Osvaldo Coggiola * 

 

Quella in corso è una guerra per riconfigurare la politica internazionale di un mondo capitalista in crisi e decadenza.

La guerra in Ucraina è l’espressione del trasferimento della crisi mondiale dal terreno economico e politico a quello bellico, e avrà ripercussioni nel mondo intero, anche militari, a cui nessun paese potrà sottrarsi, e da cui nessuna forza politica potrà lavarsene le mani, dichiarandosi neutrale o difendendo una posizione “equidistante”. Sebbene la Russia appaia come l’“aggressore”, il clima politico della guerra è stato accuratamente preparato dai principali media occidentali, premendo sui rispettivi governi, al punto in cui un ricercatore australiano ha concluso, alla vigilia del 24 febbraio, che “il progetto per un’invasione sembra essere già stato scritto, e non precisamente dalla penna del leader russo. I pezzi sono tutti al loro posto: l’ipotesi dell’invasione, la promessa attuazione delle sanzioni e limiti nell’ottenimento di finanziamenti, oltre a una decisa condanna”.

Poco o niente è stato detto da parte dei principali media occidentali sul fatto di come si è espansa l’alleanza sotto la sigla della NATO, dopo lo scioglimento e dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991, espansione avvenuta ogni volta in modo più minaccioso per la Federazione Russa, quale principale stato succeduto all’ex federazione di nazioni che costituivano l’URSS.

Gli stessi Usa che puntano all’estensione della NATO fino agli stessi confini della Russia, mirando, dietro pressioni e ricatti militari, alla penetrazione dei propri capitali in tutto il territorio ex sovietico, hanno annunciato poco prima una forte ripresa della propria crescita economica simultaneamente al maggior bilancio militare della propria storia, due fatti che sono intimamente connessi. All’inizio del 2014 Victor Yanukovych, governante molto vicino alla Russia, è stato defenestrato in Ucraina in un episodio noto come “Euromaidan”. La rappresaglia russa è stata la riconquista della Crimea, territorio ceduto dall’URSS all’Ucraina nel 1954. In seguito all’annessione della penisola le forze separatiste nell’est dell’Ucraina, nelle regioni a maggioranza russa, hanno rafforzato la loro richiesta di indipendenza. Prima che fosse possibile la riduzione del territorio od anche l’autonomia di queste regioni, il nuovo governo ucraino, guidato da Volodymir Zelensky, ha recuperato il progetto di formare la NATO nel suo paese.

Antecedentemente 13 paesi, quali Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria (1999), Estonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia, Romania, Bulgaria, Slovenia (2004), Albania, Croazia (2009), e Montenegro (2017) hanno aderito alla NATO da allora stabilizzatasi. L’assedio ad occidente è quasi concluso, ora è tempo dell’accerchiamento da sud, tramite Ucraina, Georgia, Moldavia e possibilmente Azerbaigian, che hanno già presentato la loro candidatura. L’operazione sta intanto facendo passi da gigante verso Oriente, con i paesi dell’Asia centrale che sostengono, almeno per il momento la loro potente vicina Russia, mentre servono anche gli interessi dell’altro gigante vicino, la Cina. Washington accusa Mosca da mesi di aver dislocato portaerei e truppe al confine russo. L’adesione dell’Ucraina alla NATO conduce immediatamente al dispiegamento di testate nucleari sul proprio territorio, secondo l’agenda geopolitica: un missile nucleare potrebbe cadere su Mosca nel giro di pochi minuti. In altri termini, una situazione in cui un’arma nucleare carica sarebbe puntata al cuore della Russia. Questa macchina da guerra è ciò che minaccia in primo luogo il futuro dell’umanità in Europa e in Asia. Di fronte all’attacco russo l’Economist, storico portavoce del grande capitale, sostiene che la NATO approfitta della circostanza per occupare tutta l’Europa dell’Est, indipendentemente dai limiti fissati dagli accordi precedenti.

La responsabilità dell’invasione militare in Ucraina è quindi unicamente dalla parte della NATO, che si è espansa dall’Atlantico del Nord fino all’Asia Centrale e ha militarizzato tutti gli stati confinanti con la Russia. I due mesi di discussione dall’inizio della mobilitazione delle truppe in Russia, poi in Bielorussia fino ai mari Baltico, del Nord e Nero si sono conclusi, prima dell’invasione, in uno stallo totale. Stati Uniti e Unione Europea si sono rifiutati di sottoscrivere l’impegno a non incorporare l’Ucraina nella NATO, a smilitarizzare gli stati confinanti con la Russia e riattivare il trattato che riguardava la riunificazione dell’Ucraina come repubblica federale. Come conseguenza, in primo luogo, è scoppiata una guerra proprio per l’estensione della NATO in tutto il mondo. L’identica procedura sta avvenendo in Estremo Oriente dove Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda e Giappone hanno stabilito un accordo politico-militare alle porte della Cina. La NATO, già 14 anni fa, ha occupato l’Afghanistan, quale corridoio tra Medio Oriente e Estremo Oriente. Quindi ha partecipato allo smembramento della Libia e armato le cosiddette formazioni islamiche per destituire il governo siriano. Adesso, i governi della NATO hanno attuato sanzioni economiche, inclusa la sospensione, da parte del governo tedesco, della certificazione del gasdottto Nord Stream 2, che avrebbe dovuto trasportare la fornitura del gas russo per l’appunto in Germania.

Il boomerang ucraino è l’espressione più profonda della politica imperialista (non solo Usa) mondiale, anticipata dalla ritirata vergognosa dall’Afghanistan, dal disastro in Libia (“una merda”, secondo le testuali parole di Obama) e, soprattutto, in Iraq. Ridurre tutto ciò a un episodio di una riformulazione geopolitica internazionale, favorevole al potenziale blocco Cina-Russia contro il tradizionale dominio occidentale, sarebbe un approccio unilaterale, ignaro del contesto della crisi capitalista mondiale, dell’insieme dei fattori politici internazionali posti in gioco, e perfino delle dimensioni storiche interne al conflitto. Dietro le operazioni aggressive promosse dagli Usa, si intravvedono le precarie condizioni di ripresa economica statunitense che non nascondono le condizioni di crisi del capitalismo più forte del pianeta. Nel terzo trimestre del 2021 il debito pubblico Usa ha superato 28 migliaia di miliardi $, o il 125% del Pil del paese: il governo americano ha enormemente aumentato il debito pubblico e, in condizioni di crisi sanitaria, non ha imposto tasse alle grandi imprese per coprire i costi della crisi. La promessa democratica del salario minimo a 15 $ l’ora è stata abbandonata, mantenendo la cifra precedente a 7,25 $. Il bilancio militare statunitense è stato incrementato a 720 miliardi di $, il più alto in assoluto dalla seconda guerra mondiale (nonostante il disimpegno degli Usa in Afghanistan). In materia di lavori pubblici l’amministrazione Biden, con il sostegno repubblicano, ha approvato un preventivo che favorisce le grandi imprese di costruzione.

Va ricordato che è proprio negli Usa che la pandemia da coronavirus ha provocato il più alto numero assoluto di decessi al mondo: più di 820.000 entro la fine del 2021. Nonostante l’estrema gravità della situazione, Biden non ha intrapreso alcuna azione che entrasse in conflitto con gli interessi di Big Pharma. Nello stesso tempo, la concentrazione del capitale è aumentata come mai nella storia: Apple è diventata la prima azienda nella storia a raggiungere un valore di 3 migliaia di miliardi di $; in 16 mesi il valore di Apple è aumentato del 50%. Nel 2021 i cinque maggiori big tech (Apple, Google, Amazon, Microsoft e Facebook-Meta) hanno raggiunto insieme il valore delle azioni di 9,3 migliaia di miliardi di $ (hanno superato già le dieci migliaia di miliardi di $). Durante la pandemia queste aziende sono state le più preparate a trarre profitto dal “lavoro a distanza”.

Nella ripresa di atteggiamenti apparentemente simili a quelli della “guerra fredda”, gli Stati Uniti sfruttano le contraddizioni nelle politiche dei governi di paesi precedentemente sottratti al dominio imperialista dalle rivoluzioni socialiste. Cina e Russia sono andate avanti sulla via della restaurazione capitalista dopo gli eventi del 1989-1991. Presi dalle contraddizioni del processo di restaurazione, questi paesi stanno ora affrontando un’escalation della pressione militare, economica e politica imperialista per imporre loro, con ogni mezzo, la totale sottomissione, frammentazione, e per imporre loro un nuovo tipo di colonizzazione imperialista, mascherata da “cambiamento di regime democratico”. Questi regimi non sono né capaci né disposti a sconfiggere l’offensiva imperialista, cercano un compromesso improbabile e un accomodamento impossibile con l’aggressore nemico dei loro popoli, in nome della “cooperazione internazionale”, della “multipolarità”, un “accordo mangia-mangia”, tutti gli avatar delle vecchie formule fallite della “coesistenza pacifica” e del “socialismo in un solo paese”.

In Kazakistan, ex repubblica sovietica, i clan reclutati dalla vecchia burocrazia hanno scatenato una repressione nel recente “gennaio sanguinante”, con oltre 160 morti, migliaia di feriti e 10.000 arrestati. Il Kazakistan è il paese più ricco dell’Asia centrale. Leader mondiale nella produzione di uranio, possiede anche grandi giacimenti di petrolio, gas naturale, carbone, minerali, grandi quantità di metalli preziosi quali manganese cromo, potassio, titanio o zinco. Durante il periodo in cui c’era ancora l’Urss, il reddito di questa ricchezza, estratta in gran parte dai deportati dai gulag, veniva incamerato dai massimi dirigenti della burocrazia. Dopo il 1990, il clan Nazarbayev ha continuato a ingrassare vendendo lo sfruttamento di queste risorse alle multinazionali, numerose nel paese. Mentre la maggior parte della popolazione sopravvive con salari miseri nelle città e le campagne sono lasciate al sottosviluppo, una ricca oligarchia – alcune delle fortune del paese sono nelle classifiche mondiali – esibisce uno stile di vita lussuoso. Una feroce dittatura preserva questi privilegi, controlla da vicino la popolazione, bandisce i sindacati e le organizzazioni indipendenti, soffoca ogni libertà democratica e interviene con estrema violenza ogni volta che si verifica una protesta.

Non siamo di fronte a una nuova “guerra fredda”, contrapposta al capitalismo e al socialismo “reale” (o addirittura immaginario). E paragonare l’“espansione etnica” della Russia guidata da Putin all’espansione altrettanto “etnica” di Hitler verso i Sudeti cechi e l’Austria nel 1938, come hanno fatto i media mainstream, significa semplicemente dimenticare che quest’ultima è stata esplicitamente appoggiata dalle potenze occidentali nella Conferenza di Monaco dello stesso anno. La somiglianza è dunque solo formale. La resistenza russa alla NATO getta una luce sulla potenziale disintegrazione della Russia, velata dalla sua “espansione”. La dissoluzione dell’Urss, promossa dalla burocrazia guidata da Boris Eltsin, cui è seguito Putin, ha rappresentato un passo verso la disgregazione nazionale. L’integrazione russa nel mercato mondiale ha provocato una battuta d’arresto delle sue forze produttive e della sua economia. Putin ora affronta la guerra come difensore degli interessi dell’oligarchia capitalista russa, ripulita da alcuni elementi mafiosi e beneficiaria di questo processo, contro il capitale mondiale.                                                                                                                

Il regime politico in Russia è un’espressione della tendenza dissolvente esistente nella Russia “capitalista”: ha instaurato una sorta di bonapartismo che cerca di soggiogare le insormontabili contraddizioni sociali e nazionali della Federazione Russa nella stretta della repressione politica e della militarizzazione. Le forze armate russe possono occupare l’Ucraina, ma il sistema russo, economicamente molto indebolito, non è in grado di resistere alla pressione dell’imperialismo capitalista mondiale. L’inevitabile frattura del bonapartismo di Putin ripropone l’alternativa della dissoluzione nazionale. La Russia è un agglomerato di nazioni che storicamente hanno assunto la forma di uno stato zarista sotto la pressione di altre potenze, comprese quelle vicine. La rivoluzione bolscevica cercò di superare queste contraddizioni con la creazione dell’Urss, come libera associazione di nazioni e con la promozione della rivoluzione internazionale (vale la pena ricordare che, nei dibattiti del tempo, Rosa Luxemburg si oppose con veemenza alla concessione dell’indipendenza nazionale all’Ucraina, ex territorio dell’Impero – avendo persino ospitato la sua capitale, Kiev –una posizione tutt’altro che isolata). La possibile annessione odierna dell’Ucraina, diretta o celata, per integrare lo spazio della Comunità delle Nazioni Indipendenti gestito dalla Russia è un’operazione imperialista del territorio immediatamente vicino, che moltiplica le contraddizioni degli annessionisti.

Ignorare questa dimensione della crisi, considerandola “anacronistica”, in nome della “geopolitica internazionale” o di qualsiasi altra disciplina simile, significa ignorare che Putin vi ha fatto riferimento in modo molto esplicito alla vigilia dell’attacco all’Ucraina, anche nelle interviste a giornalisti occidentali, che avevano adottato un tono aggressivo in difesa della “sovranità nazionale” dell’Ucraina. “L’Ucraina moderna è stata interamente creata dalla Russia o per maggior precisione dai bolscevichi, dalla Russia comunista. Questo processo si è iniziato praticamente poco dopo la rivoluzione del 1917, e Lenin e i suoi associati lo fecero in modo assolutamente duro per la Russia, separando, tagliando quella che storicamente era terra russa. Nessuno ha chiesto ai milioni di persone che ci vivevano cosa ne pensassero” – sono state le sue parole. Tutta la discussione di Putin sulla storia, dall’istituzione dell’Urss nel 1922 al suo crollo nel 1991, è stata un’argomentazione per un obiettivo poco chiaro, la rifondazione della Federazione Russa sulla base dei confini della Russia zarista. Superato il trauma del collasso nazionale, le classi dirigenti russe stanno ora volgendo lo sguardo verso i vecchi confini dell’Urss che più o meno corrispondevano al territorio dell’Impero zarista.

Ad eccezione della Finlandia, della Polonia e dei tre paesi baltici, tutti i popoli dell’Impero zarista hanno deciso di mantenere il nuovo stato fondato sulla base della rivoluzione d’ottobre del 1917. Tutto il territorio della Russia zarista e quello dell’Unione Sovietica era più o meno delle stesse dimensioni. Putin desidera ardentemente ristabilire i confini non dell’Unione Sovietica ma della Russia da tempo immemorabile. E’ una menzogna se si dice che il desiderio di Putin è quello di ristabilire l’Unione Sovietica, dato che lo stesso discorso dimostra ampiamente che Putin è ostile all’Urss e la vede, quasi come tutti i leader della classe dirigente russa, come una deviazione transitoria dal corso della storia russa. Putin aspira a una riedizione della Russia zarista senza zar. A tale scopo inventa una narrazione storica che, per ora, si limita alle relazioni tra Russia e Ucraina, ma non c’è dubbio che, in caso di successo nel caso dell’Ucraina, l’establishment russo si estenderà ad altri territori ex zaristi. Nelle contraddizioni internazionali sollevate da questa politica e dalle sue formulazioni ideologiche, lo sfollato Donald Trump e lo squilibrato Jair Bolsonaro cercano naturalmente di trovare la loro collocazione.

L’epicentro della crisi, tuttavia, si trova nello stesso sistema imperialista. La crescente inadeguatezza della Nato nei confronti delle precarie relazioni internazionali è diventata evidente quando le sue operazioni militari sono culminate in ripetuti fallimenti, rivelando una contraddizione storica più acuta. La dissoluzione dell’Unione Sovietica e l’apertura della Cina al mercato mondiale sembravano annunciare un’eccezionale espansione del capitalismo, ma le successive crisi mondiali hanno mostrato limiti insormontabili: la contraddizione tra il monopolio finanziario e militare degli Stati Uniti da un lato, e il suo ritiro sistematico sul mercato mondiale dall’altro. Nella NATO l’imperialismo statunitense ha avuto scontri più frequenti con i propri alleati, nelle operazioni internazionali, come in Iraq, non potevano più fare affidamento su “coalizioni internazionali”. Nella crisi ucraina, la Russia ha negoziato separatamente con quattro o cinque governi quali: Stati Uniti, Germania, Francia e perfino la stessa Turchia e Ucraina. La guerra in Ucraina accentuerà, prima dietro le quinte e poi alla luce del sole, la disgregazione dell’apparato politico-militare occidentale.

Sullo sfondo della crisi bellica ci sono le contraddizioni dell’accumulazione capitalistica e la rivalità tra i grandi capitali e tra gli stati che li rappresentano. Le sanzioni economiche della Nato contro la Russia sono il rovescio della cosiddetta “globalizzazione”. Misure economiche “eccezionali” vengono adottate da paesi che temono di essere coinvolti in una grande guerra commerciale. La guerra crea la minaccia di uno spostamento del commercio internazionale e della finanza, già minati dagli effetti che le catene di produzione internazionali hanno subìto nel contesto pandemico. Il governo di Putin ha intrapreso le operazioni militari sotto la pressione di un vicolo cieco strategico, nello stesso modo in cui la NATO ha cercato questo risultato e ha insistito per provocarlo come unica via d’uscita. La Russia è sotto il dominio di una oligarchia e di una burocrazia senza altro titolo oltre la sua recente ascesa ed espropriazione della proprietà statale, un capitalismo razziatore che il capitale internazionale vuole sostituire in modo assoluto o relativo a proprio vantaggio.

Il motivo della discordia e della guerra non è l’indipendenza dell’Ucraina, quella attuale è una guerra per la riconfigurazione politica internazionale di un mondo capitalista in crisi e decadenza. Politicamente, invece, l’internazionalismo proletario è assente. La presenza, in questa crisi mondiale aggravata, di una strategia internazionalista dei lavoratori, a difesa di una pace basata sulla sconfitta delle provocazioni militari imperialiste, nella prospettiva della libera associazione e complemento di popoli e nazioni, dipende da un dibattito internazionale che la sinistra, se è coerente, deve urgentemente promuovere per condurre a una strategia antimperialista e anticapitalista, indipendente dalle burocrazie e dalle oligarchie neocapitaliste, e unificata in tutto il mondo.

 

* Professore ordinario presso il dipartimento di Storia dell’USP; autore, tra gli altri, di Teoria economica marxista. Traduzione dal portoghese di Carla Filosa.

 

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