, cfr. C. De Fiores, Riforme costituzionali e bicameralismo, in Dem. e dir., n. 1/2014, p. 42; G. Ferrara, Il bipolarismo coatto, in Il Ponte, n. 3/2007, p. 22.

[268] Cfr. S. D’albergo, A. Catone, Lotte di classe, cit., pp. 250, 268.

[269] Cfr. Ibidem, p. 250.

[270] Sulla natura del principio pluralista che costituisce «l’irrinunciabile e solida base di sostegno degli ordinamenti costituzionali odierni» volti a garantire una «società aperta», fondata sull’uguaglianza e sulla solidarietà sociale, cfr. F. R. De Martino, L’attualità del principio pluralista come “problema”, in Riv. AIC, n. 2/2019, pp. 570, 581, 582.

[271] Cfr. D. Losurdo, La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra, Carocci, Roma, 2014, p. 52.

[272] Cfr. S. D’albergo, A. Catone, Lotte di classe, cit., pp. 208, 249, 250.

[273] Cfr. L. Paggi, A che ora è il comunismo, in il manifesto, 31/3/ 2015.

[274] Cfr. M. Scoccimarro, Sui cinquanta anni, cit., pp. 383, 384.

[275] Cfr. Ibidem.

[276] Cfr. S. D’albergo, A. Catone, Lotte di classe, cit., p. 208.

[277] Cfr. M. Scoccimarro, Sui cinquanta anni, cit., p. 386.

[278] Cfr. J. P. Fitoussi, Il dibattito proibito, il Mulino, Bologna, 1997, p. 14.

[279] A. Gramsci, Quaderni del carcere, vol. III, cit., pp. 1602, 1603, definisce la «crisi organica» come «crisi di egemonia o crisi dello Stato nel suo complesso».

[280] Sul tema cfr. C. Schmitt, La dittatura, Settimo sigillo, Roma, 2006; G. Agamben, Stato d’eccezione, Bollati Boringhieri, Torino, 2010.

[281] Cfr. P. Sapelli, L’inverno di Monti. Il bisogno della politica, Guerini e Associati, Milano, 2012, pp. 67, 68, 69, il quale evidenzia come il procedimento di nomina del dictator per affrontare gli stati di emergenza fosse gestito dalla classe patrizia che usava tale figura anche «per regolare i conti aperti con i plebei».

[282] Cfr. D. Losurdo, Democrazia o bonapartismo, cit., pp. 300, 301.

[283] Sulla nuova cultura istituzionale del PDS fondata sul nesso tra riforma elettorale maggioritaria e riforma organica della Costituzione, cfr. M. Della Morte, Partiti e cultura elettorale: considerazioni sul PCI e sulle “condizioni della società italiana”, in Dem. e dir., n. 1 /2021, pp. 198 ss.

[284] Cfr. D. Losurdo, Democrazia, cit., p. 304, pone in evidenza come uno dei sostenitori «del collegio uninominale e del bipartitismo ovvero del monopartitismo competitivo», abbia chiarito «la posta reale oggi in gioco», sostenendo che: «si tratta di aprire i servizi pubblici e quelli sociali [...] alla logica [...] del mercato» e di smantellare lo «Stato sociale in salsa partitocratica» (cfr. G. Bognetti, Tanti programmi per nulla, in Il Sole 24 Ore, 26 marzo 1992).

[285] Cfr. L. Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi, Einaudi, Torino, 2015, p. 88, 188. A. Algostino, Costituzionalismo e distopia nella pandemia di Covid-19 tra fonti dell’emergenza e (s) bilanciamento dei diritti, in Costituzionalismo.it, n. 1/2021, p. 69, osserva come lo Stato abbia ormai abiurato all’obbligo costituzionale di indirizzare e coordinare l’attività economica a fini sociali e, ponendosi in un ruolo «ancillare» rispetto alle «imprese», mette in atto i suoi interventi all’unico scopo di predisporre «un terreno nel quale il profitto possa prosperare».

[286] Sulle cause e gli effetti della crisi economico-finanziaria del 2008, sia consentito rinviare a G. Bucci, Diritto e politica nella crisi della globalizzazione, in Dem. e dir., n. 2/2009, pp. 115 ss.

[287] Cfr. A. Algostino, Costituzionalismo e distopia, cit., pp. 65, 66, che riporta, a tale proposito, vari report elaborati da organizzazioni nazionali e internazionali, che confermano come la crisi pandemica abbia accresciuto «le differenze in termini di lavoro, abitazione, salute, situazione socio-familiare, accesso ad Internet e istruzione» ed abbia colpito «maggiormente [...] le categorie deboli: i soggetti in condizione di vulnerabilità e povertà, i migranti, le minoranze emarginate e i lavoratori più fragili e precari».

[288] Cfr. D. Losurdo, Intervista sul comunismo, a cura di S. Milazzo, in sinistrainrete.info, 24 novembre 2010.

[289] L. Ferrajoli, Democrazia e populismo, in Riv. AIC, n. 3/2018, pp. 516-520, sostiene come le istanze dei populisti siano riuscite ad affermarsi perché sono state considerate come una valida alternativa alla preminenza del potere economico sulla società imposta dalle normative neoliberiste. Sul tema populismo, cfr. Y. Mény, Y, Surel, Populismo e democrazia, il Mulino, Bologna, 2001; M. Prospero, La Costituzione tra populismo e leaderismo, Franco Angeli, Milano, 2007; E. Laclau, La ragione populista, a cura di D. Tarizzo, Laterza, Roma-Bari, 2008; N. Tranfaglia, Populismo autoritario. Autobiografia di una nazione, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2010; A. Illuminati, Populisti e profeti. Istruzioni per l’uso e la disattivazione, Manifestolibri, Roma, 2017; M. Manetti, Costituzione, partecipazione democratica, populismo, in Riv. AIC., n. 3/2018, pp. 375 ss.; M. Revelli, Populismo 2.0, Einaudi, Torino, 2017; Id., La politica senza politica. Perché la crisi ha fatto entrare il populismo nelle nostre vite, Einaudi, Torino, 2019; A. Lucarelli, Populismi e rappresentanza democratica, Editoriale Scientifica, Napoli, 2020.

[290] L. Ferrajoli, L’alleanza perversa tra sovranismi e liberismo, in Costituzionalismo.it, n. 1/2019, p. 1, chiarisce che il «sovranismo» è una «specifica versione del nazionalismo» connessa al «populismo», la quale mira a ripristinare la «sovranità nazionale», considerata come unica via d’uscita dalla «dipendenza» dai «vincoli» europei. R. Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi, Asterios, Trieste, 2019, p. 214, pone in evidenza come i movimenti e i partiti sovranisti conquistino i consensi di «settori di borghesia in via di declassamento», perché riescono a suscitare l’illusione di un cambiamento, mentre si pongono invece al servizio degli interessi degli Stati più potenti (Usa, Federazione Russa). Sul tema, cfr. anche G. Ottaviano, Geografia economica dell’Europa sovranista, Laterza, Roma-Bari, 2019; C. Crouch, Identità perdute. Globalizzazione e nazionalismo, Laterza, Roma-Bari, 2019. Per un’analisi critica del fenomeno leghista e della sua equivoca proposta federalista incentrata sul rafforzamento degli esecutivi e sul primato degli interessi economici delle imprese, cfr. A. Ruggeri, Leghe e leghismo. L’ideologia, la politica e l’economia dei “forti” e l’antitesi federalista al potere dal basso, Quaderni del Centro culturale “Il Lavoratore”, n. 2/1997, Stampa Il Guado, Corbetta, (Mi), 1997.

[291] Sulle differenze tra il «fascismo storico» e i «nuovi fascismi», ambedue «inseriti strutturalmente nei meccanismi di funzionamento dell’accumulazione capitalistica, cfr. M. Lazzarato, Il capitalismo odia tutti. Fascismo o rivoluzione, DeriveApprodi, Roma, 2019, pp. 26-29. Sulla «vittoria del fascismo» come «possibilità con la quale fare i conti» nell’epoca attuale, cfr. P. Dardot, C. Laval, Guerra alla democrazia. L’offensiva dell’oligarchia neoliberista, DeriveApprodi, Roma, 2016, p. 12. Sul fatto che, pur nelle mutate condizioni storiche, possano affermarsi «varianti subdole», ma ugualmente «brutali» del fascismo, cfr. A. Mastropaolo e A. Mastropaolo, Sovranismi, in Costituzionalismo.it, n. 1/2019, p. 103. Sul tema, cfr. anche E. Traverso, I nuovi volti del fascismo, ombre corte, Verona, 2017.

[292] Cfr. I. D. Mortellaro, Di regioni, nazioni e nuovi principati, in Aa.Vv., Stati, Regioni e Nazioni nell’Unione europea, a cura di A. Geniola, I. D. Mortellaro, D. Petrosino, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018, pp.388, 346, il quale sostiene che per uscire dalla crisi occorre porre «sotto la lente dell’osservazione le diseguaglianze», che costituiscono la «fonte primaria dello scasso della politica e della democrazia».

[293] Cfr. D. Gallo, Uno spettro si aggira per l’Europa. Ricostruire il senso della politica per ricostruire il senso della vita, in www. DomenicoGallo.it, ottobre 2021.

[294] Cfr. D. Gallo, Uno spettro si aggira per l’Europa, cit.

[295] Cfr. M. Prospero, È stato bello essere tra i dannati, in www.unoetre.it, 7 dicembre 2020.

[296] Cfr. D. Losurdo, Intervista sul comunismo, cit.

[297] M. Prospero, È stato bello essere tra i dannati, cit., rileva come «la generazione dei quadri del post-sessantotto» abbia trasformato radicalmente il «profilo identitario e culturale» del partito, sicché dall’esperienza del PCI caratterizzata dal «rinnovamento nella continuità», si è pervenuti gradualmente all’odierno «assoluto nulla».

[298] Cfr. M. Prospero, Alla Bolognina si è chiusa la Repubblica, in il manifesto, 21/1/2021, il quale sostiene che «la svolta» si è tradotta in una «metamorfosi» che è «andata oltre la riarticolazione degli scopi», determinando «una sostituzione dei fini». Si rileva, in proposito, come la «generazione politica dei quadri del dopo ‘68» non abbia «mai compreso o assorbito il nucleo del togliattismo che [...] è l'anima autentica del PCI», sicché «il canone del realismo politico», derivante dalla svolta di Salerno, concepita sempre più come un «accomodamento furbesco è stato recepito, ma [...] depurato dalla strategia togliattiana di un cambiamento radicale della società», finendo così col tradursi in «semplici ambizioni di carriera, e gioco tattico per alimentare incentivi di status».

[299] A. Minucci, La crisi generale tra economia e politica, Voland, Roma, 2008, pp. 86, 87, evidenzia come le derive drammatiche dell’epoca attuale confermino la previsione marxiana della «crisi generale».

[300] Cfr. M. Bersani, Europa alla deriva. Una via d’uscita tra establishment e sovranismi, DeriveApprodi, Roma, 2019, pp. 16, 17. A. Gramsci, Quaderni del carcere, vol. III, cit., pp. 1756, 1757, pone in evidenza come «lo sviluppo del capitalismo sia [...] una continua crisi». Sul tema, in riferimento alla situazione attuale, cfr. P. Dardot, C. Laval, Guerra alla democrazia, cit., pp. 11, 21; M. Salvadori, Le ingannevoli sirene. La sinistra tra populismi, sovranismi e partiti liquidi, Donzelli Editore, Roma, 2019, pp. 113, 114; D. Gentili, Crisi come arte di governo, Quodlibet, Macerata, 2018, p. 76.; M. Fisher, Realismo capitalista, Nero Edizioni, Roma, 2018, p. 26.

[301] Sul tema, cfr. G. Azzariti, Il dovere costituzionale della solidarietà, in Aa.Vv., La Costituzione, 70 anni dopo, a cura di C. Smuraglia, Viella, Roma, 2019, pp. 241 e ss.

[302] Cfr. D. Losurdo, Intervista sul comunismo, cit.

[303] Cfr. A. Höbel, La «democrazia progressiva», cit., p. 71.

[304] Cfr. S. Gentili, Il Partito, cit., p. 16.

[305] Cfr. A. Hӧbel, L’impronta di Togliatti, cit., p. 45.

[306] Cfr. M. Revelli, È l’inizio di un lungo braccio di ferro, in il manifesto, 17/5/2020, il quale afferma come i lavoratori abbiano pagato, durante la prima fase della pandemia, un tributo altissimo, in termini di salute e di fatica, negli ospedali e nelle filiere della produzione e della logistica, permettendo al Paese di funzionare e garantendo così condizioni accettabili di esistenza per tutti.

[307] Cfr. A. Algostino, Costituzionalismo e distopia, cit., p. 77.

[308] Cfr. Ibidem, p. 68. A. Schiavone, Progresso, il Mulino, 2020, p. 41, osserva come «il capitale» abbia «unificato il pianeta con la sua vittoria» e come «risultato» abbia «azzerato la percezione [...] della storicità delle forme economiche capitalistiche [...] facendole apparire di nuovo [...] come figure naturali ed eterne [...], quasi che la razionalità capitalistica debba coincidere totalmente e senza margini con la razionalità stessa dell’umano». Un ritorno, quindi, ad una concezione dominante «agli inizi del XIX secolo», prima dell’avvento del «marxismo».

[309] G. Amendola, Obiettivi di una politica, cit., p. 605.

[310] Sulle diseguaglianze e le esclusioni provocate dalla dislocazione sovranazionale del potere, cfr. A. Schiavone, Progresso, cit., pp. 98, 121.

[311] Cfr. A. Schiavone, Progresso, cit., pp. 122, 147, il quale sostiene che lo «scarto» esistente «tra potenza e controllo», sia «uno dei grandi pericoli cui è esposto il nostro mondo», come ha rivelato «la crisi sanitaria», che costituisce una «conseguenza diretta» di tale «dislivello». La globalizzazione ha infatti «unificato l’economia del pianeta», ma non ha, nel contempo, «creato una governance globale di questa inedita “socialità di fusione”», sicché «spazi umani enormi» come il «lavoro», la «formazione», la «salute» e la «cultura» sono stati abbandonati al dominio dei mercati e dei flussi finanziari. In «questo vuoto [...] è nata e si è sviluppata l’epidemia» che «il potere della tecnica» ha reso «fulminea e capillare, moltiplicando all’istante e su scala globale le occasioni di contagio». D. Di Cesare, Virus sovrano? L'asfissia capitalistica, Bollati Boringhieri, Torino, 2020, pp. 12, 26, 88, afferma che la pandemia da Covid-19 non costituisce l'esito di una «catastrofe [...] naturale», ma la conseguenza dei «limiti della governance neoliberale». Sul legame tra la pandemia e la crisi ecologica, provocata dal modello di sviluppo neo-liberista e sulla conseguente necessità di rilanciare «forme di lotta di classe» finalizzate alla creazione di «un nuovo ordine economico», sociale e ambientale, cfr. S. Žižek, Virus. Catastrofe e solidarietà, Ponte alle Grazie, Milano, 2020, pp. 196 ss. Sul tema cfr. anche G. Agamben, A che punto siamo? L'epidemia come politica, Quodlibet, Macerata, 2020; G. Sapelli, 2020. Pandemia e resurrezione, Guerini e Associati, Milano, 2020; S. Maffettone, Il quarto shock. Come il virus ha cambiato il mondo, Luiss University Press, Roma, 2020; E. Mauro, Liberi dal male. Il virus e l'infezione della democrazia, Feltrinelli, Milano, 2020.

[312] Sul «nesso nazionale-sovranazionale» come fattore inscritto nei caratteri strutturali dell’ordinamento della «guerra fredda» e sulla «doppia lealtà» dei «gruppi dirigenti», cfr. F. De Felice, Doppia lealtà e doppio Stato, in Id., La questione della nazione repubblicana, Laterza, Roma-Bari, 1999, pp. 41 ss.; Ibidem, Nazione e crisi: le linee di frattura, in Aa.Vv., Storia dell’Italia repubblicana, vol. III, Einaudi, Torino, 1996, pp. 114, 121. A. Gramsci in Quaderni del carcere, vol. I, cit., p. 458, ha osservato come ai «rapporti interni di uno Stato nazione si intrecciano i rapporti internazionali, creando a loro volta combinazioni originali e storicamente concrete».

[313] Sul supporto teorico fornito dai giuristi democratici, aderenti al Centro per la riforma dello Stato, alle lotte degli anni ’60 e ‘70 per l’attuazione della Costituzione, cfr. S. D’albergo, La democrazia sociale tra rilancio e delegittimazione, in S. D’albergo, A. Catone, Lotte di classe, cit., pp. 129 ss. Sull’esperienza del Crs, cfr. il n. 1-2/2010 di Dem e dir., dedicato ai «Cinquant’anni di Democrazia e diritto».

[314] Sull’enucleazione della nozione di diritto pubblico dell’economia nell’ambito della dottrina pubblicistica italiana, cfr. M. S. Giannini, Le imprese pubbliche in Italia, in Riv. delle Soc., 1958, pp. 727 ss. Sul tema, cfr. anche S. D’albergo, Il diritto pubblico dell’economia nelle vicende storiche del diritto, in Aa.Vv., Studi in onore di Francesco Gabriele, I, Cacucci, Bari, 2016, pp. 411 ss. Sulla necessità di costruire, nella fase della crisi della globalizzazione, un «diritto pubblico europeo dell’economia», ovvero un complesso di principi, istituti e regole capace di garantire i diritti sociali «a prescindere da esigenze di mercato e di stabilità dei prezzi», cfr. A. Lucarelli, Il Modello Sociale Ed Economico Europeo, in Aa.Vv., Dal Trattato Costituzionale Al Trattato Di Lisbona, a cura di A. Lucarelli e A. Patroni Griffi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2009, p. 279; Id. Principi costituzionali europei, politiche pubbliche, dimensioni dell’effettività. Per un diritto pubblico europeo dell’economia, in Rass. dir. pubbl. eur., n. 1/2006, pp. 4 ss.; Id., Scritti di diritto pubblico europeo dell’economia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2016.

[315] Cfr. A. Algostino, Costituzionalismo e distopia, cit. p. 76. G. Azzariti, Diritto o barbarie. Il costituzionalismo moderno al bivio, Laterza, Bari-Roma, 2021, pp. 340 ss., sostiene come usando lo «schema vichiano» del processo storico, l’epoca presente si possa considerare un’epoca che potrebbe preludere ad una «caduta» in una «nuova barbarie», ovvero in una fase di «regresso», che si verifica quando i popoli perdono il senso di «solidarietà» e abbandonano la «dimensione sociale del conflitto» insieme alle «forme istituzionali faticosamente conquistate». L’attuale epoca di «ricaduta nella barbarie» - definita non a caso «nuovo medioevalismo» - potrebbe rappresentare tuttavia anche un «rimedio», potrebbe infatti fornire ai cittadini l’impulso per organizzarsi e riaprire «un nuovo ciclo di lotte per i diritti» finalizzato al «ritorno a forme di governo più civili». Sul tema cfr. anche, Ibidem, Vico e le forme di governo. Una concezione materialistica della storia, in Riv. AIC, n. 4/2018, pp. 614-616, 630-632.

[316] Cfr., G. Amendola, Obiettivi di una politica, cit., pp.606, 609.

[317] Cfr. A. Algostino, Costituzionalismo e distopia, cit. pp. 64, 65. A. Somma, Quando l’Europa tradì se stessa e come continua a tradirsi nonostante la pandemia, Laterza, Bari-Roma, 2021, pp. 178, 182, chiarisce che gli strumenti messi in campo per affrontare l’emergenza sanitaria e la ripartenza economica mostrano «come la solidarietà di cui l’Unione europea è capace abbia una connotazione fortemente egoistica», si tratta infatti di «[...] strumenti concepiti per rafforzarla nella sua essenza di dispositivo neoliberale». La «crisi economica provocata dall’emergenza sanitaria» viene infatti «affrontata con modalità che inaspriscono il vincolo esterno, combinandolo con un deciso ricorso al metodo intergovernativo al fine di meglio realizzare le finalità contemplate dal federalismo di matrice neoliberale: produrre la spoliticizzazione del mercato attraverso la neutralizzazione della partecipazione democratica, in quanto modalità attraverso cui attuare l’esito del conflitto redistributivo». Sull'assetto di governance economico-finaziaria, delineato dai piani adottati per affrontare la ripresa economica che potrebbe sfociare in una revisione dei Trattati e che pare ricalcare lo schema del Semestre europeo, cfr. F. Bilancia, Le trasformazioni dei rapporti tra unione europea e Stati membri negli assetti economico-finanziari di fronte alla crisi pandemica, in Dir. pubbl., n. 1/2021, pp. 43 ss. Sul tema cfr. anche G. De Minico, Il piano nazionale di ripresa e resilienza. Una terra promessa, in Costituzionalismo.it, n. 2/2021, pp. 113 ss.; F. Salomi, Piano Marshall, Recovery Fund e il containment americano verso la Cina. Condizionalità, debito e potere, in Costituzionalismo.it, n. 2/2021, pp. 51 ss.; M. Villone, Rischiamo una governance da oligarchi, in il manifesto, 1/12/2020; M. Gianni, Un piano di resilienza senza anima, in il manifesto, 27/4/2021.

[318] Ibidem, p. 607. è

[319] Cfr. S. D’Albergo, La democrazia politica, economica e sociale tra potere finanziario e «globalizzazione dell’economia» in Fen. e soc,, n. 3/1997, p. 23.

[320] Cfr. G. Amendola, Obiettivi di una politica, cit., p. 606.

[321] Cfr. A. Pesenti, La struttura sociale, cit., p. 306.

[322] Cfr. A. Pesenti, La struttura sociale, cit., p. 306.

[323] Cfr. G. Amendola, Obiettivi di una politica, cit., p. 609.

[324] Cfr. Ibidem, p. 611, il quale afferma come il «controllo democratico dei monopoli» debba investire la loro azione «sotto tutti gli aspetti politici, economici e sociali, dai piani di organizzazione e sviluppo dell’economia, ai rapporti con gli organi dei pubblici poteri, alla scuola, all’assistenza, ecc.» ed «esiga [...] una permanente mobilitazione popolare». A. Algostino, Costituzionalismo e distopia, cit., p. 79, ritiene che la risposta ai problemi posti dalla crisi della globalizzazione si possa ancora trovare nel programma di trasformazione economica e sociale previsto nell’art. 3, co. 2, della Costituzione per la cui attuazione risulta necessario l’intervento di «forze sociali e politiche che lo sostengano» e lo spingano a «invertire la rotta».

[325] Cfr. A. Algostino, Costituzionalismo e distopia, cit., p. 76.

[326] Cfr. A. Höbel, La «democrazia progressiva», cit., p. 71.

[327] Cfr. E. Brancaccio, Non sarà un pranzo di gala. Crisi catastrofe, rivoluzione, a cura di G. Russo Spena, Meltemi, Milano, 2020, p. 185.

[328] Cfr. Ibidem, p. 16.

[329] Cfr. E. Brancaccio, Non sarà un pranzo di gala, cit. p. 209.

[330] Sul tema, cfr. F. Angelini, L’iniziativa economica privata, in Aa. Vv., Il diritto costituzionale alla prova della crisi economica, a cura di F. Angelini e M. Benvenuti, Jovene, Napoli, 2012, pp. 116 ss.

[331] Per i brani richiamati tra le virgolette cfr. E. Berlinguer, La proposta comunista. Relazione al Comitato centrale e alla Commissione centrale di controllo del Partito comunista italiano in preparazione del XIV Congresso, Einaudi, Torino, 1975 e Ibidem, Unità del popolo per salvare l’Italia. Rapporto al XIV Congresso del PCI, Editori Riuniti, Roma, 1975. Ambedue le citazioni sono tratte da A. Höbel, La «democrazia progressiva», cit., p. 71.

 

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