Fabio Marcelli*

 

  1. Premessa

Le recenti vicende dell’Afghanistan e più in generale il netto ridimensionamento che sta subendo la Superpotenza statunitense, sembrano, secondo vari commentatori, richiedere una maggiore assunzione di responsabilità da parte europea nel contesto di una presunta governance mondiale. La riflessione al riguardo appare estremamente disomogenea. Taluni sono giunti, in modo alquanto ridicolo a dire il vero, ad invocare la necessità delle forze militari europee di continuare a presidiare Kabul nonostante il ritiro delle truppe statunitensi. Altri hanno rilanciato, in modo alquanto confuso, la necessità per l’Unione di disporre di una forza d’intervento rapido di alcune migliaia di elementi ben addestrati e ottimamente equipaggiati ed armati. Non è ben chiaro per fare cosa.

Nel frattempo i governi europei continuano ad equipaggiarsi di droni, l’ultimo grido in fatto di tecnologie belliche, nonostante la pessima prova che tali ordigni telecomandati stanno fornendo in Afghanistan ed altrove.

Al di là degli evidenti limiti dell’attuale classe dirigente europea, ammesso e non concesso che tale pomposa denominazione possa applicarsi al coacervo di politici e burocrati che operano in modo quasi sempre del tutto autoreferenziale a Bruxelles, Strasburgo e dintorni, la questione non è poco di conto.

L’emergere di una dimensione sempre più chiaramente multipolare nella comunità internazionale comporta in effetti la necessità di approfondire il ruolo che l’Unione europea può svolgere in tale ambito. A condizione tuttavia, sia detto fin da subito con estrema chiarezza, di sbarazzarsi completamente di taluni limiti sia di tipo concettuale, che normativo che materiale. Vasto programma, come evidente.

Giova, al riguardo, effettuare preliminarmente una ricognizione che abbia per oggetto le norme giuridiche esistenti nei Trattati istitutivi, come pure talune dottrine di tipo politico ed economico oggi ancora condivise dalla grande maggioranza delle forze politiche europee ed anche talune situazioni di fatto oramai da tempo consolidate che esercitano una fortissima influenza sulle scelte, e sulle non scelte, che quotidianamente l’Unione europea è chiamata a fare in un contesto internazionale in rapida e per certi versi incontrollabile evoluzione. Successivamente sarà preso in considerazione il ruolo della NATO che, seppure solo parzialmente formalizzato da un punto di vista squisitamente giuridico, costituisce di fatto da tempo il ferreo involucro che avvolge le scelte europee in materia di relazioni internazionali. Mi dedicherò quindi ad esaminare un altro fattore, ancora meno classificabile come giuridico ma di forte e immediata rilevanza concreta, che è costituito dall’industria degli armamenti presente in forze in praticamente tutti gli Stati europei.

Effettuata tale, per molti aspetti dolente, ricognizione sull’esistente e sui forti vincoli che hanno sempre impedito l’esistenza di una politica estera europea degna di questo nome, saranno sottolineate alcune opportunità offerte dalla presente realtà multipolare che sta emergendo all’interno della comunità internazionale nel suo complesso. Si tratta come evidente di un primo abbozzo di idee che dovranno essere più compiutamente sviluppate ma che devono far parte della riflessione complessiva sull’Unione europea, i suoi limiti, le sue potenzialità e il suo destino.

  1. La cornice normativa della politica estera europea

E’ anzitutto necessario risalire alle disposizioni dei Trattati che abbiano a che fare in qualche modo colla politica estera europea, esprimendo taluni riferimenti significativi a una visione, com’è opportuno dire in questo più che in altri casi, del mondo.

La cornice normativa della politica estera europea è alquanto arzigogolata e complessa. Bisogna anzitutto analizzare le disposizioni di carattere generale contenute nel Capo I del Titolo V del Trattato sull’Unione europea che contiene i principi e gli obiettivi di carattere generale cui deve ispirarsi la politica estera dell’Unione europea.

L’art. 21 di tale Trattato elenca tali principi, di carattere estremamente generale, che sono nell’ordine: a) democrazia; b) Stato di diritto; c) universalità e indivisibilità dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; d) rispetto della dignità umana; e) principi di uguaglianza e di solidarietà e f) rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale.

L’Unione si propone il compito ambizioso di promuovere tali principi nel resto del mondo, oltre che, si spera, sul suo territorio, ma anche la formulazione dei mezzi attraverso i quali attuare tale azione di apostolato internazionale rimane del tutto vaga, aprendo spazi pericolosissimi alla dottrina dell’esportazione di democrazia e diritti umani manu militari che com’è noto costituisce da tempo immemorabile il principale pretesto delle guerre imperialiste e che nei decenni più recenti è stata spudoratamente recuperata dall’amministrazione statunitense, coi risultati catastrofici visti da ultimo in Afghanistan ma in precedenza anche altrove.

Anche a prescindere da tali dottrine estreme, correntemente praticate con esiti di questo genere e risultati diametralmente opposti a quelli ipocritamente invocati, la politica estera europea appare il più delle volte in netto contrasto colle finalità altisonanti proclamate nell’articolo appena citato. Basti citare le scelte concrete da tempo attuate nel settore delle migrazioni, in quello del debito estero, in quello del cambiamento climatico o da ultimo in quello della tutela brevettuale dei vaccini necessari a combattere la pandemia COVID.

Un elemento positivo presente in questo primo comma dell’art. 21 è il riferimento al quadro delle Nazioni Unite come sede, ma non l’unica, per promuovere soluzioni multilaterali ai problemi comuni.

Tuttavia, il quadro delle finalità della politica viene ulteriormente complicato dal successivo secondo comma dell’art. 21. Basti in questa sede richiamare l’attenzione sul primo alinea di tale comma, a norma del quale “L'Unione definisce e attua politiche comuni e azioni e opera per assicurare un elevato livello di cooperazione in tutti i settori delle relazioni internazionali al fine di salvaguardare i suoi valori, i suoi interessi fondamentali, la sua sicurezza, la sua indipendenza e la sua integrità”. I valori altisonanti di cui sopra vengono quindi equiparati ai valori propri dell’Unione, che potrebbero anche non coincidere totalmente con quelli richiamati dal comma 1, e soprattutto a una serie di altre finalità di carattere tradizionalmente geopolitico. Trattandosi di un soggetto come l’Unione europea, espressione di alcuni dei Paesi che hanno esercitato per secoli un dominio pressoché incontrastato a livello internazionale, si tratta di finalità che, a una fredda analisi si traducono nella necessità di mantenere in qualche modo questo predominio.

E’ con tale necessità o comunque, pur non volendo sottostare alla malevola interpretazione appena suggerita, con quella di preservare ad ogni modo interessi fondamentali, sicurezza, indipendenza e integrità dell’Europa che devono commisurarsi anche gli ulteriori nobili propositi enunciati dai successivi alinea del secondo comma dell’art. 21, relativi ancora una volta a democrazia, Stato di diritto, diritti dell’uomo e principi del diritto internazionale, pace e sicurezza internazionale, sviluppo sostenibile ed eliminazione della povertà, integrazione di tutti i paesi nell’economia mondiale, qualità ambientale e gestione sostenibile delle risorse, aiuti nei confronti delle calamità, rafforzamento della cooperazione multilaterale e buon governo mondiale.

In buona sintesi un enorme guazzabuglio di intendimenti e propositi che contiene un po’ tutto e il contrario di tutto, lasciando margini di manovra enormi alle autorità politiche dell’Unione e, soprattutto, a quelle degli Stati membri.

Questi ultimi infatti sono chiamati, dal successivo art. 26, comma 3, a attuare la politica estera e di sicurezza così come definita da Consiglio europeo e da Consiglio. I successivi artt.27-31 illustrano e definiscono le rispettive competenze dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica estera e di sicurezza comune, Consiglio e Stati membri. Importante sottolineare la circostanza che in linea di massima Consiglio europeo e Consiglio deliberano all’unanimità o, in una serie di casi abbastanza puntualmente definiti, alla maggioranza qualificata, consentendo tuttavia anche in tal caso a un singolo Stato membro di impedire l’adozione della decisione per “specificati e motivi di politica nazionale” (art. 31).

  1. Il ruolo della NATO

Il ruolo della NATO, la cosiddetta Alleanza occidentale, risulta fondamentale, specie dal punto di vista della costituzione materiale dell’Europa. Le indicazioni provenienti da Washington, che riguardano la partecipazione ad imprese militari comuni, come ad esempio in Afghanistan, ovvero a sanzioni decretate unilateralmente, le cosiddette misure unilaterali coercitive, come ad esempio quelle attuate nei confronti di Cuba, Venezuela e Nicaragua, vengono accolte senza battere ciglio da parte dei governi europei e di conseguenza da parte dell’Unione nel suo complesso. La subalternità nei confronti delle scelte statunitensi costituisce un enorme limite al possibile sviluppo di una politica estera europea autonoma.

Alla NATO è dedicato il secondo comma del punto 2 dell’art. 42 del Trattato dell’Unione europea secondo il quale: “La politica dell'Unione a norma della presente sezione non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri, rispetta gli obblighi di alcuni Stati membri, iquali ritengono che la loro difesa comune si realizzi tramite l'Organizzazione del trattato del Nord-Atlantico (NATO), nell'ambito del trattato dell'Atlantico del Nord, ed è compatibile con la politica di sicurezza e di difesa comune adottata in tale contesto”.

Al di là del manifesto understatement tale sibillino testo implica chiaramente la detta subordinazione della politica di sicurezza e difesa comune alle scelte della NATO, dato che non taluni ma tutti, colle eccezioni di Austria, Finlandia, Irlanda e Svezia, i Paesi membri dell’Unione europea ne fanno parte e che è la difesa comune a dover essere compatibile colla politica di sicurezza e difesa comune adottata nel contesto NATO e non viceversa.

Un elemento di forte rilevanza, al riguardo, è costituito dalla peculiare trasformazione subita dalla NATO coll’adozione, nel corso del Vertice dei Capi di Stato e Governo svoltosi a Lisbona il 19-20 novembre 2010, di una nuova dottrina strategica che ha visto la definitiva formalizzazione di una notevole estensione del campo d’azione dell’Organizzazione che viene a comprendere “le nuove minacce alla pace e alla sicurezza internazionali, quali la proliferazione dei missili balistici (par. 8), la proliferazione di armi di distruzione di massa (par. 9), il terrorismo internazionale (par. 10), le crisi regionali (par. 11), i cyber attacchi (par. 12), la sicurezza energetica (par. 13), lo sviluppo di nuove tecnologie, come le armi al laser, l’armamento elettronico e le tecnologie che impediscono l’accesso allo spazio (par. 14), le questioni ambientali, tra cui i cambiamenti climatici e la diffusione delle malattie infettive (par. 15). Inoltre, fenomeni come la pirateria marittima, il crimine organizzato, il riciclaggio di denaro, il commercio illegale di droga, la tratta di esseri umani, seppur non espressamente citati nel NCS, sono strettamente collegati alle minacce elencate nel documento di Lisbona”.

Si tratta di un elenco molto ampio e suscettibile di ulteriori ampiamenti, dato il rapido incedere delle sfide alla sicurezza che emergono dal funzionamento incontrastato degli stessi devastanti meccanismi del capitalismo neoliberista e della finanza internazionale e dalla riprovevole tendenza a trovare risposte di tipo militare alle relative problematiche. La storia peraltro, in questo caso come in altri, è maestra di vita e la storia della NATO non è per nulla una storia apprezzabile, trattandosi di uno strumento, non solo militare ma anche e soprattutto politico, volto negli anni della Guerra fredda, fino al 1989, al supporto del predominio statunitense sull’Europa occidentale e del resto del cosiddetto mondo libero, e votato in seguito a rappresentare uno dei bracci operativi del tentativo, oggi chiaramente fallito, di un nuovo ordine internazionale basato sull’incontrastata egemonia di Washington sul pianeta nel suo complesso.

Fallito tale tentativo devono oggi aprirsi nuove strade per tutelare la pace e rilanciare la cooperazione internazionale, ma è evidente come la NATO remi contro. Occorre quindi essere estremamente chiari sul fatto che l’approccio della NATO è in evidente rotta di collisione coll’esigenza del mantenimento della pace e del rafforzamento della cooperazione internazionale di fronte alle sfide globali che si ripropongono con forza e drammaticità crescenti, dalle pandemie al riscaldamento globale.

Una buona testimonianza di questa triste realtà è costituita dalla risposta del Segretario generale della NATO Stoltenberg a una giornalista in apertura del recente Vertice dell’Organizzazione svoltosi a Bruxelles il 14 giugno 2021:

“China is not our adversary, and we need to engage with China on important issues, as climate change, or for instance the situation in Afghanistan, or arms control, and other issues.

At the same time, the global balance of power is shifting, with the rise of China, and we have seen a course of behavior by China, not least in the South China Sea. We have, we have seen, and we see that they are investing heavily in new modern military capabilities, nuclear capabilities, long-range missile systems, submarines. China already has the second largest defense budget in the world, they already have the largest navy in the world. And they don’t share our values, they are cracking down on democratic protests in Hong Kong, persecuting Uyghurs and all the minorities in their own country. So, the rise of China poses challenges for NATO Allies, and we need to respond to that together as an Alliance. The interesting thing is that, you know, in the strategic concept we agreed for NATO in 2010, which is the current strategic concept, China is not mentioned with a single word.

The first time, Heads of State and Government in NATO addressed China at all, was at our Summit in December in London in 2019, so 18 months ago; that’s the first time. At this Summit, Leaders will :formulate a common position on China, also taking into account the need to stand together also when it comes to responding to the security consequences of the rise of China”[1].

Si noti come il buon proposito iniziale venga rapidamente cancellato dalla necessità di riequilibrare una bilancia degli armamenti presuntamente sconvolta dalle recenti scelte cinesi in materia (senza menzionare il fatto che il budget militare statunitense è di gran lunga superiore), dall’esistenza di valori diversi da quelli occidentali colla presunta persecuzione di Hong Kong, Uyguri ed altre minoranze e dalla necessità di aggiornare il menzionato Concetto strategico del 2010 introducendovi espressamente la menzione della Cina come nuova minaccia cui far fronte.

Tale presa di posizione di Stoltenberg, eufemismi e ipocrisie a parte, appare ancora una volta fortemente esemplificativa della necessità della NATO di procedere, come ogni strumento bellico che si rispetti, individuando di volta in volta nemici e minacce cui fare fronte. Tale individuazione risulta inoltre ancora una volta condizionata da quella effettuata dal suo azionista di maggioranza che è il governo di Washington, oggi uscito a fatica e solo per il momento dalla tempesta trumpiana, per ribadire ancora una volta, con Biden e Blinken, i più tradizionali ma a ben vedere oggi del tutto impraticabili fondamenti dottrinali e politici dell’egemonia statunitense sul mondo. A tale retriva e obsoleta impostazione risulta irrimediabilmente assoggettata anche l’Unione europea la cui subordinazione nei confronti della NATO è chiaramente sancita dall’art. 42 appena citato.

  1. La vergognosa posizione assunta dal Parlamento europeo contro Cuba

Non c’è solo la NATO, tuttavia, a spingere a destra la politica estera europea. Determinate forze politiche che risultano attualmente purtroppo maggioritarie nel Parlamento europeo perseguono lo stesso scopo. Tali forze politiche hanno adottato, in modo reiterato, risoluzioni contro Cuba che esprimono il peggiore retaggio neocolonialista, giustificando i timori di un uso del tutto strumentale dei valori di cui parla il Trattato, interpretati in modo del tutto tendenzioso e branditi come armi per tentare di intervenire negli affari interni cubani, approfittando della situazione di disagio e difficoltà determinata dal dilagare della pandemia COVID, che fa vittime anche a Cuba nonostante i vaccini predisposti e somministrati in tempo record, e soprattutto dal permanere, da oltre sessant’anni, del bloqueo statunitense che impedisce al governo cubano approvvigionamenti essenziali e scelte di sviluppo nell’interesse del popolo.

Si noti lo schizofrenico atteggiamento dell’Unione e dei suoi Stati membri che, se da un lato costantemente condannano il bloqueo in sede di Assemblea generale delle Nazioni Unite, dall’altro esprimono, e lo fanno mediante quello che dovrebbe costituire l’organismo diretta espressione dei popoli europei, e cioè il Parlamento europeo, una risoluzione che condanna la presunta repressione in atto contro il popolo cubano e le presunte violazioni dei diritti umani in cui sarebbero incorse le autorità cubane, invocando sanzioni contro Cuba ai sensi del cosiddetto Magnitsky Act[2].

Degna di nota la risposta della presidente del Parlamento cubano, Yolanda Ferrer, che ha negato ogni legittimità alla presa di posizione del Parlamento europeo, sostenendo che la violazione dei diritti umani dei Cubani ha origine nel bloqueo statunitense e che il Parlamento europeo non possiede alcuna autorità morale per pronunciarsi in merito a ciò che accade a Cuba, avallando fra l’altro menzogne e voci sprovviste di fondamento[3]. Palese l’intento di destabilizzare Cuba che unisce oggi le peggiori destre europee, purtroppo maggioritarie all’interno del Parlamento, alle peggiori destre statunitensi e internazionali.

Si può aggiungere che le reiterate prese di posizione contro Cuba del Parlamento europeo su proposta della destra assumono carattere di profonda e maramaldesca ingratitudine alla luce dell’importante contributo recato dai sanitari cubani della Brigata “Henry Reeve” alle popolazioni italiane (a Crema e a Torino) e spagnole nel peggiore momento della pandemia COVID, rappresentando d’altronde in questo senso anche la negazione delle più elementari e ovvie esigenze di cooperazione internazionale a tutti i livelli, dalla ricerca all’intervento sul campo, sulla questione. Si tratta quindi a ben vedere dell’altra faccia della medaglia del pervicace e protervo rifiuto europeo di mettere in discussione i brevetti sui vaccini i cui ingenti proventi stanno beneficando in modo smisurato le grandi corporations chimico-farmaceutiche, mentre impediscono, a detrimento dell’umanità nel suo complesso, un’efficace lotta contro il virus. In ultima analisi si tratta quindi di due manifestazioni della stessa malattia ideologica, il neoliberismo, che assume i tratti ancora più inquietanti del neocolonialismo e del fascismo. Ben comprensibile, quindi, che l’animosità neoliberista si rivolga in modo talmente brutale e sfacciato proprio contro Cuba, che del neoliberismo costituisce la negazione viva ed operante.

Considerazioni analoghe a quelle appena svolte a proposito di Cuba valgono del resto per l’atteggiamento europeo nei confronti di altri Stati latinoamericani, quali il Venezuela, tuttora sottoposto a sanzioni pesantissime che promanano direttamente dall’Unione, come pure del costante tentativo della stessa Unione di operare indebite ingerenze nei suoi affari interni, giunto fino al punto di riconoscere a lungo un personaggio del tutto privo di credibilità e di sostegno popolare come Guaidò. O quali la Bolivia, laddove l’Unione europea, all’unisono cogli Stati Uniti, ha espresso preoccupazione e condanna per l’arresto della politica golpista Jeanine Añez, autrice con altri di un colpo di Stato costato molte vittime civili e la sospensione per un lungo periodo dei diritti democratici nel Paese.

  1. L’industria degli armamenti

Quello dell’industria degli armamenti costituisce uno snodo fondamentale nell’ambito del discorso che stiamo sviluppando. Infatti, il complesso militare-industriale esistente nei principali Stati europei presenta varie caratteristiche di estrema importanza per gli orientamenti della politica estera europea. In primo luogo, infatti, detti complessi si presentano strettamente collegati fra di loro e con quello statunitense, venendo a costituire un ulteriore fattore di subalternità europea nei confronti di Washington. Per altri aspetti, peraltro, l’esistenza nei principali Paesi europei di autonomi complessi militari-industriali dipendenti dai rispettivi governi per poter espandere le proprie sfere di mercato e attrarre la domanda internazionale proveniente da altri Stati, rappresenta un elemento di innegabile concorrenzialità nelle scelte relative alla politica estera che si somma ad altri elementi che spingono nella stessa direzione.

Occorre ricordare che qualche anno fa cinque tra i quindici principali produttori armamenti erano europei. Si trattava delle industrie BAE Systems, EADS, Finmeccanica, Thales e Safran[4]. Si tratta di un giro d’affari enorme pari secondo alcune stime a 149 miliardi di dollari dal 2000 al 2020. Si è coagulato, attorno a tale strepitosa quantità di denaro, un vero e proprio complesso militare-industriale, dotato di commessi viaggiatori che in genere sono politici trombati o in procinto di esserlo e che si riciclano in lucrosi incarichi a vantaggio dei venditori di morte.

I recenti forti dissapori emersi tra Francia, da un lato, e Australia, Regno Unito e Stati Uniti, dall’altro, relativamente all’acquisto di una sostanziosa partita di sottomarini nucleari costituiscono una buona dimostrazione dell’importanza del tema e della sua notevole propensione a costituire occasioni di divergenze tendenzialmente anche strategiche fra gli Stati. E’ vero che in questo caso i dissensi emergono tra uno Stato che fa ancora parte dell’Unione e altri che o non ne fanno più parte o non ne hanno mai fatto parte, ma è evidente come situazioni analoghe potrebbero riproporsi anche tra membri dell’Unione.

Occorre inoltre riflettere sul collegamento tra tali aspetti collegati alla promozione delle industrie nazionali e multinazionali degli armamenti, da un lato, e gli indirizzi strategici della politica estera dall’altro. Si consolidano in tal modo pericolosissimi intrecci di interesse tra governanti autoritari, si tratti di Egitto, Arabia Saudita, Israele, od altri Paesi, settori di industria, non solo di armamenti, finanza internazionale e raggruppamenti politici più o meno formalizzati. Tutto ciò produce un forte deterioramento della qualità della democrazia, anche all’interno dell’Unione, in una negazione dei diritti umani delle popolazioni vittime di guerre e di repressioni e l’impossibilità concreta di perseguire i fini magniloquenti pur enunciati nel Trattato istitutivo dell’Unione europea. Si tratta a ben vedere, inoltre, della concreta realizzazione del neoliberismo rispetto alla realtà della politica estera europea nell’epoca del dominio della finanza che vede nella produzione di armamenti una garanzia di successo e di accumulazione di un capitale tendenzialmente illimitato.

In aperta contraddizione colle sue finalità proclamate, in effetti, l’Unione europea, mediante la sua potente industria degli armamenti, sostiene governi che si rendono oggi protagonisti e colpevoli di crimini di guerra, crimini contro l’umanità, aggressioni, apartheid, gravissime violazioni dei diritti umani. Parliamo di Israele, oggi sub iudice alla Corte penale internazionale per i crimini in Cisgiordania e a Gaza. Parliamo di Arabia Saudita, che da anni è fortemente impegnata in una guerra d’aggressione contro lo Yemen. Parliamo di Egitto, il cui governo presieduto dal generale Al Sisi si è reso colpevole di migliaia di sparizioni, omicidi politici e detenzioni arbitrarie per impedire la nascita di ogni movimento di opposizione politica e sociale. E parliamo anche di Colombia, Paese nel quale sono oramai centinaia i leader sociali, gli ex combattenti delle FARC e i semplici manifestanti uccisi negli ultimi anni da organi dello Stato o forze paramilitari legate alla destra al governo.

E’ ovvio quindi che nessuna politica estera europea che sia effettivamente volta alla promozione di pace, diritti umani e democrazia sarà mai possibile senza rimuovere l’enorme ostacolo costituito dal complesso militare-industriale europeo.

  1. Conclusioni

E’ noto come, sul piano della politica estera, gli Stati europei non abbiano per nulla e mai rinunciato alla loro specifica identità individuale, frutto di un’evoluzione storica plurisecolare, e conducano di conseguenza proprie politiche estere, ispirate altresì alla realizzazione dei propri specifici interessi che quasi mai coincidono con quelli dell’Unione nel suo complesso, che è costretta a limitarsi a enunciazioni astratte e di principio prive di ogni possibilità di influire sulla realtà. Stante tale base materiale la politica estera europea continuerà a costituire una creazione del tutto fantasmatica, frutto di provvisori e temporanei compromessi tra i vari interessi che entrano in gioco.

Per avere una politica estera europea degna di questo nome occorre quindi mettersi alla ricerca di un fondamento più solido.

Dati i condizionamenti di carattere materiale rilevati, il diritto internazionale, che come abbiamo visto è menzionato tra i fondamentali principi di riferimento della politica estera europea, viene costantemente negato, nella pratica applicazione di tale politica che, come accennato, ha davvero ben poco a che vedere colle finalità pur affermate dal Trattato. Al tempo stesso tuttavia, il diritto internazionale può costituire un mezzo per superare le divergenze e rappresentare quindi un architrave non solo normativo ma anche politico per reindirizzare le scelte internazionali dell’Unione, trasformandola da mero fantasma in realtà operante.

La stringente necessità di operare un adeguamento della politica estera ai principi del diritto internazionale va del resto di pari passo con quella, altrettanto stringente, di tenere conto, nella formulazione dei suoi principi e delle sue dottrine, della nuova realtà multipolare emergente delle relazioni internazionali.

In sintesi, una politica estera europea degna di questo nome non è mai esistita, per effetto di vari vincoli di fondo costituiti dai riferimenti ideologici e materiali del neoliberismo, dalla subalternità nei confronti delle istanze cosiddette atlantiche e dall’esistenza di approcci storicamente differenziati, spesso divergenti e a volte contrapposti tra i vari Paesi che fanno parte dell’Unione.

La presente crisi di egemonia della superpotenza statunitense offre oggi la possibilità di mettere a punto finalmente una politica estera europea a condizione di superare i vincoli e le frammentazioni indicate, utilizzando a tale fine il diritto internazionale come faro orientativo. Ciò comporterà peraltro la necessità di una battaglia dura e di lunga durata all’interno dell’Unione e dei vari Paesi che la compongono.

 

* Dirigente di ricerca e direttore facente funzione dell’Istituto di studi giuridici internazionali del CNR. Presidente del Centro di ricerca ed elaborazione per la democrazia-Gruppo d’intervento giuridico internazionale (CRED-GIGI).

Una versione ridotta del presente scritto è stata destinata a un volume curato da Ernesto Screpanti per “Il Ponte”.

[1] NATO - Opinion: Opening speech by NATO Secretary General Jens Stoltenberg at NATO 2030 @ Brussels Forum, 14-Jun.-2021.

[2] TA MEF (europa.eu).

[3] Cuba Rejects New Spurious Resolution by European Parliament - Agencia Cubana de Noticias (acn.cu)

[4] L’Unione Europea delle armi | Essere Sinistra (wordpress.com).

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