Gianfranco Pagliarulo

 

Pubblichiamo la prefazione, scritta dal Presidente dell’ANPI Gianfranco Pagliarulo, all’ultimo libro di Nunzia Augeri (La resistenza in Europa 1939-1945, NulloDie Editori 2024) sulla resistenza antinazista esercitata dai popoli di 17 paesi europei, dalla Norvegia alla Grecia, dalla Francia alla Polonia, più la resistenza ebraica e quella dei gitani, nonché l’opposizione nella stessa Germania. Una lotta che ebbe in comune la volontà di opporsi all’occupazione militare nazifascista, alla negazione dell’identità nazionale, alla violenza e all’oppressione, ma fu anche lotta politica per la riconquista delle libertà fondamentali e per il progresso politico e sociale.

“Se durante la guerra andò costituendosi, nei discorsi, un’unità della resistenza intorno agli stessi ideali universali, di fatto le resistenze in Europa si affermano prima di tutto come fenomeni nazionali cui si uniscono, al di fuori dell’ambito statale, differenti movimenti transfrontalieri di combattenti clandestini oltre a posizioni comuni rispetto alle aspirazioni prettamente europee”.

Con queste parole la storica francese Alya Aglan introduce il saggio dedicato alla Resistenza europea, nell’ambito dell’opera collettiva «1937-1947; la guerre monde», pubblicato in Italia nel 2016 da Einaudi: sono affermazioni che restituiscono con chiarezza la difficoltà degli studiosi a inquadrare le diverse sfumature e le varie implicazioni di un fenomeno complesso e sfaccettato come l’opposizione al nazismo e al fascismo nel Vecchio Continente, differenziato, senza dubbio, nella dimensione nazionale, ma riconducibile a unità nella comune volontà di opporsi, in tutti i modi possibili, all’occupazione militare nazifascista e alla riduzione di stati sovrani a una condizione di vero e proprio vassallaggio, alla distruzione violenta di ordinamenti spesso secolari, alla negazione dell’identità nazionale e all’oppressione economica e sociale. E senza alcun dubbio, la lotta per riconquistare l’indipendenza nazionale – nell’ambito della quale spesso maturò la guerra civile per debellare il collaborazionismo manifestatosi, anch’esso con modalità differenziate, all’interno dei territori occupati dalle truppe dell’Asse – fu il tratto comune e, si potrebbe dire, il carattere originario della Resistenza europea; ma al tempo stesso, come ha scritto Claudio Pavone, con uno sguardo sull’Italia che può ben essere esteso all’intero continente, le lotte di liberazione furono anche lotte politiche, all’insegna dell’antifascismo come discriminante ineludibile, per il ripristino e l’affermazione delle libertà fondamentali soppresse, in molti paesi, ancora prima del 1939; e furono conflitti sociali, rivolti contro i gruppi monopolistici industriali e finanziari e contro la grande proprietà terriera, pervicacemente ostili a forme più avanzate di democrazia, quali si erano delineate alla fine del primo conflitto mondiale; quelle stesse forze che, nel ventennio tra le due guerre, avevano cercato e trovato nel fascismo un sicuro baluardo per la protezione dei propri privilegi, e durante la guerra avevano assecondato la volontà egemonica dei vincitori, non solo non opponendosi ma spesso collaborando alla depredazione delle risorse economiche e allo smantellamento degli apparati produttivi dei singoli paesi.

Questi temi emergono sin dalle prime pagine del denso lavoro di Nunzia Augeri, nelle quali viene tracciata in modo sintetico ma esauriente una ricostruzione delle principali vicende della Seconda Guerra mondiale, dalla marcia trionfale della Germania e dei suoi alleati, prima fra tutti l’Italia fascista, fino alla svolta del 1942-43, con le sconfitte di El Alamein e di Stalingrado, e al successivo crollo del progetto imperiale di Hitler: una ricostruzione che, peraltro, non si limita a essere un utile promemoria per il lettore, ma serve a mettere in luce la caratteristica essenziale della guerra 1939-1945, sintetizzata efficacemente, nel titolo dell’opera citata all’inizio di questa premessa, «La guerre-monde», che assume oltre alla dimensione geopolitica del conflitto - per la prima volta tale da coinvolgere tutti i continenti - anche e soprattutto quella di una globalità del conflitto stesso, non più combattuto soltanto tra eserciti sui fronti di battaglia, ma tale da coinvolgere l’intera trama sociale: una guerra contro i civili, quale mai era stata conosciuta in precedenza.

Già la prima guerra mondiale aveva compiuto un primo passo in questa direzione: dietro gli eserciti che si fronteggiavano nelle trincee c’era stata la mobilitazione di tutta la società civile, con l’assunzione da parte dello Stato, di tutti gli Stati belligeranti, di un controllo autoritario sull’organizzazione della produzione, dei consumi e della vita quotidiana, che avrebbe rappresentato, in una misura più o meno larga, la prova generale di pratiche politiche, economiche e sociali autoritarie perfezionate e stabilizzate dai regimi fascisti.

Tuttavia, a parte alcune temporanee occupazioni di limitate porzioni di territorio nemico, nel 1914-18 lo scontro militare (almeno sul fronte occidentale) era rimasto, per lo più, circoscritto ai diversi fronti di guerra. Tutto cambia con la Seconda guerra mondiale, una guerra totale, preceduta peraltro da conflitti che preannunciavano quell’esito: la conquista dell’Etiopia da parte dell’Italia fascista, con l’uso dei gas tossici, vietati dalle convenzioni internazionali, contro la popolazione; la guerra cino-giapponese, dominata dalla volontà dell’impero del Sol Levante di sottomettere con l’uso sistematico del terrore la nazione vicina, e la guerra di Spagna, nella quale, assecondati dall’acquiescenza di Francia e Gran Bretagna, la Germania nazista e l’Italia fascista avevano sperimentato le tattiche che sarebbero state poi perfezionate sui campi di battaglia di tutta Europa. Nelle pagine che seguono, e soprattutto nella parte dedicata al Nuovo Ordine europeo, l’autrice evidenzia il dato essenziale, ovvero la connotazione ideologia e razziale della guerra scatenata dalla Germania e dai suoi alleati, e ad esse riconduce l’elemento di devastante novità di un conflitto condotto non più soltanto sui fronti, ma portato a estendersi su scale globale da un’ideologia totalitaria di supremazia razziale sostenuta dal potenziamento tecnologico degli strumenti bellici e dal sacrificio di ogni forma di civiltà agli obiettivi di conquista e di sottomissione.

Il carattere totale della guerra contro i civili, peraltro, trova un significativo riscontro nella molteplicità delle forme e degli scopi perseguiti dalla Resistenza, miranti, il più delle volte, a giungere a una liberazione che non si limitasse alla vittoria militare e al ripristino della situazione prebellica, ma portasse con sé i germi di un profondo rinnovamento degli ordinamenti civili, sociali ed economici, anche se in forme tra loro marcatamente differenti, ma convergenti nell’intento di stabilire le condizioni minime per impedire la rinascita delle dittature debellate.

L’autrice si sofferma opportunamente su queste peculiarità, a partire dalla Resistenza di alcuni paesi del Nord Europa, dove prevalse la propensione ad assumere un atteggiamento di conservazione delle strutture statali travolte dall’invasione nazista, specialmente nei paesi in cui la condotta patriottica della dinastia regnante (in Norvegia, in Olanda, in Lussemburgo) ne aveva fatto un simbolo della resistenza nazionale, attorno al quale stringersi. Si tratta, come ricorda l’autrice citando Franco Della Peruta, di una resistenza “tranquilla”, incline, cioè a mettere tra parentesi le istanze di carattere politico e sociale più avanzate e a porsi come elemento di continuità rispetto al passato e come fattore di stabilità all’indomani della vittoria.

Del tutto diversa, per questo aspetto, la storia di altri paesi. Si prenda il caso della Polonia: la vicenda bellica di questo paese, invaso dalla Germania e occupato in parte dall’Unione Sovietica, secondo la previsione del Patto Ribbentrop-Molotov, è condizionata, più di altre, dalle avvisaglie della Guerra fredda e del futuro assetto bipolare degli equilibri geopolitici. La Resistenza polacca infatti si divise irreversibilmente tra l’Esercito Nazionale (Armia Krajowa, Ak) facente capo al Governo in esilio di Londra e l’Esercito popolare (Armia Ludowa, Al) facente capo al Comitato polacco di liberazione nazionale (Polski Komitet Wyzwolenia Narodowego, Pkwn), noto anche come Comitato di Lublino, egemonizzato dal Partito comunista e contrapposto al Governo in esilio. Ed è altresì noto che la storia della Resistenza polacca è stata costellata di episodi drammatici, come la rivolta del ghetto di Varsavia e la successiva insurrezione fallita di Varsavia, destinati a lasciare uno strascico di polemiche e recriminazioni non del tutto sopito. E ancora differente è la storia della Resistenza in Jugoslavia, anch’essa segnata dall’intreccio della lotta di liberazione nazionale con i conflitti interetnici, e in particolare dallo scontro tra l’Esercito popolare di liberazione guidato dal Partito Comunista di Tito e i cetnici serbi, monarchici, nazionalisti sotto il comando del generale Draza Mihajlovic. Questi ultimi, mossi da un feroce anticomunismo, finirono per collaborare con gli occupanti tedeschi e italiani, affiancandosi spesso nella repressione antipartigiana condotta dalle milizie ustascia di Ante Pavelic; con il risultato che anche il conservatore Winston Churchill scelse alla fine di dare il suo sostegno alla Resistenza egemonizzata dal Partito Comunista.

Né infine, va dimenticato il tragico epilogo della Resistenza greca, con la guerra civile che all’indomani della liberazione, oppose l’Edes, Unione nazionale greca, democratica e monarchica, sostenuta dagli Alleati, e l’Elas, Esercito nazionale popolare di liberazione, di ispirazione comunista. Il lungo conflitto, conclusosi con la tragica sconfitta dell’Elas, peraltro, costituì un motivo di profonda riflessione per il Pci e per il suo leader, Palmiro Togliatti, che da quella vicenda derivò la convinzione che la linea dei comunisti italiani nel corso della guerra di Liberazione dovesse ispirarsi ai principi dell’unità antifascista rivolta alla costruzione di una forma avanzata di democrazia repubblicana, quale poi fu effettivamente tracciata nella Costituzione del 1948.

Differenze e affinità si alternano con efficacia nelle pagine che seguono. La caratterizzazione della Seconda guerra mondiale come conflitto globale nel quale la linea di separazione tra fronte militare e fronte interno si era andata progressivamente sbiadendo, comportava infatti, come si è detto, una reazione speculare, nel senso di una opposizione popolare e diffusa nei confronti degli occupanti nazisti e fascisti, di una mobilitazione capillare, nelle forme più differenti, dalla resistenza passiva fino alla lotta armata: perché se è vero che quest’ultima ebbe come protagoniste delle élites politicizzate, sostanzialmente minoritarie, è altrettanto vero che esse non avrebbero potuto svolgere l’attività militare, in presenza di una grandissima disparità di forze e di risorse, senza un sostegno popolare, capillare e continuativo, che affiancò efficacemente l’azione delle avanguardie combattenti.

Peraltro, a ben vedere, questa connotazione sociale e diffusa del movimento resistenziale è un ulteriore elemento che segna una profonda differenza con la guerra del 1915-18. In quel frangente, infatti, la decisione dei governi di intraprendere l’avventura bellica poté contare sul sostegno attivo di consistenti settori intellettuali, affascinati dagli ideali nazionalisti (si pensi al ruolo degli studenti universitari nell’interventismo italiano, o alle associazioni studentesche nazionalistiche pullulanti nell’Impero germanico) e soprattutto sull’acquiescenza e la passività di interi gruppi sociali: quelli che, come i contadini, in molte realtà (tra cui l’Italia) fornirono il nerbo degli eserciti combattenti - e che non casualmente in Russia, rotti i vincoli feudali e patriarcali di obbedienza, furono l’asse portante della rivoluzione – e, su un altro versante, le donne, che subirono – salvo isolati episodi di ribellione - tutte le conseguenze personali, familiari e collettive, dello sforzo bellico, e dei lutti e delle devastazioni da esso provocate.

Se si confronta quella realtà con quanto avvenne venti anni dopo, saltano agli occhi delle differenze plateali. E soprattutto colpisce l’ampiezza con cui la Resistenza, nella sua accezione più estesa, ha costituito uno straordinario fattore di mobilitazione sociale e di spostamento di ampi settori della popolazione europea su posizioni democratiche avanzate. Bene ha fatto Nunzia Augeri a sottolineare, nei capitoli dedicati alle Resistenze nazionali, il rilievo assunto dalle manifestazioni, dagli scioperi e dagli atti di resistenza passiva portati avanti in diverse occasioni dagli studenti universitari – che peraltro in tutto il Continente hanno offerto un elevatissimo tributo di sangue alla lotta antifascista – con il risultato di dare spesso origine a più larghe manifestazioni popolari. E analogamente va ricordata l’opposizione delle campagne, il rifiuto dei contadini di obbedire agli ordini di requisizione del bestiame o di derrate alimentari, cioè il rifiuto, pagato spesso a caro prezzo, di portare sulle proprie spalle il peso del sostentamento alla macchina militare nazista. E altrettanto bene ha fatto l’autrice a raccontare come le donne, in tutta Europa, si siano mobilitate non più come ausiliarie dello sforzo bellico, ma come protagoniste della lotta di liberazione, spesso con l’assunzione di ruoli di direzione politica e militare che avrebbero segnato un punto di non ritorno e un mutamento della posizione della donna nella società, destinato a manifestarsi in un progresso lento e contrastato, ma inarrestabile, a partire dalla concessione del voto e dal riconoscimento delle parità di genere in tutte le costituzioni varate all’indomani della fine della guerra.

Tra i vari atti di disobbedienza civile che costellano la resistenza europea non vanno dimenticati peraltro l’aiuto fornito dalle popolazioni ai prigionieri alleati fuggiti dai campi di prigionia, spesso a rischio della vita; le manifestazioni contro la penuria dei generi alimentari, provocata spesso ad arte dagli occupanti, che utilizzarono la carestia come strumento di repressione politica (emblematici, in proposito, i casi dell’Olanda o della Grecia, ridotte volutamente alla fame dagli occupanti) o atti palesi di resistenza disarmata, come nel caso, troppo a lungo dimenticato, degli Internati militari italiani che, pur sotto la minaccia di fare la stessa fine dei resistenti di Cefalonia e di Lero, rifiutarono nella stragrande maggioranza l’arruolamento nelle forze armate della sedicente Repubblica sociale, andando incontro a una prigionia in condizioni analoghe a quelle dei campi di concentramento.

La Resistenza europea svolse dunque un ruolo importante nell’inceppare la macchina militare nazifascista, e nel perseguimento di questo obiettivo il peso più rilevante lo ebbero i grandi scioperi operai che, malgrado i divieti draconiani delle autorità di occupazione, si ripeterono in tutto il Continente, contribuendo a rallentare fino quasi a fermare la produzione bellica. Tra le molte scadenze di quest’anno, va qui ricordata la celebrazione dell’ottantesimo anniversario gli scioperi operai del marzo 1944, che paralizzarono l’Italia settentrionale occupata, e che debbono essere ricordati anche come un aspetto dell’opposizione politica e sindacale condotta con fermezza e a prezzo di gravi sacrifici dai lavoratori dell’intero continente. Nelle pagine che seguono si dà ampiamente conto del protagonismo della classe operaia, antagonista coerente e intransigente del fascismo, sin dai suoi esordi, quando le squadracce percorrevano le strade della pianura padana e di altre parti del paese, per costringere con la forza alle dimissioni le amministrazioni locali socialiste, bruciare le Camere del lavoro, le sedi di Partito, delle cooperative e delle società di mutuo soccorso, uccidere brutalmente i loro dirigenti.

Nel rifiuto dell’obbedienza a un potere per definizione dispotico e intollerante, si può scorgere una rivendicazione di libertà e di sovranità da parte di tutta la Resistenza europea, che contiene in sé i germi di una nuova cittadinanza democratica. Nelle bande, i singoli combattenti rivendicano per se stessi quello che è il tratto originario del potere sovrano, ovvero il monopolio legittimo dell’uso della forza, e le bande di diversi paesi, ormai trasformate in veri e propri eserciti volontari, trattano tra di loro, qualche volta entrano in contrasto, ma più di frequente stipulano accordi di collaborazione, vere e proprie alleanze, alla stregua di veri e propri stati sovrani. Diversamente da questi ultimi, però, nella grande maggioranza dei casi, gli eserciti della resistenza intraprendono la strada del dialogo, e voltano le spalle agli irredentismi e ai nazionalismi che hanno innescato la catastrofe.

Sei lunghi anni di guerra e di Resistenza non trascorsero senza che la ferocia nazifascista si scatenasse sulle popolazioni inermi: centinaia di migliaia di deportati, per motivi politici e razziali, interi villaggi bruciati e gli abitanti decimati, in una scia di sangue che attraversò l’intera Europa, frutto di una violenza meticolosamente pianificata dai vertici politici e militari del Terzo Reich: una pianificazione che fornì mezzi e risorse al furore razzista e trovò solerti esecutori, in Germania e al di fuori di essa, del progetto di sterminio del popolo ebraico e delle altre minoranze inermi dei rom e dei sinti, degli omosessuali e finanche della dissidenza politico-religiosa dei Testimoni di Geova. Le pagine che seguono rievocano storie meno conosciute, come le rivolte nei campi di sterminio di Treblinka, Sobibor, Auschwitz-Birkenau, ricostruite nel capitolo dedicato alla Resistenza ebraica: una pagina drammatica, meritevole di essere riportata alla memoria. Così come, per questo aspetto, sono di particolare interesse le pagine dedicate alla lotta partigiana dei sovietici, supporto essenziale dell’Armata Rossa, e, sull’altro versante del fronte, alla resistenza austriaca e tedesca, fenomeno, quest’ultimo, senz’altro minoritario, ma indispensabile presupposto di una rinascita democratica del popolo tedesco, profondamente avvelenato dai dodici anni di predomini nazista. Né vanno dimenticati i tanti disertori della Wehrmacht, che, disgustati dai ripetuti atti di violenza indiscriminata contro le popolazioni, optarono per la diserzione, unendosi alle bande partigiane: una storia, anche questa, a lungo dimenticata e riportata alla luce dai recenti studi di Mirco Carrattieri, Iara Meloni e Carlo Greppi.

Al termine dei capitoli dedicati alle singole resistenze nazionale, l’autrice ha voluto collocare la lettere di addio ai familiari di condannati a morte della Resistenza europea: testimonianze commoventi, nella varietà delle voci e degli accenti, della profondità etica della scelta resistenziale e della certezza, spoglia di ogni retorica, di trovarsi dalla parte giusta, di sacrificare la vita a una causa destinata a prevalere, perché legata alle più profonde aspirazioni di ogni essere umano. Non è retorica affermare che quelle lettere parlano al nostro presente e offrono ad esso una riserva di valori perenni, ai quali attingere affinché l’Europa oggi unita possa ritrovare nelle proprie radici antifasciste le risorse politiche e morali per fronteggiare le minacce provenienti dalla ricorrente tentazione di nuovi autoritarismi e dai risorgenti nazionalismi alimentati da venti di guerra che possono essere placati solo da una ferma e unitaria volontà di pace dei popoli.

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