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Categoria: Saggi
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 Joseph A. Buttigieg

 

[Joseph A. Buttigieg era nato a Malta nel 1947. Professore emerito all’Università di Notre Dame, a South Bend (Indiana), storico, teorico e critico della letteratura, Buttigieg coltivava una grande passione per Gramsci, di cui era uno dei più insigni studiosi. A lui era stato affidato il compito di tradurre i Quaderni del carcere in inglese. Buttigieg era stato, alla fine degli anni Ottanta, con John Cammett e Frank Rosengarten, tra gli ideatori e iniziatori statunitensi della International Gramsci Society (Igs). Della Igs Joe era stato prima segretario, poi presidente, e aveva presenziato a tutti i suoi più importanti appuntamenti internazionali.

È morto il 27 gennaio del 2019. Per ricordarlo ad un anno dalla scomparsa, pubblichiamo la Prefazione da lui scritta per il volume di Lelio La Porta, Antonio Gramsci e Hannah Arendt. Per amore del mondo grande, terribile e complicato, Aracne, Roma 2010.]

Le vite di Antonio Gramsci e di Hannah Arendt furono plasmate, in larga misura, dagli eventi turbolenti del periodo tra le due guerre mondiali, che essi sperimentarono in parti diverse d’Europa. Il disastroso fallimento della democrazia liberale e la presa del potere da parte del fascismo in Italia derubarono Gramsci della sua libertà negli ultimi 11 anni della sua breve vita (1891-1937). Nel caso della Arendt (1906-1975), il collasso della Repubblica di Weimar e l’avvento del Nazismo la costrinsero all’esilio, non solo dalla terra di nascita, ma anche dalla cultura nella quale il suo precoce intelletto era radicato. Non è un caso che i loro scritti — sebbene composti in contesti profondamente differenti — affrontino questioni simili o sovrapposte: la genealogia del totalitarismo, la filosofia politica e pratica, la modernità, il carattere delle rivoluzioni, i movimenti popolari o di massa, ecc. Tuttavia, nonostante queste affinità, quello che maggiormente colpisce quando i due pensieri vengono comparati, è l’immensa divergenza in campo politico e storico. Potrebbe darsi che l’assenza di allusioni a Gramsci nel lavoro della Arendt sia dovuta alla sua consapevolezza che le idee di quest’ultimo fossero così lontane dalle sue da non meritare un impegno serio. D’altro canto, non c’è nessuna ragione per ritenere che la Arendt abbia letto un qualsiasi scritto di Gramsci. Sebbene si possa essere imbattuta nel suo nome e aver letto qualcosa su di lui, è quasi certo che non fosse fortemente motivata ad un’analisi più approfondita del lavoro del comunista italiano. Nella sua prima grande opera, Le Origini del Totalitarismo, la Arendt più o meno equipara il Nazismo e il comunismo. Il marxismo, secondo lei, è un elemento originario nella genealogia del totalitarismo il cui credo nella “legge della storia”, lei spiega, legittimerebbe il terrore. Gramsci ha ripetutamente sostenuto che la storia non segue una legge inesorabile e trascendente ma, piuttosto, è fatta dagli uomini. È improbabile, tuttavia, che la Arendt lo abbia saputo dato che teneva talmente “in gran dispitto” i marxisti per essere a conoscenza delle loro opere teoriche. (La sua ammirazione per Rosa Luxemburg e Walter Benjamin non è un’eccezione in quanto derivava da quegli aspetti del loro marxismo che lei riteneva non–marxisti.) È altrettanto improbabile che la Arendt possa aver pensato che l’analisi del fascismo di Gramsci potesse arricchire la sua comprensione del totalitarismo, visto che non credeva che il regime di Mussolini fosse totalitario: “Comprovano la natura non totalitaria della dittatura fascista”, asserisce in una nota, “il numero sorprendentemente basso e la relativa mitezza delle condanne inflitte agli avversari politici” (H. Arendt, Le Origini del Totalitarismo, Einaudi, Torino 2004-2009, p. 427). Scritta durante la guerra fredda e influenzata dalla sua logica della opposizione binaria, la seconda parte de Le Origini del Totalitarismo ha avuto l’effetto, com’è ovvio non voluto, di dare appoggio alle molto più recenti teorie dei neo–conservatori negli Stati Uniti e a quelle degli storici revisionisti in Italia. D’altro canto Gramsci resta l’uomo nero della destra americana mentre, in Italia, i giornali diffondono storie infondate circa una sua rinuncia al comunismo sul letto di morte.

La caratterizzazione arendtiana del marxismo come un determinismo dogmatico è, inutile dirlo, antitetica alla comprensione gramsciana della “filosofia della prassi”, ed è smentita dagli sforzi di Gramsci, fin dai primi giorni di impegno politico, per disilludere il movimento dalla convinzione che la vittoria finale fosse garantita dalla Storia. Se, come correttamente la Arendt sottolinea, il totalitarismo distilla tutti gli uomini in “un Uomo”, e così facendo esso “eliminerà la capacità dell’uomo di agire” — che per la Arendt è equivalente alla totale negazione della libertà — allora il lavoro di Gramsci come leader e pensatore politico è particolarmente significativo per la sua insistenza sul fatto che il compito primario del partito rivoluzionario moderno consiste nel tirare fuori dagli uomini e dalle donne la coscienza di massa e nell’incoraggiare il loro senso di auto–coscienza e la loro capacità di azione. Agli antipodi della descrizione della Arendt di un marxismo che trasforma le persone in una massa omogenea non pensante, si trova la caratterizzazione della cultura socialista di Gramsci: “È organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità. È conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione di vita, i propri diritti e i propri doveri” (Socialismo e cultura in A. Gramsci, Cronache torinesi 1913-1917, a cura di S. Caprioglio, Einaudi, Torino 1980, p.100). Per condurre uno studio comparativo utile di Gramsci e Arendt, è necessario mettere in forte rilievo le loro vedute inconciliabili sulle caratteristiche fondamentali della teoria e della pratica marxiste. È uno dei tanti meriti dello studio di Lelio la Porta che espone queste fondamentali differenze in modo chiaro e minuzioso. Un altro argomento importante che La Porta mette in primo piano riguarda l’attualità dei lavori di Gramsci e della Arendt. Di interesse particolare a questo riguardo sono le loro analisi critiche dello Stato liberale moderno e dei sistemi politici alternativi da loro proposti. Per Gramsci, lo Stato moderno consiste in un insieme di “rapporti organici tra Stato o società politica e società civile” (A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p. 2288) che, inoltre, incarna e manifesta “l’unità storica delle classi dirigenti” (ivi, 2287). I membri dei gruppi subalterni partecipano alla società civile, ma, dato che sono frammentati e disorganizzati, restano esclusi dal — o ai margini del — sistema politico. La modernità, con la sua trasformazione radicale dei modi di produzione e dell’intero ordine economico, crea le condizioni per i gruppi sociali subalterni per organizzarsi e cercare di influenzare i programmi delle formazioni politiche già esistenti. La crescente coerenza dei raggruppamenti sociali subalterni e dell’articolazione dei loro bisogni e interessi genera “la nascita di partiti nuovi dei gruppi dominanti per mantenere il consenso e il controllo dei gruppi subalterni” (ivi, 2288). Mentre questa situazione si può dire che migliori la possibilità di curare gli interessi e i bisogni da parte dei gruppi subordinati che ricevono grande considerazione nell’arena politica, essa tuttavia perpetua l’assenza dei subalterni dalla società politica. In altre parole, lo strato sociale subalterno non parla per se stesso; altri si assumono il compito di parlare per lui. “Può parlare lo strato subalterno?” si è chiesto Gayatri Spivak in un saggio molto discusso.

Il lavoro di una vita intera di Gramsci fu dedicato precisamente al compito di permettere “nuove formazioni che affermano l’autonomia dei gruppi subalterni” (ivi, 2288) in modo che i subalterni potessero parlare per se stessi, muoversi dai margini al centro, smettere di essere subalterni e diventare protagonisti nella società politica. Questo avrebbe costituito “l’ordine nuovo” che Gramsci progettava.

Per Hannah Arendt niente è più importante della abilità di ogni membro della società di parlare per se stesso o se stessa nell’arena politica. In effetti assimila la libertà autentica (perché positiva) all’attiva partecipazione alla polis. La modernità, secondo lei, impedisce l’attuazione della libertà positiva perché genera solitudine, conformità e apatia. La democrazia rappresentativa, inoltre, allontana i cittadini dalla politica e li rende passivi. Nella visione della Arendt, è pericolosa l’invadenza, che ha accompagnato la ascesa del liberalismo, del sociale nella sfera politica. Nella modernità la politica è stata ridotta a una questione di mezzi e fini, erodendo così o addirittura cancellando l’autonomia del politico. Secondo la Arendt l’azione politica autentica deve trovare un fine in se stessa, fine perseguito in modo disinteressato, e non strumentale. La sua teoria è basata su una definizione della politica che la distingue e la separa da tutte le altre sfere di interesse umano e di attività — compresa l’economia e la società civile. Nel perseguire questa polis ideale la pensatrice non mette in evidenza o propone la costruzione di un “nuovo ordine”, ma un ritorno al passato. Infatti il suo ideale è la democrazia ateniese premoderna, precapitalista e lamenta il fallimento dell’America nel perseguire la visione di Jefferson di una cittadinanza attiva che partecipa ai consigli locali. Dal punto di vista della Arendt, l’America ha tradito la sua stessa rivoluzione. Scrive: “Se lo scopo ultimo della rivoluzione era la libertà e la costituzione di uno spazio pubblico dove la libertà potesse presentarsi… allora le repubbliche elementari delle circoscrizioni, l’unica sede tangibile dove ognuno poteva essere libero, erano in realtà il fine della grande repubblica, il cui scopo principale negli affari di politica interna avrebbe dovuto essere quello di offrire ai cittadini tali sedi di libertà e di proteggerle.” (La tradizione rivoluzionaria e il suo tesoro perduto in H. Arendt, Sulla rivoluzione, Edizioni di Comunità, Milano 1983, p. 294) La Costituzione degli Stati Uniti, tuttavia, privò la gente della felicità e della libertà introducendo un sistema di governo nel quale la delega e la rappresentanza sottraevano al popolo, in quanto detentore del potere, l’esercizio del potere stesso che soltanto a lui appartiene. Una critica costruttiva alla posizione della Arendt dovrebbe prendere le mosse sottolineando che la complessità della modernità, che rende impossibili i governi basati sui consigli locali, non può essere semplicemente ignorata, non importa quanto indesiderabile si possa pensare essa sia. C’è tuttavia un aspetto ancora più problematico nella teoria politica della Arendt, e precisamente la sua insistenza sulla netta separazione delle sfere sociali e private dalla sfera politica. È ironico che le conseguenze indesiderate della Arendt di questa separazione emergano più chiaramente in un articolo che lei scrisse su una delle più importanti battaglie contro la segregazione avvenuta negli Stati Uniti alla fine degli anni cinquanta. L’articolo è intitolato Riflessioni su Little Rock e il periodico, «Commentary», per il quale originariamente era stato scritto, si rifiutò di pubblicarlo. Apparve, con una nota editoriale che esprimeva disaccordo con il suo contenuto, nel periodico di sinistra «Dissent» (6.1 – 1959).

Come emerge dal titolo, l’articolo nasce dalla situazione di drammatica tensione nella Scuola Superiore Centrale Little Rock nella capitale dell’Arkansas nel 1957 — uno degli eventi più importanti nella lotta afro–americana per i diritti civili. Tre anni prima (maggio 1954), la Corte Suprema americana aveva emesso la sua decisione (conosciuta come “Brown contro il Consiglio scolastico”) che non solo dichiarò incostituzionale l’esistenza di scuole segregazioniste, ma ordinò anche la desegregazione di tutte le scuole degli Stati Uniti. La scuola dell’Arkansas progettò un piano di attivazione del processo di desegregazione con l’ammissione di studenti neri nell’anno scolastico che iniziava nel settembre 1957. Nell’attimo in cui i primi studenti neri si preparavano a frequentare la scuola superiore, alcuni cittadini del consiglio (e qui è importante ricordare la visione della Arendt dei consigli come soggetti di “azioni” politiche positivamente finalizzate) fecero sapere che si sarebbero radunati per protestare intorno alla scuola e non avrebbero fisicamente permesso agli studenti neri di entrare nell’edificio. Il governatore dell’Arkansas, Orval Fabius, appoggiò i segregazionisti e mandò sul luogo le Guardie Nazionali dello Stato; i soldati bloccarono gli studenti neri, impedendo loro di frequentare la scuola. Sebbene la desegregazione nella scuola superiore di Little Rock venisse tecnicamente portata a termine nell’ultima parte di settembre, quando il presidente Eisenhower inviò una divisione dell’esercito americano per proteggere gli studenti neri, il conflitto continuò sotto altre forme. I nove studenti neri che avevano forzato le barriere del colore, furono soggetti per molti mesi ad intensi abusi sia fisici che psicologici. Nel suo articolo la Arendt costruisce sorprendentemente un dibattito contro l’applicazione della desegregazione nelle scuole; il nucleo del suo argomentare è che la sfera sociale dovrebbe esser tenuta separata da quella politica: “Un provvedimento antisegregazionista” sostiene, “non può abolire la discriminazione e imporre con la forza l’eguaglianza nella società, ma può, e in effetti deve, rafforzare l’eguaglianza nel corpo politico. L’eguaglianza, infatti, non soltanto ha origine nel corpo politico, ma è qualcosa che vale esclusivamente nella sfera politica. Solo lì noi siamo eguali”. (Riflessioni su Little Rock in H. Arendt, Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino 2004, pp. 175–176) In altre parole, mentre è appropriato per lo Stato intervenire per garantire che i neri abbiano il diritto di voto, la discriminazione nell’istruzione è una faccenda sociale che non può essere né deve essere risolta politicamente. Secondo la Arendt, i cittadini che costituirono il consiglio per bloccare la desegregazione nelle scuole in Arkansas stavano esercitando il loro diritto di associazione libera — un diritto che li avrebbe dovuti rendere immuni dall’intervento coercitivo dello Stato. L’ordine della Corte Suprema di desegregare le scuole e la decisione del governo federale di far rispettare quell’ordine, secondo la Arendt, rappresentarono un pericolo per la struttura politica della Repubblica: “Il punto, qui,” scrive “non è dunque tanto o soltanto il benessere della popolazione nera, ma — perlomeno in una prospettiva di lungo periodo —, la sopravvivenza stessa della repubblica.” (ivi, p. 172) Contrariamente ai timori della Arendt, la repubblica non solo sopravvisse alla desegregazione ma, come hanno dimostrato le recenti elezioni [si riferisce all’elezione di Obama come 44° Presidente degli Usa il 4 novembre del 2008], ha fatto molta strada verso l’attenuazione del razzismo. In Riflessioni su Little Rock la teoria della Arendt dell’assoluta separazione del sociale dal politico acquista la caratteristica di un dogma che è cieco alla complessità del mondo moderno. Se avesse letto Gramsci, sarebbe sicuramente stata d’accordo con la sua visione che, nello stato moderno, la società politica e quella civile sono intrecciate; la fedeltà al suo dogma, invece, la obbliga a codificare la loro separazione. La sua Repubblica ideale garantirebbe ai neri (e a chiunque altro dello strato sociale subalterno) “uguaglianza all’interno del corpo politico”, ma non adotterebbe misure contro le ingiustizie private e sociali di cui sono vittime. Nelle sue note sull’istruzione, Gramsci si dilunga sul bisogno di fornire coloro che sono governati del tipo di formazione intellettuale che li renderà in grado di governare. Il timore più grande dei consigli cittadini che resistettero fortemente alla desegregazione delle scuole in Arkansas e in altri luoghi era legato all’acquisizione del potere politico da parte dei neri (così come di ebrei, cattolici, e svariati “altri”). Per la Arendt questo rappresentava una minaccia minore al benessere della repubblica rispetto all’insistenza dello Stato sull’uguaglianza dell’istruzione — che, dopo tutto, è la precondizione necessaria per l’uguaglianza di opportunità, non solo nella sfera economica, ma anche nell’ideale polis periclea della Arendt.

Come chiarisce Lelio La Porta, uno studio comparativo di Gramsci e della Arendt rivela non solo le profonde, peraltro inconciliabili, differenze che separano le loro teorie politiche e le loro rispettive visioni dello stato moderno, ma è anche un correttivo necessario alla nozione semplicistica che l’esule tedesco sia un pensatore più democratico del marxista sardo.

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