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Floriano Pigni

 

Il vile attentato e la tragica morte di Darya Dugina hanno suscitato ovunque commenti e valutazioni sul pensiero “dughiniano” e sui riflessi politici che il brutale attentato potrebbe avere. Un atteggiamento ricorrente da parte di corrispondenti esteri di giornali europei a Mosca (cito El Pais ma non è l’unico caso) è quello di assegnare la qualifica di “fascista” ad Alexander Dugin. Non difetta, peraltro, l’estensione della qualifica di “fascista”, da parte di varie forze politiche e stampa italiane, a diversi personaggi del variegato mondo della destra conservatrice e reazionaria.

Trovandomi a Mosca, città che frequento da anni con una certa assiduità, mi trovo a volte a dover “spiegare” le vicende russe ad amici italiani e viceversa, le vicende italiane ad amici russi. Entrambe operazioni non facilissime.

Vorrei partire proprio dallo spunto che ha offerto il tweet di El Pais, che parla del “fascista Dugin”, per cercare di fare un po’ di elementare e basica chiarezza. Semplificando moltissimo: una delle definizioni del fascismo (e del nazismo) è stata quella di “dittatura aperta” o “terroristica” della borghesia, la quale elimina e supera, per via violenta, il sistema rappresentativo delle democrazie liberali e blocca a priori ogni possibile sviluppo della società in senso socialista.

Per fare questo si eliminano il multipartitismo e le libertà politiche connesse, si elimina il sindacato sostituendolo con le corporazioni al fine di azzerare il conflitto di classe, si mette in campo una politica estera di tipo espansionistico basata sulla guerra e infine, tratto distintivo, si esaltano la nazione e la razza al punto da prevedere e praticare l’annientamento di popoli e/o componenti etnico-religiose-politiche, anche all’interno dello stesso Stato, ritenuti indegni, sotto-uomini, un pericolo sociale da eliminare in quanto semplicemente appartenente ad una categoria, indipendentemente dal pensiero politico che ciascun singolo membro possa avere. Gli ebrei conservatori, “di destra”, non vennero risparmiati dai nazisti, nessuno si poneva la questione.

Vorrei focalizzare l’attenzione proprio su questo tratto distintivo: oggi noi abbiamo a che fare, nella maggior parte dei casi, sia in UE sia in Russia, con personaggi politici e pensatori della destra conservatrice che proclamano valori tradizionali – la Nazione, la “cristianità” –, ma nessuno di essi promuove una rottura violenta della struttura politica basata sulla democrazia rappresentativa, nessuno di essi prevede politiche di guerra di tipo coloniale o imperiale. Nessuno di essi vuole esportare un “modello” o eliminare intere categorie di persone.

D’altra parte, la destra europea, detta da anni l’agenda della politica in Occidente e non sarà l’epiteto “fascista” a cambiare la situazione. Del resto, proviamo a chiederci: è più fascista un Sarkozy (and Co.) che ha ammazza Gheddafi e sprofonda uno Stato prospero in una catastrofe economica, politica e umanitaria, o un Orban, che detestiamo, che non vuole i rifugiati? È una “bella” gara…

Pensiamo anche a chi ha alimentato lo “Stato Islamico” al fine di abbattere la Siria, luogo dove la Russia ha l’unica base marittima nel Mediterraneo. È forse Putin “fascista” perché interviene
in Siria, peraltro su richiesta del legittimo presidente? Avremmo dovuto preferire uno “Stato islamico” in quella regione solo perché Assad è autoritario? Chi non lo è, in quell’area? E comunque uno Stato islamico integralista sarebbe stato ben peggiore del regime attuale, dove per lo meno da sempre le diverse religioni hanno convissuto in pace totale.

La storia ci insegna che ci sono leader autoritari, dittatori, criminali che vanno bene ed altri che non vanno bene, secondo gli interessi che essi servono, sembra quasi una constatazione banale.

Per Dugin valga la stessa considerazione: egli sostiene la necessità che la Russia ritrovi le proprie radici profonde culturali e spirituali, identitarie, certo. Vuol dire che è un “fascista” tout-court? A sinistra ci allarmiamo subito quando sentiamo la parola “identitario”, pensiamo subito alla destra reazionaria e fascista, forse però abbiamo scordato troppo presto i concetti e l’interazione tra Gemeinschaft e Gesellschaft, tra comunità e società, che non riusciamo più (peccato mortale della sinistra) a tenere assieme sotto la spinta della globalizzazione.

La cancellazione dei tratti distintivi di una nazione, di un popolo, sostituiti progressivamente dall’uniformità (nella scuola le verifiche a “crocette”, all’americana, sono ormai ovunque, anche in Russia), dalla uberizzazione dei rapporti di lavoro, dalla gestione di ogni attività umana tramite “app”, dalla limitazione delle libertà tramite dispositivi elettronici come le chiamiamo? Progresso? Se questo è il progressismo, si prenda atto che una parte significativa di cittadini, ormai, se ne sente minacciata. 

Tuttavia, al di là delle questioni identitarie, emerge sempre più una delle contraddizioni della nostra epoca: tra i sostenitori di un ordine mondiale multipolare, in cui la sinistra marxista e antagonista si colloca, si “incontrano” varie formazioni di estrazione ideologica diversa e, direi, opposta. Vi è un “campo conservatore” che, pur perseguendo sistemi sociali e politici diversi e alternativi alla visione del mondo marxista, “converge”, in linea di principio, con le critiche della sinistra alla globalizzazione capitalistica e con la prospettiva di un mondo multipolare che veda finalmente ridimensionato lo strapotere del blocco atlantista. Compagni di strada, dunque? Non direi così, bensì percorsi diversi che comportano però tappe intermedie condivise, potendo essere il superamento del mondo unipolare, nella visione marxista, un obbiettivo necessario e una prima fase da cui ripartire per rilanciare una nuova idea del rapporto Stato-mercato e, con essa, una nuova interpretazione e progettualità di tipo socialista. Certo, è una lunga marcia. Ma ciò che si dovrebbe intendere per nuova progettualità socialista non può prescindere dalla realtà radicalmente rinnovata dal capitalismo mondialista in questi ultimi anni.

Partiamo da esempi concreti. In Gran Bretagna si sta discutendo da tempo della possibilità di usare il “Green pass” associato al “Social ranking”, ovvero ad una graduatoria sociale che l’individuo ottiene secondo il proprio comportamento. Ad esempio: non hai pagato una multa, sei in ritardo con la rata del mutuo? Il green pass, propedeutico ad ogni operazione, non ti permette di andare al cinema. Sei moroso? Ti blocco. Compri troppi alcolici? Ti aumentiamo il costo dell’assicurazione sanitaria, e via così… Già ora vi sono paesi dove, se hai un debito con lo Stato, anche piccolo e per mera dimenticanza, non puoi espatriare.

Nel frattempo, sono implementate da tempo tutte le tecniche di utilizzo dei nostri dati e comportamenti da parte di quel complesso di controllo delle nostre vite che S. Zuboff ha definito capitalismo della sorveglianza (il mondo web e chi lo controlla, Facebook, Microsoft, Apple ecc.). In pillole: ogni nostro comportamento, ad esempio di acquisto in negozio oppure on line, il sito web che visitiamo, cosa leggiamo sul web, cosa cerchiamo nei motori di ricerca, i nostri “like”, quello che pubblichiamo e scriviamo su Facebook ecc. non solo servono a profilarci come consumatori, per cui diventiamo un target commerciale vendibile a chi volesse farci pubblicità mirata, ma, attraverso opportune elaborazioni algoritmiche, rendono possibile “predire’' i comportamenti futuri (acquisti, gusti, preferenze di vario tipo, politiche comprese) sia per aree sia per categorie di utenti. E la “predizione” diventa prodotto vendibile a chi deve produrre beni di consumo, ma anche “vendere” idee politiche, prodotti culturali, intrattenimento ecc.

Insomma, noi stessi siamo diventati la merce, il nostro comportamento è ciò che forniamo gratuitamente al sistema ogni giorno, e su ciò esso realizza profitti immensi, non restituendo niente agli Stati.

Zuckerberg dunque è fascista? Tecnicamente no. È un “progressista”, probabilmente. E ora chiediamoci: chi, tra Dugin, Orban ecc. e Zuckerberg, ci inquieta di più, o dovrebbe preoccuparci maggiormente? Chi può plasmare maggiormente la nostra mente e orientare le nostre scelte? Forse non abbiamo una risposta, ma in tanti un’idea se la stanno facendo.

Su questi temi, a cui ho accennato, la sinistra e il mondo “democratico” appaiono in ritardo grave, così come sulla elaborazione di un’idea alternativa di società. Come si pone, quale ruolo dovrebbe avere lo Stato di fronte a questi nuovi fenomeni, di fronte al comportamento dei cittadini divenuto nuova “miniera d’oro” assorbita e sfruttata dal mondo web che ne estrae profitti colossali? E che, soprattutto, sarà sempre più in grado di condizionare il pensiero e le scelte? Complessivamente, sembrerebbe di poter dire che la sinistra, in tutte le sue accezioni, abbia un ampio margine di miglioramento su queste problematiche.

Ma torniamo a Dugin. Egli era, fino a prima dell’attentato alla figlia, poco conosciuto al grande pubblico russo, direi più conosciuto al pubblico europeo a cui bisogna fornire la figura del nuovo “Rasputin”, del vero conservatore integralista a cui attaccare l’etichetta di “fascista”, per chiarezza di comprensione da parte della massa di lettori che non devono distinguere tra conservazione, reazione, autoritarismo, fascismo ecc. Più confusione c’è, per il potere, meglio è.

Filosofo dall’aria dostoevskiana e ortodosso rigoroso, appariva in TV su una rete di “secondo livello”, un canale militante “spiritual-nazionalista”, seguito da molti adepti ma non dal grande pubblico. La massa degli spettatori segue i canali TV principali (i giovani quasi solo “i social”) in cui i dibattiti politici sono animati da due grandi figure del giornalismo televisivo russo, Kiseliov e Solovyov. Dugin non era tra gli ospiti dei loro programmi, seguitissimi e basati su temi concreti e attualità politica, ragionamenti di economia, questioni sociali, militari, tanto estero, più che su temi filosofici ed astratti poco adatti al grande pubblico.

Ora tutta al Russia sa chi è. Tutti sono rimasti colpiti dalla morte di una ragazza non ancora trentenne, comunque “impegnata per la Russia”.

Certo, nell’approccio filosofico politico dei Dugin non mancano, a una lettura marxista delle cose, elementi non condivisibili e contraddizioni, come già accennato in precedenza. Come ogni “radicale”, finisce per essere quanto meno manicheo, tutto il bene da un lato, tutto il male dall’altro. Ma, nella sua astrattezza filosofica, Dugin coglie un punto storico reale. La Russia deve decidere cosa vuole essere, a trent’anni dalla fine dell’Urss. Come collocarsi nel mondo, in un mondo, si intende, multipolare. Quindi, il primo problema, l’emergenza della fase, diciamo così, sarebbe come raggiungere un assetto del mondo multipolare, sola condizione per il non annientamento di cultura, tradizioni e valori secolari della Russia. Anche con la forza, se necessario alla sopravvivenza di uno spazio-idea di popolo-nazione. Non una guerra coloniale di tipo “fascista”, dunque, ma una risposta difensiva, l’affermazione di uno spazio fisico e “spirituale” di sopravvivenza e di unità di un popolo. E poi, lo spazio “spirituale”, l’insieme di valori di riferimento che possano fare da argine alla mondializzazione e omologazione del pensiero, dei costumi, dei comportamenti, vero obiettivo di chi considera “mondo” e “mercato” sinonimi, ovvero il capitalismo mondiale di stampo anglo-americano.

D’altro lato, si deve constatare anche la pericolosità della visione dughiniana, che può portare, se applicata all’estremo, ad una guerra “senza compromessi”, totalizzante.

Non possiamo non aggiungere, per dovere di chiarezza, come anche altre forze politiche e sistemi di pensiero totalmente diversi, in Russia, quali ad esempio il Partito Comunista, condividano non solo l’obiettivo del multipolarismo, senza mire espansionistiche o imperialistiche come vuole lo “storytelling” nostrano, ma anche la modalità per attuarlo, forza compresa quando necessario.

D’altro canto, se l’obbiettivo del blocco atlantico fosse – dopo l’eliminazione del patto di Varsavia, il crollo dell’Urss e il tentato smembramento della stessa Russia in più entità statali (operazione non riuscita) – la distruzione della Russia come entità indipendente e la sua assimilazione nell’area di dominio Usa (operazione boccata da Putin, per questo tanto odiato), l’accerchiamento sia militare sia economico della Russia nella prospettiva di un “regime change” o di un crollo di sistema, ben si capisce, vista la situazione da Mosca, come né il Partito Comunista né la leadership al potere e, in fondo, neppure la gente comune, abbia bisogno della filosofia “estremista’' di Dugin per capire che, dopo il colpo di Stato in Ucraina del 2014, si è arrivati ad un punto di svolta storico.

La maggior parte della gente comune in Russa, almeno per la mia esperienza, ragiona così, pur non conoscendo neppure, prima della tragedia della povera Dasha, il padre Alexander. Non si spiegherebbe altrimenti il consenso verso il Presidente, nonostante tutto, che constato essere reale, che questo ci piaccia o meno.

Oserei anche sostenere, sperando di non sbagliare, che chi ha in mano la politica in Russia, il Putin pragmatico che conosciamo nella realtà e non nella narrazione atlantica, tiene in conto tutti i fattori in gioco, più che l’ideologia dughiniana. Che Dugin sia il Rasputin di Putin, sembra francamente una colossale sciocchezza, così come, di conseguenza, l’idea che sia stato il “regime putiniano” a eliminarlo nel timore di qualche forma di concorrenza politica.

Noi, forse, facciamo un po' fatica a seguire questi ragionamenti che, tra l’altro, anch’essi annullano l’analisi di classe, come è davvero fatta la società capitalistica, anche quella russa, come
mitigarne le storture e disuguaglianze, trasformarla ecc. Ma, vista da qui, da Mosca, la priorità del momento non sarebbe la questione sociale, per quanto pesante, quanto la definizione del ruolo storico della Russia, che non vuole invadere nessuno ma che deve tornare a prosperare nel proprio spazio ed in sicurezza, di presenza nel mondo e di collaborazione con chi ritiene opportuno, dall' Asia all’Africa ecc.

L’emergenza di oggi appare dunque una “precondizione” per ogni altro sviluppo. I russi devono, nella visione comune, intanto ritrovare sé stessi, contro una falsa idea di progresso che tutto annienta e tutto assorbe. Questo è ciò che condivide del “dughinisimo”, magari inconsapevolmente, buona parte della società, per necessità storica più che per propaganda ideologia.

Sono certo che molti oligarchi “business-oriented” detestino queste visioni “arcaiche” del mondo. I capitalisti occidentali “progressisti” non sono poi tanto diversi dai loro omologhi russi. A noi presentano un mondo in cui l’Occidente è tutto in un campo e la Russia tutta in un altro. Non è esattamente così, le posizioni sono molto più articolate. Sono i poteri politici a tenerle strette e obbedienti. Fino a quando? Fino a quando la gente, in Ue come in Russia, sopporterà crisi economica, inflazione, perdita dei risparmi, ristrettezze varie, morti in combattimento?? Fino a quando i poteri riusciranno a tenere la gente allineata e coperta? Non formulo risposte, a occhio direi che la Russia è avvantaggiata su questo piano, non solo per l’apparato di controllo mediatico e di sicurezza ma perché sta costruendo una visione del mondo, una visione di sé unificante che a noi occidentali manca invece sempre di più.

Intanto la preoccupazione per la piega che stanno prendendo le cose è altissima. Il problema che si potrebbe porre a breve è se fare la guerra ''sul serio'', impegnando ben altre risorse e mezzi, o se avviarsi verso un congelamento del confitto e l’avvio di qualche trattativa. Nessuno si sbilancia, ma la preoccupazione sale.

L’onda emotiva è alta. Darya Dugina è morta per il suo impegno antiatlantista. Poche ore dopo il suo funerale, l’Occidente (Draghi in prima fila) ha rilanciato l’appoggio all’Ucraina sul progetto di “riprendersi la Crimea”. Irresponsabili e desiderosi di estendere la guerra: la UE di oggi, gli USA di oggi. Un tentativo in tal senso comporterebbe infatti non solo una guerra fratricida in Crimea, ma l’estensione dello scontro in modo incontrollabile, che nessuno può permettersi. Chi è stato in Crimea ed ha parlato con in suoi cittadini sa bene che vogliono stare in Russia, che non si può tornare indietro, che il referendum fu un’espressione di autentica volontà di uscire da troppi anni di vessazione da parte del nazionalismo ucraino, quello sì fascistoide, al punto di dotarsi di milizie di chiara fede nazista. I cittadini di Yalta vogliono conservare il monumento ai Partigiani Sovietici e non permetteranno mai che venga sostituito con un monumento a Stepan Bandera, come è accaduto molte volte in questi anni in Ucraina, specialmente in Galizia.

È ora che anche l’Europa si muova in un altro senso, siamo nel pieno di un gioco al massacro fisico ed economico pazzesco, che può essere foriero di sviluppi drammatici.

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