Angelo Calemme

 

Introduzione

Nascendo nel 1818 e morendo nel 1883, Karl Marx visse in una fase storica decisiva per la costruzione e la definizione della moderna civiltà occidentale, cioè quella in cui l’applicazione alla produzione sociale della ricchezza sia delle scienze naturali sia di quelle umane, provocò, tutto sommato nel breve lasso di tempo di circa un secolo, la completa riconversione della società euroamericana da un sistema produttivo di tipo agricolo e manifatturiero a uno di tipo grande-industriale.

Lo stesso Engels, a proposito della prima Rivoluzione industriale, scrisse:

[Il sistema di produzione di tipo grande-industriale ebbe inizio] nella seconda metà dello scorso secolo, con l’invenzione della macchina a vapore e delle macchine per la lavorazione del cotone [la cosiddetta Jenny]. Queste invenzioni com’è noto, diedero impulso a una rivoluzione industriale, una rivoluzione che in pari tempo trasformò tutta la società borghese, e la cui importanza storica comincia solo ora a essere riconosciuta. L’Inghilterra è il terreno classico di questo rivolgimento, che fu tanto più grandioso quanto più procedette silenziosamente[1].

Gli anni vissuti da Marx, dunque, sono quelli in cui, con la diffusa applicazione e graduale standardizzazione del motore a vapore, l’introduzione della catena di montaggio[2], dei primi calcolatori informatici, delle macchine motrici elettromagnetiche e a combustione interna, emergono sistematicamente le principali meraviglie scientifiche della prima e della seconda generazione macchinica, e al tempo stesso le più alienanti miserie proletarie indotte dall’affermazione della borghesia capitalistica come nuova classe sociale dominante dentro e fuori la fabbrica; la presenza di un filosofo come Marx in una fase storica di questo tipo si tramutò nella grande opportunità per il proletariato di munirsi ben presto di un socialismo scientifico, di un materialismo di tipo storico e dialettico, capace di emancipare sostanzialmente i lavoratori, ma se ciò avvenne, fu solo grazie al parziale sviluppo da parte di Marx di una Storia critica della tecnologia, la teoria fondamentale senza la quale il I Libro de Il capitale non avrebbe mai visto la luce. Tale teoria, in quanto critica della Storia delle scienze, della Storia delle tecniche, della Scienza della tecnologia, della Storia della tecnologia industriale, della Storia del management, si sforzò, sulla scorta del socialismo utopistico francese, della filosofia classica tedesca, dell’economia politica e della biologia inglese, della tecnologia scientifica (filosofia sperimentale) euroamericana, di considerare con coscienza di classe la macchina come scientifico e sistemico organon sociale e politico di sfruttamento capitalistico e parallelamente di emancipazione possibile del lavoro salariato; la Storia critica della tecnologia divenne teoria critica della selezione naturale, sociale e politica di quei mezzi di produzione funzionali all’ottimizzazione economica degli standard di efficienza, competitività e profittabilità dello sfruttamento del proletariato e atti all’emancipazione dell’umanità dal lavoro diviso. Dopo la morte di fenomenologi come Merleau-Ponty (1961), Koyré (1964) e Simondon (1989), le ricerche che nel corso dei decenni hanno preso ad oggetto la Storia critica della tecnologia da un punto di vista rigoroso sono inaspettatamente rare, sia perché molto spesso esse sono state pregiudicate dai vari empirismi e/o resistenti positivismi sia perché troppo di frequente, per altri versi, la tradizione fenomenologica, da Heidegger fino alla filosofia postmoderna o del cosiddetto pensiero debole, è scaduta per il tramite di una rilettura hegeliana del materialismo storico e dialettico in una critica neoluddista alla tecnologia scientifica[3]. Se ora, con questo nostro contributo, cercheremo di fare implicitamente un po’ di ordine in questo complesso filone di ricerca, affinché quest’ultimo, in tutte le sue anime, venga emendato, scremato, dei suoi pregiudizi, irrobustito, e non solo aggiornato[4], nelle sue riflessioni, ciò lo si farà non tanto al fine di appagare una mera curiosità accademica, ma allo scopo di fornire un utile e urgente ufficio teorico che, con ricadute predittive e performative, tenti, al tempo della quarta Rivoluzione industriale, di rinnovatamente informare il movimento internazionale dei lavoratori sulle condizioni extralogiche con cui la tecnologia scientifica, una volta applicata alla produzione capitalistica, nel suo sviluppo media i “giochi di potere” dell’uomo sull’uomo, e, contemporaneamente, si presenti anche come profondo esame delle sue condizioni infralogiche. Soprattutto quest’ultimo aspetto è sempre stato a dir poco trascurato, o persino non adeguatamente compreso dagli studiosi, i quali, in misura particolare gli stessi marxisti, quando, molto di rado, timidamente lo individuano[5], in definitiva mai lo sviluppano, nella maggior parte delle volte lo bistrattano[6], forse per timore di essere tacciati di revisionismo o di idealismo[7] oppure, peggio ancora, per paura di scoprire le tracce di una riflessione per certi versi pura per altri versi paradossale all’interno del materialismo storico e dialettico marxiano.

Tra i grandi classici del marxismo del secondo dopoguerra che più di altri estesamente ribadì la totale estraneità di Marx a riflessioni di questa natura, ritornando più volte sulla questione dell’inesistenza nell’opera del Moro di alcun tipo di elaborazione sulle cause e le condizioni indipendenti dello sviluppo della scienza e della tecnica, rimane ancora oggi Marx et le machinisme di Jean Fallot. A questo proposito, nell’introduzione al suo volume, leggiamo:

La scienza come Marx la considera non è mai “pura”; non è data prima di tutto come modo di conoscere, ma di produrre; e non è nemmeno come fondamento teorico della produzione ch’egli la considera, ma legata [alla] appropriazione, da parte del capitale, del lavoro e dei suoi mezzi […]. Nelle condizioni sociali della produzione capitalistica la scienza non esiste per sé stessa, ma per il capitale ‒ è questo che la vota ad accumularsi; essa non si accumula nel suo proprio interesse ma perché si fonde col capitale che se ne appropria […]. Egli [Marx] non distingue mai fra la scienza “utilizzata” dal capitalismo in vista del plusvalore, e la scienza che ‒ benché utilizzata ‒ si imporrebbe in qualche modo da sé alla sua utilizzazione capitalista, per le leggi di una sorta di sviluppo naturale […]. Ciò che rende soprattutto difficile la questione [della definizione stessa della scienza] è che la teoria della scienza appare ne Il capitale come un’appendice della legge economica del plusvalore (che è la ragion d’essere della produzione capitalistica) mentre si preferirebbe che essa scaturisse dalla teoria materialistica dialettica della conoscenza[8].

In barba a qualsiasi indicazione di Marx, come del resto del suo compagno Engels, su come contemporaneamente intendere la storia dello sviluppo delle scienze e delle tecniche, sia in chiave economico-sociale (cioè dal punto di vista di una critica dell’economia politica) sia in quella naturale o indipendente (cioè dalla prospettiva di una critica della tecnologia scientifica), Fallot di fatto dimostra di dimenticare il peso che ebbe la salvaguardia della saldatura e della differenziazione critica sempre esistente tra la storicità della società e quella della natura, nelle riflessioni marxiane; e allora, lungi dal ricadere nei feticismi delle teorie neutraliste e attendiste della tecnologia scientifica applicata all’industria che sembrano misconoscere come il rapporto sociale capitalistico si annidi fin “dentro le esigenze tecniche del macchinario”[9]; lungi dal peccare degli eccessi di quelle teorie marxiste che semplicemente riducono l’impulso all’innovazione tecnologica, la “macchinofattura”[10], esclusivamente al principio del plusvalore relativo e dei “profitti straordinari”[11], alla fine degli anni Sessanta dello scorso secolo, Aleksandr Abramievič Kusin[12], diversamente da Fallot, asserisce che, sebbene Marx nei suoi scritti sullo sviluppo storico delle scienze e sulla selezione tecnologica degli organi di produzione, non si sia mai prefissato come obiettivo specifico quello di studiare le questioni infralogiche (filosofiche od ontologiche) dello sviluppo scientifico-tecnico, tuttavia sostenne implicitamente[13] che, oltre alle leggi obiettive e socio-economiche generali dello sviluppo dei mezzi di lavoro prodotti artificialmente dall’uomo, ne esistono alcune “che non dipendono direttamente dai presupposti sociali [extra-logici o esterni] dello sviluppo della tecnica [e che piuttosto] nascono dalla logica interna di [questo] sviluppo[14]; in altre parole, secondo Kusin, Marx, pur ribadendo che “[i perfezionamenti tecnologici] per lo più servono come mezzi per il raggiungimento di scopi che sono [in ultima istanza] determinati da leggi socio-economiche”[15], finalizzate alla marginalizzazione, alla relativa sostituzione, al trasferimento di lavoro vivo utile a suscitare sempre nuove produzioni e forme di produzione, afferma tuttavia che le grandi scoperte e invenzioni della Rivoluzione scientifica prima e industriale poi, dunque della Storia della tecnologia (scientifica e applicata), possiedono anche una natura, una “logica ontologica”, uno statuto di senso autonomo e irriducibile sia alla mera accumulazione dei risultati raggiunti dalle pratiche produttive nel corso dei millenni sia all’uso politico, sociale ed economico del lavoro da parte del capitale. Probabilmente per il timore di essere accusato di revisionismo, Kusin nel suo volume non ci dice quasi nulla sulle leggi autonome (o indipendenti) dello sviluppo scientifico-tecnico, e continua a tacere su quanto Marx, anche se avesse voluto, non riuscì mai a sviluppare a causa delle esigenze storiche e teoriche impellenti. Al contrario dei nostri cauti predecessori e di tutti i cosiddetti “negazionisti”, nelle prossime pagine tenteremo allora di porre in rilievo questo aspetto poco frequentato della marxiana Storia critica della tecnologia e, provando a realizzare una sintesi tra tradizioni interpretative contrapposte (da Koyré a Geymonat, da Fallot a Kusin e successivi), cercheremo al contempo sia di estrapolare dai testi marxiani la logica scientifico-tecnica interna allo sviluppo degli strumenti e/o delle macchine di precisione sia di spiegare in che modo queste analisi possano confluire, in un futuro non troppo lontano, in una più avanzata e consapevole lotta al capitale di ultima generazione. Tra i risultati più fecondi che da queste nostre indagini si potranno trarre, il più considerevole sarà sicuramente l’irriducibilità della dialettica della natura al suo uso politico e sociale, ai suoi possibili significati extralogici, nonostante la stragrande maggioranza dei marxisti abbia detto prima di noi che mai nessuno strumento e/o macchina sia mai stato “il risultato dello sviluppo naturale della scienza”[16]. Da questo nostro eterodosso (o per certi versi engelsiano) punto di vista, la Storia critica della tecnologia marxiana, contrariamente a quanto sostenuto anche molto di recente da Guido Frison[17], non può mai prescindere dall’oggettività indipendente degli strumenti o delle macchine[18] filosofiche di precisione, in quanto la loro logica interna di sviluppo non può essere esaurita in una mera “conoscenza della razionalizzazione dei processi di lavoro”[19]: come dimostreremo, allora, oltre le cause e le condizioni socio-economiche dello sviluppo degli strumenti e/o delle macchine, Marx accenna anche a una “pura”, “autonoma”, logica della tecnologia scientifica che, nonostante il suo peso marginale nelle condizioni capitalistiche di produzione, va comunque tenuta in considerazione, soprattutto al fine di prevedere, per quanto possibile, il futuro scientifico-tecnico, alternativo a quello capitalistico, di una società socialista, nell’interdipendenza equilibrata tra storia della natura e storia della società.                                          

Il nostro lavoro, con e oltre gli strumenti teorici dell’husserliana epoché fenomenologica degli atteggiamenti, della marxiano-freudiana iperdialettica delle masse, della foucaultiana archeologia dei saperi, punterà all’attuazione di due propositi.

La prima ambizione, di ispirazione prevalentemente husserliana, sarà quella di preliminarmente e rigorosamente introdurre i principali orizzonti ontologici, prendendo in esame quelle questioni pure, dispute metodologiche storicamente determinate e circoscritte, polemiche con determinati referenti e quei presupposti filosofici e scientifici diversi dai nostri, entro cui la Storia critica della tecnologia marxiana fu abbozzata. Queste ontologie regionali della modernità, di cui anche il materialismo storico-dialettico è carico, sono rispettivamente tre: quella del lavoro, della vita, della natura. Tra le ragioni che ci hanno spinto a dedicare i primi capitoli introduttivi allo studio critico della Storia critica della tecnologia, ricordiamo le tre più significative: 1. un gran numero di studiosi, tra cui molti esponenti dei marxismi contemporanei, sembra ancora confondere la teoria darwiniana della selezione naturale, a cui Marx ed Engels guardarono criticamente, con un’idea dei processi evolutivi sostanzialmente meccanicista o, addirittura, neolamarckiana; 2. spesso, ignorando (e a volte coscientemente occultando) la matrice tedesca (kantiano-schellingana) della biologia di Darwin e della compiuta astrazione (hegeliana) del concetto del lavoro, i marxisti alterano profondamente i principi e le leggi della selezione storica e dialettica degli organi di produzione che i padri del materialismo scientifico, insieme, maturarono sia in analogia con l’unica interpretazione possibile della teoria della selezione naturale, cioè come teoria dell’ereditarietà forte, sia in relazione alla legge hegeliana secondo la quale mutamenti puramente quantitativi possono risolversi ad un certo punto in distinzioni qualitative; 3. le tradizioni marxiste, forse eccezion fatta soltanto per alcuni storici e filosofi della scienza, non hanno in alcun modo tenuto conto della presenza nella Storia critica della tecnologia di leggi indipendenti della selezione, materialisticamente storica e dialettica, delle scienze e delle loro applicazioni, finendo per ignorare il peso che ebbero nella riflessione marxiana sulla gnoseologia materialistica gli studi sulla storia dello sviluppo degli strumenti filosofici di conoscenza esatta della natura.

La seconda e ulteriore ambizione di questo nostro lavoro sarà rileggere, sulla base delle delucidazioni offerte nei tre capitoli introduttivi e di un’approfondita analisi dei testi, gli sparsi lineamenti marxiani per una Storia critica della tecnologia, facendo in essi rilucere in modo positivo, critico e dialettico sia dal punto di vista della società sia dal punto di vista della natura, il discorso che il Moro, a partire da La sacra famiglia (1845), inaugura sotterraneamente, in negativo, a proposito delle condizioni originarie e/o autonome dello sviluppo della tecnologia scientifica, cioè intorno a quei fondamentali indipendenti della putazione naturale moderna[20] che, a seconda degli usi eteronomi (sociale e politico) che si possono fare, può caratterizzare lo sviluppo della tecnologia secondo una supputante, gerarchica, alienante e divisa, logica degli strumenti che misurano, delle macchine che calcolano[21], oppure secondo una computante logica con le tecnologie, la quale emancipa l’uomo dalla fatica, sotto il segno di un co-sviluppo, di uno scambio reciproco, tra questo e la natura. Volendo essere ancora più chiari, a partire dagli studi sullo sviluppo del mercato mondiale (1847), Marx rivelò non solo le cause eterenome dello sviluppo scientifico e industriale, sottolineando il nesso causale tra concentrazione dei mezzi di produzione e divisione del lavoro, ma anche quelle autonome, isolando, soprattutto negli Hefte zur Technologie (Quaderni sulla Tecnologia) degli anni 1850-1857/1858 e in quelli preparatori (V, XIX, XX)[22] a Il capitale del 1857/1858, 1861-1863, 1863-1865[23], una vera e propria teleologia puradel cammino delle macchine[24], un cammino che, dall’utensile al sistema automatico delle macchine operatrici, testimonia, nonostante la teoria del valore, la presenza di una struttura autonoma dello sviluppo storico delle scienze sperimentali e delle sue applicazioni pratiche; ovviamente il compimento dello studio sulle dinamiche interne all’evoluzione degli organi della tecnologia scientifica e delle leggi indipendenti che orientano il loro sviluppo, fu lasciato da Marx alle generazioni future: si tratta ora di riprendere criticamente, meglio ancora, dialetticamente[25], questa eredità, nonostante la sua frammentarietà e complessità.

Lo scopo predittivo e performativo del presente lavoro, per quanto possibile, è allora, in ultima istanza, porre in evidenza, accanto alle riflessioni extralogiche, quelle di carattere infralogico che Marx compì sullo sviluppo delle scienze sperimentali applicate alla produzione, con l’auspicio che i nostri sforzi possano essere prima o poi devoluti alla più ampia riflessione circa la portata rivoluzionaria della lotta di classe al tempo della quarta Rivoluzione industriale; l’orizzonte a cui tendere non sia solo però, semplicisticamente, l’appropriazione proletaria della borghese tecnologia scientifica applicata, un mero controuso politico, della razionalità scientifico-tecnica fino a questo momento capitalisticamente orientata dalla classe sociale dominante, ma anche e soprattutto una profonda e radicale opera di conoscenza delle forme, dei fenomeni e delle leggi interne con cui la tecnologia scientifica si è fino ad oggi storicamente e dialetticamente selezionata o applicata e con cui potremmo giungere socialmente a esiti alternativi, più intelligenti e finora mai chiaramente prospettati.

 

* Introduzione al volume Dalla rivoluzione scientifica alla rivoluzione industriale. Sulle condizioni marxiane dello sviluppo scientifico-tecnico, Meltemi 2022.

[1] F. Engels, Die Lage der arbeitenden Klasse in England, 1845; tr. it, La situazione della classe operaia in Inghilterra, a cura di R. Panzieri, Editori Riuniti, Roma 1978, p. 30; le parentesi quadre sono nostre.

[2] Al contrario di quanto sostenuto dalla comune opinione (in base alla quale la prima forma di catena di montaggio venne costruita solo a partire dall’applicazione nel 1913 dei Principles of Scientific management di Frederik Winslow Taylor all’assemblaggio del prototipo automobilistico Model T nelle manifatture industriali dello statunitense Henry Ford), sulla base di più recenti studi di archeologia industriale, occorre retrodatare la catena di montaggio di almeno un secolo. Se infatti non volessimo spingerci fino al 1785, data a cui risalgono solo le prime combinazioni meccaniche di nastri ed elevatori che nel comparto della logistica portuale statunitense permisero la prima movimentazione automatica dei grani e delle farine direttamente dalle navi mercantili agli stabilimenti alimentari, il primo esemplare in assoluto di assemblaggio meccanico lineare propriamente detto è databile al primo decennio dell’Ottocento e precisamente al periodo in cui negli arsenali della Marina militare britannica, ad opera dell’ingegnere franco-inglese Marc Isambard Brunel, venne utilizzato per la realizzazione dei semilavorati utili all’allestimento dei navigli (J. Coad, The Portsmooth Black Mills: Bentham, Brunel and the Start of the Royal Navy’s Industrial Revolution, English Eritage Press Office, 2005, p. 217). Solo successivamente ai primordi britannici, tra il 1850 e il 1870, nelle città di Cincinnati e di Chicago, comparirono i primi modelli dinamici di lavorazione razionalmente contingentata applicati all’industria alimentare della macellazione (disassembly) delle carni. Le linee di produzione negli Stati Uniti d’America vennero organizzate secondo un sistema di divisione meccanizzata del lavoro con catene trasportatrici, fissate al soffitto degli stabilimenti, a cui venivano agganciate e movimentate le carcasse degli animali. In base al principio del moving the work to the man i lavoratori divisi inseriti in questo processo dinamico venivano addetti solo ed esclusivamente a determinate fasi, svolte presso postazioni fisse, da dove ognuno, secondo tempi razionalmente predeterminati, attendeva all’operazione di un’unica, specializzata e ripetitiva prestazione lavorativa.

[3] Per ulteriori chiarimenti sulla tradizione neoluddista si rimanda a R. Finelli, P. Marinucci, (a cura di), Téchne, Tecnica, Tecnologia, “Consecutio rerum”, Edizioni Efesto, Roma 2019, 6, pp. 3-56.

[4] Fin quando si rimane osservantissimi della logica generale del discorso marxiano sull’uso capitalistico della razionalità scientifica, sia che si prendano in considerazione le macchine di tipo termico sia che si prendano quelle di tipo informatico, la Storia critica della tecnologia rimane ancora valida. Nel caso in cui però si volesse utilizzare quest’ultima nell’analisi particolare delle forme contemporanee di sfruttamento del lavoro derivate dall’introduzione delle macchine discendenti dai motori analitici di Babbage nel processo di lavoro, secondo Caffentzis, non possiamo più esimerci da un aggiornamento dell’ottocentesco impianto teorico marxiano, includendo nel suo discorso “un’altra categoria di macchine: la macchina di Turing (ovverosia la comune struttura matematica di tutti i computer, formalmente isolata da Alan Turing negli anni Trenta del Novecento […]” (G. Caffentzis, Crystals and Analytic Engines: Historical and Conceptual Preliminaries to a New Theory of Machines, Ephemera, VII, 2007, pp. 25-26; le parentesi quadre sono nostre).  

[5] Si veda A.A. Kusin, К. Маpkc и проблемЬі техники, Москва 1968; tr. it. Marx e la tecnica, 1968, a cura di R. Rinaldi, Mazzotta, Milano 1975, p. 115.

[6] Da queste critiche non sono esenti nemmeno i più illuminati marxisti autonomi (si vedano R. Alquati, Composizione organica del capitale e forza-lavoro alla Olivetti, I-II, in “Quaderni rossi”, 2-3, Nuove edizioni operaie, Roma 1962-1963; R. Panzieri, Plusvalore e pianificazione, in “Quaderni rossi”, Nuove edizioni operaie, Roma 1964; G. Caffentzis, Crystals and Analytic Engines: Historical and Conceptual Preliminaries to a New Theory of Machines, Ephemera, VII, 2007; G. Carchedi, Behind the Crisis: Marx’s Dialectic of Value and Knoledge, Brill, Leiden-Boston 2011; M. Pasquinelli (a cura di), Gli algoritmi del capitale: accelerazionismo, macchine della conoscenza e autonomia del comune, Ombre Corte, Verona 2014), i quali, nonostante i loro studi sullo svilupppo del macchinismo, hanno completamente trascurato le condizioni interne di questo sviluppo.

[7] Accuse di questo genere colpirono addirittura teorici, di indubbia fama marxista, come K. Korsch (K. Korsch, Marxismus und Philosophie, 1966; tr. it. Marxismo e Filosofia, 1923-1930, a cura di G. Backhaus, M. Spinella, Sugar Editore, Milano 1970) e György Lukács (G. Lukács, Geschichte und Klassenbewusstsein. Studien über marxistiche Dialektik, Berlino 1923; tr. it. Storia e coscienza di classe, SugarCo, Milano 1997), responsabili, secondo la corrente ortodossa del marxismo-leninismo, di aver, dall’interno stesso del movimento operaio, idealisticamente sostituito la critica marxiana al sistema capitalistico con una critica al “materialismo volgare”, al piatto “scientismo positivistico”, della Seconda internazionale.

[8] J. Fallot, Marx et le machinisme, Éditions Cujas, Paris 1966; tr. it. Marx e la questione delle macchine, a cura di L. Della Mea, M. Pantani, La Nuova Italia, Firenze 1971, pp. 11-12, 22-23; le parentesi quadre sono nostre.

[9] R. Panzieri, Plusvalore e pianificazione, in “Quaderni rossi”, Nuove edizioni operaie, Roma 1964, vol. IV, p. 277.

[10] Ivi, p. 268.

[11] Ibidem.

[12] A.A. Kusin fu uno storico della scienza e della tecnica sovietico. Appartenne al collettivo moscovita della Sezione di Storia della tecnica dell’Istituto per la Storia delle scienze naturali e della tecnica con sede presso l’Accademia delle scienze dell’URSS.

[13] “Purtroppo Marx non ci ha lasciato una trattazione completa che abbia per oggetto la storia delle scienze naturali e della tecnica. Queste questioni trovano posto in Il capitale e in altre opere solo come singoli frammenti” (A.A. Kusin, op. cit., p. 121).

[14] A.A. Kusin, op. cit., p. 115; i corsivi e le parentesi quadre sono nostre.

[15] Ibidem.

[16] J. Fallot, op. cit., p. 22.

[17] G. Frison, Technical and Technological Innovation in Marx, in “History and Technology”, 6, 1988, pp. 299-324.

[18] Con le espressioni di “strumenti e/o di macchine filosofiche” sia gli scienziati inglesi dei secoli XVII-XIX sia Marx intendono tutti quegli organi o apparati sensati o, semplicemente, misurati e calcolati con precisione fisico-matematica. Sulla loro natura, struttura e teleologia della precisione Marx scrive più approfonditamente nei Manoscritti del 1861-63, precisamente nel riassunto tecnologico-storico del Quaderno XIX. Continuazione del Quaderno V, utilizzato poi per l’elaborazione della IV sezione de Il capitale.

[19] A. Cengia, La tecnologia al servizio del capitale. La teoria marxiana della tecnologia alla luce dell’interpretazione di Raniero Panzieri, in R. Finelli, P. Marinucci, (a cura di), op. cit., p. 170.

[20] Per quanto spesso si sia sostenuto, fino a tempi molto recenti (F. Varanini, Macchine per pensare. L’informatica come prosecuzione della filosofia con altri mezzi. Trattato di informatica umanista, Guerini e Associati, Milano 2016), che dall’antichità pitagorica fino a quasi tutto l’Ottocento, il pensiero calcolante sia stato inteso come azione o processo, riferito a un soggetto umano agente e non a un oggetto automatico, tuttavia bisogna riconoscere come già a partire dalla Rivoluzione scientifica del Seicento avvenne qualcosa di eccezionale, per cui, il calcolo tramutò da processo di pensiero, astratto e tuttavia ancora sensibile, da parte di un soggetto attivo attraverso l’uso di utensili per la soluzione di problemi pratici, a un’operazione filosofica in cui il soggetto che agisce con degli strumenti di precisione prima viene gradualmente eclissato in un’esecuzione oggettiva, passiva e subalterna, poi totalmente marginalizzato e trasferito nel pensiero da macchine automatiche; dunque, il passaggio da un soggetto che calcola sensibilmente a un soggetto che misura meccanicamente, a un oggetto misuratore e calcolatore non è una tragica fatalità o solo il risultato di condizioni extralogiche, ma anche, per certi versi, l’implicito e necessario sviluppo ontologico di quella metafisica dell’indipendenza della natura tecnico-scientifica, di quella filosofia sperimentale, di quella tecnologia scientifica, che misura e calcola precisamente la natura oggettiva delle cose con gli oggetti precedentemente misurati e calcolati.

[21] In origine il verbo calcolare non significò, come a partire dalla modernità classica, un processo di misurazione esatta della natura, ma, al contrario, nient’altro che un mero conteggio aritmetico. A partire infatti dall’epoca pitagorica, con il sostantivo greco καλκολος e il corrispettivo latino plurale calculi, ci si riferiva ai sassolini, ai gettoni o a qualsiasi genere di utensili, con cui gli antichi erano soliti aiutarsi nella soluzione di problemi riguardanti le cose sensibili o empiricamente esperite.  

[22] I Quaderni sulla tecnologia sono poi confluiti nei definitivi capitoli XII (Divisione del lavoro e manifattura), XIII (Macchinario e grande industria) e XX de Il capitale.

[23] I manoscritti realizzati tra il 1857 e il 1858 sono noti come Grundrisse e ripartiti nel seguente modo: Quaderno II (novembre 1857 ca.), Quaderno III (29 novembre ‒ 15 dicembre 1857 ca.), Quaderno IV (15 dicembre 1857 ‒ 22 gennaio 1858 ca.), Quaderno V (22 gennaio ‒ febbraio 1858 ca.), Quaderno VI (febbraio 1858 ca.), Quaderno VII (febbraio ‒ giugno 1858 ca.). I manoscritti successivi al biennio 1857/1858, appartenenti con i Grundrisse alla seconda fase del processo di elaborazione del lavoro verso Il capitale, possono essere suddivisi nelle raccolte del 1861/1863, del 1863/1865 e del 1867/1881. La prima raccolta riguarda la seconda versione della teoria de Il capitale, discendente dalla prima versione del 1857/1858, in altre parole dal volume edito nel 1859 (Per la critica dell’economia politica) e dall’esposizione del “Capitale in generale” (dalla cui digressione relativa alla storia delle teorie del plusvalore, nacquero le celebri Teorie sul plusvalore del 1861). La seconda raccolta comprende i manoscritti relativi alla terza versione de Il capitale, strutturata in tre libri (Processo di produzione del capitale, Processo di circolazione del capitale, Configuarazione del processo complessivo). La terza raccolta raggruppa i manoscritti relativi alla scrittura definitiva del I libro de Il capitale (1863-1865), pubblicato in una prima edizione tedesca nel 1867, alla scrittura del II libro (1867/1868, 1868/1870, 1877/1881) e alla riscrittura del III libro (1864/1865) in diverse versioni parziali (1878).      

[24] K. Marx, Misère de la philosophie. Réponse à la philosophie de la misère de M. Proudhon, 1847; tr. it. Miseria della filosofia. Risposta alla filosofia della miseria di Proudhon, a cura di N. Badaloni, F. Rodano, Editori Riuniti, Roma 2019, p. 143; i corsivi sono nostri.

[25] Questo nostro intento non ha nulla di idealista e/o di storicista, ma si colloca semplicemente nel solco tracciato da Engels (e ripreso da Geymonat), in polemica contro l’empirismo e/o il positivismo resistenti nel materialismo volgare, volto al recupero materialistico della dialettica hegeliana; e infatti scrive Engels: “Quel che manca a tutti questi signori [meccanicisti o materialisti volgari] è la dialettica. Essi vedono sempre solamente qui la causa, là l’effetto. Non arrivano a vedere che questa è una vuota astrazione, che nel mondo reale simili contrapposizioni metafisiche polari esistono soltanto nei momenti di crisi, ma che l’intero grande corso delle cose si svolge nella forma dell’azione e reazione reciproca, anche se di forze molto ineguali, tra cui il movimento economico è di gran lunga il più forte, il più originario, il più decisivo; essi non arrivano a capire che niente è assoluto e tutto è relativo. Per essi Hegel non è esistito” (F. Engels, Lettera a C. Schmidt a Berlino del 27 ottobre 1890, in K. Marx, F. Engels, Opere, vol. XLVIII, Carteggio 1888-1890, Roma 1983, p. 523).

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