Mario Cermignani *  

 

  1. Premessa. Unità razionale della realtà materiale e principio di uguaglianza: alcuni aspetti interessanti del pensiero filosofico pre-hegeliano e pre-marxista (Giordano Bruno)

Il concetto ed il principio di uguaglianza formale e sostanziale rappresentano il fondamento razionale giustificativo di un’organizzazione sociale giusta, stabile ed equilibrata; ciò in quanto l’uguaglianza, nucleo logico essenziale del concetto di “giustizia”, intesa (sul piano formale) come ragionevole uguale trattamento normativo di casi e situazioni simili in modo giuridicamente/logicamente rilevante e ragionevole differente trattamento normativo di casi e situazioni differenti in modo giuridicamente/logicamente rilevante, nonché (sotto il profilo sostanziale) come uguale attribuzione dei beni e delle risorse sociali o collettive ad ogni consociato in proporzione ragionevole, equilibrata ed adeguata ai diritti fondamentali, ai bisogni, ai meriti o alle responsabilità di ciascuno, costituisce il presupposto logico e materiale anche del concetto di “equilibrio” e, dunque, di quello di “ordine sociale stabile e razionale”.

La razionalità del concetto di uguaglianza o di equilibrio (sia fisico-materiale che sociale) può essere ricondotta alla razionalità intrinseca della realtà materiale oggettiva, in cui un sistema (o un corpo) si dice in equilibrio fisico quando le forze che agiscono su di esso si equivalgono, sono sostanzialmente “uguali”, hanno cioè un’intensità equivalente e si compensano/bilanciano fra loro, facendo in modo che il sistema (o il corpo) rimanga in uno “stato di quiete” e, quindi, di “stabilità tendenziale” connessa ad una situazione di “simmetria” e di equivalenza tra forze contrapposte e/o concorrenti. L’equilibrio si dice “stabile” se il corpo o il sistema, assumendo dinamicamente una posizione diversa da quella di equilibrio, per effetto di un fattore causale squilibrante o di “disturbo” (che produce “disuguaglianza” ed asimmetria tra le forze che incidono sul corpo o sul sistema stesso), tende a tornare nel suo stato di equilibrio e di stabilità o quiete una volta cessato il fattore causale di squilibrio.

Lo stesso nucleo degli atomi che costituiscono la realtà materiale conferma questo principio di uguaglianza, equilibrio e stabilità: la forza nucleare (che mantiene uniti ed a stretto contatto tra loro i protoni ed i neutroni nel nucleo atomico) opera nel modo migliore e mantiene stabile il nucleo dell’atomo solo quando protoni e neutroni sono presenti in una proporzione di uguaglianza. Per gli atomi i cui nuclei contengono fino a quaranta particelle, la proporzione di equilibrio e stabilità è quella costituita da un numero uguale di protoni e di neutroni; nel caso di nuclei più complessi la stabilità può essere garantita solo dalla presenza di un grande numero di neutroni, i quali devono essere preponderanti per bilanciare ed equilibrare la massa e la forza dei protoni sempre secondo un principio di equivalenza. Un nucleo atomico, quando ha proporzioni diverse da quelle di uguaglianza ed equilibrio degli atomi stabili, non rimane intatto ma si modifica: sotto l’influenza dell’interazione (o forza) nucleare “debole” vengono emesse piccole particelle (beta), finché la proporzione si modifica rientrando nei parametri di uguaglianza sostanziale e quindi di equilibrio e stabilità.

Tutta la realtà materiale oggettiva è costituita da massa materiale (atomi e particelle subatomiche dotate di massa) ed energia (massa materiale o materia in movimento ovvero, in altri termini, movimento della materia e, dunque, delle particelle di materia, comprese le particelle costitutive della radiazione e dell’energia luminosa, dette fotoni, che, come tutte le altre particelle materiali, hanno anche proprietà ondulatorie); materia ed energia sono pertanto due forme equivalenti e simmetriche (uguali anche se distinte) della medesima sostanza materiale universale assoluta, infinita ed eterna, in continuo movimento dialettico-evolutivo. L’energia, in tutte le sue forme (cinetica, potenziale, termica, luminosa, costituita da radiazioni di vari tipi), infatti equivale (è “uguale”) alla massa materiale in movimento (alla materia in movimento ossia al movimento della materia) ed è prodotta continuamente da tale movimento materiale di atomi e particelle subatomiche; più precisamente, essa è uguale al prodotto della massa materiale per la sua velocità di movimento, in modo tale che la realtà materiale universale risulta costituita unitariamente, ed in una dimensione infinita ed eterna, dalla continua e dialettica conversione/trasformazione della massa materiale in movimento in energia attraverso una relazione proporzionale (una relazione di “uguaglianza proporzionale”) al quadrato della velocità di movimento della massa stessa, e, viceversa, dell’energia in massa materiale, all’interno di un ciclo universale tendenzialmente eterno ed infinito[1]. Si può a ragione affermare, dunque, che l’intero universo è retto da un principio fondamentale di uguaglianza proporzionale generale tra le sue parti costitutive; la coscienza, il pensiero, la ragione e lo “spirito” sono un prodotto di questa struttura dinamica universale, connesso a determinate forme di organizzazione delle particelle di materia, delle forze fondamentali che interagiscono tra tali particelle e dell’energia generata dal loro movimento.

In altri termini, l’Universo materiale (che con elevata probabilità logica e credibilità razionale è eterno ed infinito, sia nel caso in cui sia un universo infinito oscillante tra fasi continue e successive di espansione e di contrazione, sia nel caso in cui si tratti di un Universo infinito in eterna espansione e sia nell’ipotesi di un universo “stazionario” ed infinito che genera continuamente ed eternamente materia ed energia) si regge su un principio razionale e dinamico-dialettico di equilibrio, equivalenza o uguaglianza proporzionale e bilanciamento costante tra le sue forze fondamentali (gravitazionale, elettromagnetica e nucleare), le particelle costitutive della materia tra le quali le forze stesse interagiscono e l’energia (elettromagnetica, gravitazionale e nucleare) prodotta da tale interazione e dal connesso movimento materiale, posto che nella struttura della materia la forza gravitazionale (che tende all’aggregazione ed alla concentrazione della materia ed agisce anche sui fotoni, le particelle prive di massa costitutive della radiazione luminosa) è costantemente controbilanciata ed equilibrata dalle forze elettromagnetica e nucleare, in un processo non statico ma dinamico-evolutivo che ristabilisce continuamente le condizioni di uguaglianza/equivalenza e di equilibrio complessivo.

Nei corpi di grande massa dell’Universo (pianeti e stelle) la pressione della forza gravitazionale della materia, che tende a concentrarsi, ad aggregarsi ed a convergere verso il centro (comprimendo il nucleo interno), viene controbilanciata, equilibrata ed eguagliata dalla forza elettromagnetica delle orbite elettroniche degli atomi costitutivi della parte centrale (nei pianeti) e dalle reazioni di fusione nucleare tra i nuclei di idrogeno (nelle stelle, che hanno massa maggiore dei pianeti ed in cui la pressione gravitazionale “rompe” le orbite degli elettroni e consente ai nuclei di idrogeno di fondersi in nuclei di elio più pesanti, liberando un’enorme quantità di energia termica e luminosa e controbilanciando, con la forza nucleare degli atomi interni, la pressione gravitazionale degli strati esterni di materia).

In modo analogo a quanto accade nella realtà naturale, un sistema sociale (anch’esso parte e prodotto della stessa realtà materiale) è tanto più razionale, equilibrato e stabile quanto più è “giusto” ovvero effettivamente fondato su principi razionali di uguaglianza formale e sostanziale nell’attribuzione e nella garanzia/tutela paritaria di tutti i “diritti fondamentali” nei confronti di tutti i consociati coscienti e senzienti (umani e non umani) e nella distribuzione egualitaria dei beni e delle risorse sociali tra tutti i suoi membri.

Si tratta ovviamente di un equilibrio non meramente meccanico, ma dinamico e dialettico, che si inserisce cioè nello sviluppo del movimento dialettico generale della realtà materiale e sociale e che ripristina continuamente le condizioni di uguaglianza e stabilità in forme più avanzate e progredite, attraverso la sintesi ed il superamento delle contraddizioni, degli squilibri e delle disuguaglianze che si producono oggettivamente di volta in volta; un equilibrio che si evolve progressivamente verso forme di uguaglianza razionalmente più sviluppate e che si fonda, in ultima istanza, sullo stesso movimento dialettico della realtà materiale (costituita dalla continua aggregazione e disaggregazione dinamica di molecole, atomi e particelle subatomiche connesse tra loro da forze fisiche).

In tale contesto si inserisce il principio di assoluta, universale ed indefettibile uguaglianza di tutti gli esseri viventi coscienti e senzienti con riferimento alla pretesa ed all’obbligo di rispetto del diritto fondamentale alla dignità personale (e del valore intrinseco ed assoluto) di ciascuno di essi, in ragione del fatto che tutti gli esseri viventi dotati di coscienza e razionalità soggettiva - cioè dotati di un qualunque livello di capacità “razionale” di rappresentazione intellettiva (ed astratta) della concreta realtà oggettiva, di “sensibilità”, cioè di capacità di percepire attraverso i sensi la realtà esterna e di provare “stati psico-fisici” (dolore/sofferenza e piacere) causati dagli eventi (esterni o interni) percepiti, nonché di conseguente capacità di interagire attivamente con la stessa realtà oggettiva adottando comportamenti improntati ad una “razionalità strumentale” ossia adeguati e coerenti rispetto alla realizzazione di finalità essenziali chiare e prefissate o predeterminate - sono essenzialmente “razionalità vivente”, materia (atomi e molecole) organizzata, dotata (in misura diversificata e gradata) di sensibilità, coscienza e razionalità soggettiva, aggregazione ed interconnessione materiale complessa intrinsecamente e strutturalmente razionale, che produce e genera la coscienza, lo “spirito”, la ragione e l’intelletto soggettivi (parti integranti di una complessiva razionalità oggettiva, universale ed infinita, propria della stessa struttura profonda della realtà materiale).

Ciò comporta per l’essere umano (e quindi per il soggetto dotato del massimo grado di libertà, coscienza e razionalità) l’obbligo morale (e giuridico) di trattare tutti gli esseri viventi potenzialmente coscienti e senzienti (umani e non umani) sempre anche come “fini” (come finalità razionali assolute) e mai soltanto come “mezzi” o “strumenti” (Kant).

La premessa logica ineludibile è che il diritto alla dignità della “persona” ed il connesso obbligo giuridico universale di rispettarlo (ovvero il diritto e l’obbligo di “giusta”/ragionevole considerazione e rispetto universali per l’essere vivente in quanto tale, nella misura in cui esso è ontologicamente portatore di essenziali ed intrinseci valori, finalità e principi di natura morale/spirituale e razionale) costituiscono un diritto/dovere fondamentale assoluto, inviolabile, inderogabile ed incomprimibile spettante in modo generale/onnicomprensivo a tutti gli esseri viventi coscienti e senzienti (umani o non umani), senza eccezioni o distinzioni discriminatorie ed in posizione di assoluta e reciproca parità ed uguaglianza sostanziale universale; esso, inoltre, è anche la condizione necessaria ed il presupposto logico-giuridico imprescindibile ed ineliminabile di tutti gli altri diritti fondamentali della personalità.

Il discorso relativo al rispetto della dignità umana in generale deve quindi essere razionalmente esteso anche al rispetto della dignità di tutti gli esseri viventi non umani dotati di un minimo e ragionevolmente “sufficiente” grado di coscienza e sensibilità, proprio in ragione dell’obbligo morale e giuridico assoluto di rispettare e considerare l’essere vivente non umano in quanto ontologicamente tale ed in quanto ente biologico senziente e cosciente, cioè portatore della capacità di percepire la realtà esterna, di rappresentarsela a livello intellettivo o cerebrale e di comprenderla a fini interattivi, nonché di provare emozioni e sensazioni (stati psico-fisici di sofferenza e/o benessere) in rapporto alla stessa percezione sensibile della realtà oggettiva esterna.

In questo senso, alla base del principio di uguaglianza e di pari dignità generale di tutti gli esseri viventi coscienti e senzienti, vi è il fatto inoppugnabile che sensibilità, pensiero, intelletto, coscienza, ragione e “spirito” (secondo la concezione filosofica materialistica riconducibile a Marx, Engels e Lenin) sono un prodotto dialettico-evolutivo della materia universale (assoluta, infinita ed eterna), organizzata e strutturata in determinate forme, articolazioni ed aggregazioni complesse di particelle subatomiche, atomi e molecole; essi, in altri termini, sono proprietà intrinseche della materia, cioè della realtà materiale oggettiva, proprietà che assumono gradi di complessità evolutiva massimi negli esseri umani, ma che non sono affatto esclusive della specie umana, essendo presenti, in stadi e livelli evolutivi inferiori, gradati e diversificati (ma comunque significativi e rilevanti), in molte altre specie animali (o meglio, in tutte le specie animali “superiori” sul piano del processo biologico evolutivo).

Il concetto ed il principio di uguaglianza “formale” (o “giuridica”) consiste nell’uguale trattamento normativo di situazioni simili (o “uguali”) in modo giuridicamente rilevante (ed appartenenti ad una stessa classe logica generale/universale sulla base di determinate caratteristiche comuni rilevanti) e nel diverso e razionale/logico trattamento normativo di situazioni dissimili (o “disuguali”) in modo giuridicamente rilevante (ed appartenenti a diverse classi logiche generali sulla base di determinate caratteristiche non comuni rilevanti).                                                                                                                           

L’uguaglianza (nucleo logico del concetto di “giustizia”) è un principio ed un concetto di carattere intrinsecamente universale (o generale), che, di per sé, presuppone l’universalità degli ambiti di sua applicazione, interessando, in modo assolutamente paritario/equivalente, tutte le situazioni, i soggetti e le fattispecie appartenenti ad una classe logica “aperta” e costituita da tutti gli elementi individuali aventi determinate caratteristiche o “proprietà” comuni e rilevanti; peraltro, essa, come principio giuridico generale, si riferisce segnatamente ad una serie di situazioni ed attributi che attengono allo sviluppo della personalità umana ed alla dignità stessa dell’essere umano.

Inoltre, per quanto riguarda l’attribuzione di alcuni diritti fondamentali della personalità (vita, dignità, integrità e benessere psico-fisico, libertà personale e liberazione dall’oppressione etc.), l’uguaglianza è il principio universale e razionale che regola la distribuzione ed il conferimento di tali diritti a vantaggio di tutti gli individui appartenenti alla più ampia classe logica generale degli “esseri viventi dotati di un qualunque grado (anche “potenziale”) di sensibilità e coscienza”, in posizione di assoluta parità ed equivalenza reciproca, senza alcuna arbitraria ed irrazionale discriminazione o distinzione.

In questo senso, l’uguaglianza è il principio cardine che consente la liberazione di ogni essere umano (e, più in generale, di ogni essere vivente cosciente e senziente) da ogni possibile connotazione e marchio irrazionale di minorità, di inferiorità e di discriminazione (irragionevole ed ingiusta).

Il principio di uguaglianza, nel suo contenuto logico-prescrittivo essenzialmente giuridico, assume quindi una dimensione effettivamente e sostanzialmente universale in ragione del fatto che esso vale indistintamente per “tutte le persone” (cioè per tutti i “soggetti di diritto” a prescindere dalla condizione formale di “cittadino”). Inoltre, data l’ampiezza del catalogo delle discriminazioni espressamente vietate dalle varie norme (interne ed internazionali) di riferimento, le posizioni giuridiche soggettive tutelate dal principio di uguaglianza costituiscono un elenco non esaustivo, che può essere ampliato, in via interpretativa, in funzione della copertura di potenziali nuove esigenze di protezione; e tra le nuove esigenze di protezione giuridica figurano sicuramente quelle funzionali alla tutela egualitaria dei diritti fondamentali (vita, integrità psico-fisica, dignità, libertà e benessere complessivo) delle specie animali non umane dotate (a vari livelli) di coscienza e sensibilità o senzienza.

In definitiva, il principio ed il concetto di uguaglianza vengono ricondotti alla loro dimensione universale, che è quella di un principio generale che ricomprende il divieto di ogni possibile discriminazione (arbitraria, irrazionale, ingiusta e lesiva della dignità personale non solo degli esseri umani, ma anche, in senso più ampio ed onnicomprensivo, di ogni essere vivente cosciente e senziente) ed aspira ad informare di sé l’intero ordinamento giuridico con un’efficacia immediata e diretta.

L’uguaglianza è un principio intrinsecamente razionale, in quanto, come sopra accennato, è espressione diretta della razionalità complessiva ed oggettiva interna alla realtà materiale universale, cioè della razionalità e dell’“intelletto” universali che pervadono la materia (assolutamente eterna ed infinita) costituente il substrato sostanziale della realtà universale, nella sua dimensione unitaria ed onnicomprensiva oltre che nel suo processo di sviluppo evolutivo e dialettico.

In altri termini, l’uguaglianza, l’equilibrio e l’equivalenza tra le parti e le forze che costituiscono la materia in relazione ai processi dinamico-dialettici di continua aggregazione e disaggregazione degli stessi atomi materiali (e delle particelle subatomiche che li compongono), sono una parte essenziale di tali processi materiali (nei quali le fasi ed i fattori di squilibrio, disuguaglianza ed instabilità vengono costantemente e dialetticamente superati da fasi superiori di equilibrio, uguaglianza e stabilità); processi che, a loro volta, sono governati e diretti da una razionalità complessiva universale (intrinseca alla materia assoluta/infinita ed oggettiva), da una “ragione” e da un “intelletto” generali (di cui la ragione e l’intelletto umani sono parte integrante) che operano all’interno della stessa realtà materiale (essendone un prodotto ed una proprietà inscindibile) e la indirizzano, facendole assumere infinite forme ed articolazioni progressivamente dotate di maggiore razionalità e perfezione (e costituendone la finalità essenziale ed il fondamento razionale giustificativo ultimo).

In questo quadro gli esseri umani, gli animali, le piante ed in generale tutta la natura, hanno in comune, come principio e causa unica, la stessa identica essenza sostanziale materiale; sono cioè sostanzialmente “uguali” in quanto costituiti dalla stessa, unica ed unitaria, sostanza materiale universale (eterna e infinita), essendo dunque l’espressione particolare, in varie forme, gradi e livelli più o meno sviluppati, della stessa razionalità generale, intrinseca, interna o insita nella realtà materiale universale e quindi propria di tale unica/unitaria realtà organizzata in molteplici e diversificate strutture.

Ciò evidentemente significa che, nella profonda ed assoluta unità della realtà oggettiva, si realizza appieno un universale e completo principio di “uguaglianza sostanziale” tra le singole parti che compongono il tutto; il che implica la necessità di stabilire anche un generale principio di “uguaglianza formale” ovvero giuridica tra gli esseri viventi coscienti e senzienti che costituiscono parte della stessa realtà materiale.

L’idea della profonda razionalità ed unità del reale, prima ancora di essere perfezionata da Hegel, è stata in origine intuita dal filosofo italiano Giordano Bruno, il quale ha definito l’“intelletto universale” come causa efficiente, formale e finale, intrinseca a tutte le cose della realtà materiale e che tutto produce; esso è interno alla materia e in essa conduce all’esplicazione di tutte le forme che la stessa materia assume, suscitando gli infiniti processi di generazione, trasformazione e corruzione che costituiscono il mondo della vita. Esso è causa efficiente, ma anche formale perché possiede in sè stesso, “secondo certa raggion formale”, le specie delle cose che perennemente produce, ed è causa finale perché ha in sé il suo fine, la perfezione dell’universo, che si identifica con il pervenire ad esistenza di tutte le forme dell’essere.  

L’intelletto universale viene, dunque, descritto da Bruno come causa efficiente, formale e finale, fattore intrinseco alla materia, agente efficiente e ordinatore, in virtù del quale le forme, che ha già in sé, sono diffuse nella materia; esso viene considerato come l’artefice che presiede i cicli biologici ad ogni livello della realtà e crea le innumerevoli “figure” in cui l’essere si manifesta, realizzando così la sua finalità (intrinsecamente razionale), la perfezione dell’universo, che coincide con l’esplicarsi dell’infinita varietà delle differenti forme particolari della materia. L’azione dell’intelletto universale si esplica in modo sostanzialmente analogo (o “uguale”) nelle piante e negli animali, diffondendo la vita, nei semi, nelle fronde e nelle radici così come nelle membra e negli organi dei corpi.

Gli esiti dell’indagine bruniana sull’intelletto universale confluiscono nella riformulazione del concetto di materia, che è al centro dell’ontologia del filosofo, in quanto la materia stessa rappresenta l’essenza sostanziale unica, unitaria, eterna ed infinita dell’essere e della realtà universale; la potenza razionale insita nella materia, intesa come infinito, sostanziale ed essenziale principio universale, è la capacità di trarre da sé stessa tutte le innumerevoli forme universali, facendosi dunque “atto” e realizzando la sua ultima finalità razionale che è quella di assumere le infinite forme dell’essere in un processo continuo, ininterrotto ed eterno: il poter essere coincide quindi con l’essere.

Si manifesta così la visione dell’universo “unitario”, infinito ed eterno, entro cui sussiste, nella sua altrettanto infinita varietà, la dimensione (egualitaria) delle cose sensibili; rispetto all’unica sostanza materiale, le cose sono accidenti innumerevoli e transeunti che nell’eterno moto della “vicissitudine” sono perennemente soggetti alla mutazione, allo sviluppo dialettico, al movimento incessante, alla trasformazione attraverso l’aggregazione e la disaggregazione di atomi e particelle, la generazione, la crescita, la corruzione, l’alterazione e la riaggregazione continua, all’interno della stessa materia o sostanza universale unica, costante ed inalterabile.

L’unità della materia-sostanza, ovunque presente nella sua potenza generativa, assoluta, infinita ed eterna, in perpetuo movimento e trasformazione dialettica, garantisce la sostanziale unità del reale ed implica la realizzazione di un universale principio di uguaglianza sostanziale nella misura in cui determina la caduta di ogni differenza e gerarchia ontologica tra le varie forme organizzative dell’essere materiale: rispetto all’unità infinita ed eterna della sostanza materiale è indifferente (ed “uguale”) l’essere “uomo”, “stella” o “formica” – tutte manifestazioni particolari dell’essere ugualmente appartenenti alla dimensione del transitorio e del movimento perenne e mutevole di trasformazione dialettica del reale – a causa del fatto che essi, come tutti gli enti e tutte le cose, traggono origine dall’unica materia-sostanza universale e di essa sono costituiti[2].

In questa prospettiva, l’atomo, come elementare struttura corpuscolare della materia, indivisibile ed indistruttibile “minimo fisico” organizzato e strutturato (a sua volta costituito da particelle subatomiche, forza ed energia), non è interpretato in una semplice dimensione meccanicistica, ma come attivo e animato principio di vita che è a fondamento della costituzione di tutti i corpi, i quali hanno dunque la struttura di composti, generandosi per aggregazione e corrompendosi/trasformandosi per disgregazione[3].

L’atomo è dotato quindi di una sua intrinseca razionalità e di un suo equilibrio; in ragione di ciò sono dotate di un’intrinseca razionalità ed equilibrio tutte le forme materiali di aggregazione strutturale degli atomi, le loro trasformazioni dinamiche mediante disaggregazioni e nuove riaggregazioni più stabili ed equilibrate.

E’ proprio tale intrinseca ed oggettiva razionalità strutturale e funzionale della realtà materiale e dei suoi elementi costitutivi (gli atomi e le loro aggregazioni) che determina e produce (sul piano causale ed in alcune superiori e complesse forme organizzative di tipo organico) facoltà e proprietà “spirituali” come la coscienza, il pensiero, l’intelletto e la ragione soggettiva (individuale e collettiva), oltre che, prima ancora, la sensibilità intesa come capacità soggettiva di percezione sensoriale della realtà esterna e di reazione psico-fisica e comportamentale ad essa. Queste sono, dunque, tutte proprietà e facoltà intrinseche della materia ed in essa trovano il loro fondamento razionale giustificativo, nel senso che sono prodotte e generate dalla stessa materia universale (infinita, assoluta, unica/unitaria ed eterna) organizzata in determinate e transitorie forme strutturali più o meno complesse e relativamente stabili, nel suo continuo, ininterrotto ed eterno processo di evoluzione dialettica e progressiva.

I germi della esposta concezione materialistica della realtà (sviluppata e perfezionata da Marx, Engels e Lenin) trovano pertanto, in parte, le loro origini anche nella filosofia dell’italiano Giordano Bruno, il quale arriva inoltre a teorizzare una basilare “coincidentia oppositorum”, cioè una coincidenza, compenetrazione e sintesi (in senso ampio e latamente “dialettico”) degli opposti, dei contrari, all’interno di un’unità superiore ed onnicomprensiva costituita dall’infinita unità universale, che sussiste al di là di ogni distinzione e differenza: infinita, una, incorruttibile ed immutabile, la materia-sostanza, per Bruno, contiene in sé tutte le altrettanto infinite possibilità evolutive e dinamiche dell’essere ed è principio universale di vita[4].

La caduta di ogni gerarchia tra le forme e gli enti particolari nella prospettiva dell’unità assoluta e sostanziale del reale, consistente in un’unica, infinita ed eterna materia universale (permeata intrinsecamente da un unico intelletto altrettanto universale) rispetto alla quale le molteplici e determinate esplicazioni dell’essere appaiono come realtà “accidentali”, mutevoli, transitorie e dinamiche per continua aggregazione e disaggregazione di atomi, implica che l’uomo non abbia uno statuto ontologico superiore a quello di qualsiasi altra forma di vita; l’universo come spazio infinito ed eterno in cui si colloca una pluralità infinita di enti materiali composti dai medesimi elementi dislocati nello spazio e nel tempo, comporta quindi la negazione della tradizionale prospettiva antropocentrica[5].

Nella “Cabala del Cavallo Pegaseo” Bruno, coerentemente con la sua visione, afferma dunque che l’anima dell’uomo non differisce nella sostanza da quella degli animali, ma è sostanzialmente uguale ad essa (essendo entrambe parti dell’unico ed infinito intelletto universale), come è uguale (è esattamente identica) la sostanza materiale di cui esseri umani ed animali sono costituiti, in accordo con la centralità del principio materiale e con l’ammissione della trasmigrazione delle anime da un corpo all’altro, la quale avviene secondo il criterio per cui la specificazione dell’unica forma universale (o “anima del mondo”) in una determinata forma particolare, dipende dalla specifica accidentale disposizione della materia; i diversi gradi di intelligenza e di capacità operativa dipendono quindi dall’accidentale configurazione materiale in cui la singola anima di volta in volta si trova[6]. In definitiva, la natura, infinita ed omogenea nella sua sostanza universale, è costituita da un’unica materia “attiva” che si configura come eterna generazione di vita, perenne e multiforme; la presenza, nella materia universale, di un principio spirituale di ordine razionale ed infinito (“anima del mondo”) unisce ovunque in un’intima connessione generale ed onnicomprensiva ogni esplicazione particolare dell’essere, cui è quindi intrinseco un unico senso, un unico intelletto ed un unico spirito universali.

Per cui il principio della presenza di un intelletto universale, infinito ed eterno, all’interno di una materia altrettanto universale, infinita ed eterna, costituisce il fondamento della sostanziale unità razionale di tutta la realtà materiale e fa sì che ogni cosa sia sostanzialmente connessa ad ogni altra cosa ed al tutto.[7]                                                       

  1. L’evoluzione storica progressiva del concetto di uguaglianza ed il pensiero di Marx, Engels e Lenin: la connessione esistente tra lotta di classe, diritti sociali, “socialismo giuridico” e rivoluzione socialista.

L’evoluzione successiva del pensiero filosofico e scientifico ha portato ad affermare compiutamente (con il materialismo dialettico di Engels, Marx e Lenin, eredi diretti anche e soprattutto della dialettica di Hegel) che l’essere umano (ed in generale, in misura differenziata e gradata, tutti gli esseri viventi senzienti e coscienti), con la sua sensibilità, la sua coscienza, il suo pensiero, il suo intelletto e la sua ragione (ossia la capacità/proprietà soggettiva di elaborare concettualmente il dato sensibile e la percezione sensoriale della realtà oggettiva, di connettere logicamente i concetti astratti ed universali ricavati induttivamente dalla unificazione intellettiva della molteplicità del reale e riflettenti la essenziale ed unitaria struttura logico-razionale della stessa realtà materiale, ovvero i concetti riflettenti/riproducenti la necessaria e dialettica connessione di derivazione causale che governa, in modo intrinsecamente razionale, l’insieme di tutti gli elementi che costituiscono le essenziali porzioni della medesima realtà materiale oggettiva), è esso stesso materia cosciente/razionale e senziente, nonché elemento costitutivo della complessiva materia universale, anch’essa, nel suo flusso dialettico-evolutivo e nelle correlazioni causali reciproche dei suoi elementi costitutivi, necessariamente ed intrinsecamente razionale.

Ciò in quanto la realtà materiale universale assume, nel suo continuo processo di sviluppo, nel suo movimento dialettico – attraverso il quale essa si trasforma e si evolve -, forme diverse di organizzazione (più o meno complesse) e corrispondenti diversi livelli/gradi, più o meno sviluppati, di sensibilità (nel senso di capacità di percezione sensoriale del mondo esterno e di conseguente capacità di “sentire” o provare sensazioni), di coscienza ed autocoscienza, di pensiero e di intelletto o ragione (tutte “proprietà della materia in movimento”). All’interno di questo onnicomprensivo divenire storico-naturale, l’uomo, gli animali, le piante (materia organica) e la materia inorganica sono evidentemente parti (“sostanzialmente uguali/equivalenti” anche se “formalmente differenti”) del tutto, in stretta ed indissolubile relazione dialettico-razionale reciproca e con la stessa totalità universale del reale.

In questo senso, V. I. Lenin, in “Materialismo ed empiriocriticismo” (1908-1909, trad. it., Milano, 2004), afferma: “(…) il materialismo, in pieno accordo con le scienze naturali, considera come dato primordiale la materia e come dato secondario la coscienza, il pensiero e la sensazione; poiché la sensibilità è connessa, in una forma chiaramente espressa, unicamente alle forme superiori della materia (materia organica), mentre nelle fondamenta dell’edificio stesso della materia si può soltanto supporre l’esistenza di una facoltà simile alla sensibilità. (…)” (e, dunque, si potrebbe logicamente supporre anche la presenza di una facoltà simile alla coscienza, al pensiero, all’intelletto razionale, connessa alla struttura universale fondamentale ed onnicomprensiva della realtà materiale); la sensazione è cioè “connessa soltanto a determinati processi che si svolgono nella materia organizzata in un determinato modo (…)” e le vere concezioni dei materialisti “non consistono nel dedurre la sensazione dal movimento della materia o nel ridurre la sensazione al movimento della materia, ma nel considerare la sensazione come una delle proprietà della materia in movimento (…). Le scienze naturali affermano con sicurezza che la Terra esisteva in condizioni tali che né l’uomo né in generale qualsiasi altro essere vivente esisteva e poteva esistere su di essa. La materia è primordiale, il pensiero, la coscienza, la sensazione sono il prodotto di uno sviluppo molto elevato. Questa è la teoria materialistica della conoscenza, sulla quale poggiano istintivamente le scienze naturali”[8].

Ne deriva che, per il materialismo dialettico, le idee, i concetti (con le loro connessioni/correlazioni logico-dialettiche, che procedono partendo dalla contrapposizione iniziale tra “tesi” ed “antitesi” ed arrivando successivamente alla loro conseguente “mediazione dialettica” - attraverso un reciproco collegamento/compenetrazione sostanziale - all’interno di una “sintesi” superiore unitaria ed onnicomprensiva, la quale ricomprende e valorizza, ad un stadio più elevato, tutte le parti progressive ed essenziali delle posizioni in origine contraddittorie) costituiscono il riflesso universale (la riproduzione o la rappresentazione logico-concettuale), nella coscienza e nel pensiero umano (ma, sia pure a livello quantitativamente inferiore e molto meno sviluppato, anche nella coscienza e nell’intelletto degli animali non umani “superiori” ossia più evoluti dal punto di vista biologico-naturale), della stessa realtà materiale oggettiva con il suo profondo sviluppo dialettico, sviluppo che segue la stessa struttura logico-razionale “dialettica” che caratterizza il pensiero soggettivo degli esseri umani e che ricomprende necessariamente anche lo stesso pensiero e la stessa coscienza individuale e collettiva di tutti gli esseri viventi coscienti e senzienti in perenne evoluzione.

Essi (i concetti e le idee particolari ed universali) cioè costituiscono l’astrazione, la progressiva generalizzazione/universalizzazione e l’unificazione intellettivo-razionale (“induttiva” ovvero che procede dal particolare per ricostruire logicamente il generale e l’universale) della molteplicità del dato sensibile, della pluralità dei “fatti” (o “elementi fenomenici”) materiali oggettivi percepiti attraverso i sensi, nella loro connessione/correlazione non solo dialettica ma anche di derivazione causale reciproca, basata su criteri di elevata probabilità logica o credibilità razionale, per cui classi generali di fenomeni, fatti o eventi sono condizione necessaria antecedente di altre classi generali di fenomeni, fatti o eventi.

Il pensiero (l’intelletto e la ragione), la coscienza e la “conoscenza” sono dunque il prodotto dell’evoluzione storico-naturale della realtà materiale complessiva ed universale (che li produce, li implica e li include nella sua struttura intrinsecamente e sostanzialmente razionale) e la dialettica è “la forma di pensiero più importante, perché essa sola offre le analogie ed i metodi per comprendere i processi di sviluppo della natura”[9]; per Engels (e per Marx) la dialettica (la logica della compenetrazione/connessione/correlazione degli opposti, delle “contraddizioni” nella loro continua sintesi superiore, unitaria ed onnicomprensiva) è la logica (la “ragione” ovvero la “razionalità necessaria”) attraverso cui tutto l’essere reale (tutto ciò che esiste) si muove, si sviluppa, scorre e si trasforma; ciò implica che, posta l’indissolubile unità del reale (cioè di ragione/pensiero e realtà), se l’essenziale struttura del pensiero è una struttura dialettico-razionale, a questa deve necessariamente corrispondere, come suo fondamento generatore, una analoga struttura dialettico-razionale dell’intera realtà materiale infinita ed assoluta (che in essa ricomprende ed assorbe – come l’universale implica l’elemento particolare e come il tutto ricomprende la parte – la stessa struttura dialettico-razionale del pensiero soggettivo individuale e collettivo), altrimenti vi sarebbe un’irrazionale dualismo (una scissione insanabile ed illogica) tra pensiero e realtà e la “prassi” umana (cioè l’attività teorico-pratica di interazione con la realtà e di trasformazione della stessa) sarebbe inefficace ed impossibile.

Riassumendo: la realtà materiale complessiva integra un unico (assoluto, infinito ed universale) processo dialettico-razionale incentrato sulla necessaria connessione/concatenazione causale e “logica” di tutti gli enti che costituiscono il reale (inteso come unità dialettica di ragione/pensiero o razionalità soggettiva e realtà naturale); esso si sviluppa in una continua ed ininterrotta evoluzione dinamica che rappresenta appunto il movimento di trasformazione dialettica della realtà stessa nella sua intima ed intrinseca razionalità. Le idee, il pensiero, la ragione e la coscienza (come proprietà soggettive) riflettono sul piano “logico-concettuale” tale movimento dialettico della realtà e la sua più ampia ed onnicomprensiva razionalità oggettiva, sostanziale ed universale, essendo la coscienza una “proprietà” connessa a determinate “forme di organizzazione della materia”[10], che esprime l’essenza razionale della medesima materia in continuo sviluppo, ed essendo la razionalità soggettiva prodotto e parte integrante di una più generale ed universale razionalità oggettiva propria della complessiva realtà materiale.

Tornando al concetto ed al principio razionale di uguaglianza (giuridica) universale ed alla storia del suo sviluppo dialettico, lo stesso Marx rileva come, con la grande e progressiva Rivoluzione francese, la borghesia in ascesa storica, al grido di “libertà, uguaglianza e fraternità”, ha giustamente (e necessariamente) spezzato l’iniquo dominio aristocratico e feudale, che rappresentava l’istituzionalizzazione della disuguaglianza giuridica tra gli uomini “per volere divino” (e ciò, dopo avere spezzato, nel corso dei secoli, gli stessi rapporti feudali strutturali di produzione materiale). La creazione del mercato mondiale capitalistico aveva bisogno di libertà ed uguaglianza universali tra gli individui: la generalizzazione e l’universalizzazione dei rapporti economici di scambio e di compravendita (innanzitutto di scambio e compravendita di forza-lavoro) necessita infatti di soggetti formalmente ed astrattamente (quindi, “razionalmente” secondo un criterio di razionalità astratta) “liberi ed uguali”.

Marx nota, nel “Capitale” (Libro I, 1867) come il mercato sia “l’Eden dei diritti naturali dell’uomo (…). Libertà! In quanto l’acquirente e venditore di una merce, per esempio, della forza lavorativa, sono spinti dalla loro libera volontà. Fanno il loro contratto quali persone libere, uguali giuridicamente. Il contratto è il risultato ultimo in cui le loro volontà ricevono una comune espressione giuridica. Uguaglianza! In quanto essi si pongono in reciproco rapporto solo quali possessori di merci, e permutano equivalente con equivalente. Proprietà! In quanto ognuno dispone solo di quel che gli è proprio”[11].

Quindi, anche l’utilizzo della forza-lavoro passa, nella sua compravendita o scambio economico, attraverso la formale uguaglianza giuridica del contratto di lavoro (del negozio giuridico di scambio equivalente ed “uguale” tra forza-lavoro e salario o retribuzione); ma, a fronte di ciò, la disuguaglianza sostanziale tra sfruttatore (possessore/proprietario dei mezzi o strumenti di produzione) e sfruttato (possessore/proprietario della forza-lavoro scambiata nel contratto con la corrispettiva retribuzione) si impone brutalmente sul piano sociale mediante la differente capacità di appropriarsi e di godere del valore aggiuntivo (o plusvalore) prodotto dall’attività lavorativa; valore “ulteriore” rispetto al salario corrisposto al lavoratore, di cui si appropria esclusivamente ed integralmente il capitalista (“datore di lavoro”), senza corrispondere alcun corrispettivo al lavoratore (effettivo ed unico produttore di tale valore).

Infatti, “l’antico possessore di denaro s’avvia avanti come capitalista, il possessore di forza lavorativa gli viene dietro come suo lavoratore; il primo col sorriso sulla bocca, pieno di sé e tutto affaccendato, il secondo timido, esitante, come uno che abbia portato al mercato la propria pelle e debba solo aspettarsi la sua conciatura”[12].

Dunque, il diritto (nella sua evoluzione storica e sociale di carattere razionale) prevede, in relazione allo sviluppo del mercato capitalistico e del sistema economico-sociale, la libertà individuale e l’uguaglianza formale, astratta, meramente intellettivo-razionale ed universale, tra le parti di un contratto di lavoro subordinato: ad uguale/equivalente quantità di salario o retribuzione corrisponde, sul piano dello scambio sinallagmatico e della reciproca giustificazione razionale delle prestazioni correlate e corrispettive (causa o funzione economico-sociale oggettiva del contratto), una uguale/equivalente quantità di lavoro fornita, un’uguale quantità di forza, capacità ed attività lavorativa prestata dal lavoratore che la possiede (ne è proprietario) e che si obbliga (volontariamente e liberamente) a venderla e a trasferirla al capitalista (proprietario del mezzi di produzione) verso il corrispettivo costituito dal salario ovvero della prestazione retributiva a cui si obbliga il capitalista nei confronti del lavoratore (in questo contesto, l’uguaglianza è l’uguale valore di tutti i lavori umani in quanto entità costituite essenzialmente e sostanzialmente da lavoro umano materiale e/o intellettuale). Questo sul piano formale dei diritti soggettivi “uguali”, “liberi” ed “universali” di ciascun cittadino consociato, nonché sul piano del diritto oggettivo universalmente “uguale” per tutti i consociati; sotto il profilo sostanziale, però, non c’è affatto equivalenza o uguaglianza tra le situazioni soggettive (giuridicamente rilevanti) del lavoratore e del capitalista, così come non c’è affatto equivalenza o uguaglianza tra le prestazioni reciproche a cui si obbligano lo stesso capitalista e lo stesso lavoratore, in quanto la quantità di lavoro prestata dal lavoratore (ed il valore economico prodotto da essa) è di gran lunga superiore al salario corrisposto dal capitalista, il quale si appropria (sotto forma di profitto), senza corrispondere alcun corrispettivo al lavoratore, della quota di valore supplementare (o di valore “ulteriore”) prodotto dal lavoratore stesso (plusvalore) nello scambio economico-negoziale.

L’uguaglianza sostanziale, che può essere realizzata compiutamente solo dal “socialismo” all’interno del progressivo sviluppo storico reale della società umana, consiste invece nell’uguaglianza effettiva, concreta, compiuta e strutturale di tutti i lavoratori e di tutti i membri della società umana rispetto alla proprietà giuridica (collettiva e sociale, cioè riconducibile all’intera società costituita da tutto il popolo lavoratore organizzato istituzionalmente, politicamente e giuridicamente negli “organi consiliari” democraticamente rappresentativi della sua “volontà generale ed unitaria”) ed al controllo/possesso fattuale dei grandi e concentrati mezzi di produzione economica dell’esistenza materiale associata (grandi e medie imprese/aziende), e rispetto alla “universalmente uguale” distribuzione del “valore” prodotto dal “lavoro sociale” (organizzato, interconnesso, cooperativo e combinato) tra tutti i membri della stessa collettività sociale organizzata in (razionale/ragionevole) proporzione egualitaria rispetto al contributo, ai diritti ed ai bisogni fondamentali di ciascun consociato, cioè secondo egualitari criteri di giustizia distributiva.

Sull’evoluzione storica (reale e razionale) del concetto/idea e del principio di uguaglianza giuridica, è esemplare F. Engels, il quale, nell’“Antiduhring” (1878), riproponendo ed approfondendo l’analisi marxiana, afferma: “L’idea che tutti gli uomini hanno qualcosa di comune, è ovviamente antichissima. Ma assolutamente diversa da tutto questo è la moderna rivendicazione dell’uguaglianza; questa consiste invece nel dedurre da quella proprietà comune dell’essere umano, da quell’uguaglianza degli uomini in quanto uomini, il diritto ad un uguale valore politico, ovvero sociale, di tutti gli uomini, o almeno di tutti i cittadini di uno Stato, o di tutti i membri di una società. Prima che da quella originaria idea di una uguaglianza relativa si sia potuta trarre la conclusione di un’uguaglianza di diritti nello Stato e nella società, prima ancora che questa conclusione sia potuta apparire come qualche cosa di naturale e ovvio, dovevano passare millenni, e millenni sono passati. Nelle comunità più antiche, nelle comunità naturali poteva parlarsi di uguaglianza di diritti tutt’al più tra i membri della comunità; va da sé che donne, schiavi, stranieri ne erano esclusi. Fra i greci e fra i romani le disuguaglianze degli uomini avevano un peso molto maggiore di qualsiasi uguaglianza. Che greci e barbari, liberi e schiavi, cittadini e clienti, cittadini romani e sudditi romani (per usare un termine comprensivo) potessero pretendere parità di condizioni politiche, agli antichi necessariamente sarebbe parso pazzesco. Sotto l’impero romano tutte queste differenziazioni a poco a poco si dissolsero, ad eccezione di quella di liberi e schiavi; si originò di conseguenza, almeno per i liberi, quell’uguaglianza dei privati cittadini sulla cui base si sviluppò il diritto romano, la più perfetta costruzione a noi nota del diritto fondato sulla proprietà privata. Ma fino a quando sussistè la contrapposizione di liberi e schiavi, non si potè parlare di conclusioni giuridiche tratte dall’uguaglianza umana in generale (…). Il cristianesimo conobbe solo un’uguaglianza di tutti gli uomini, quella dell’uguale peccaminosità originaria, che era perfettamente adeguata al suo carattere di religione degli schiavi e degli oppressi. Oltre a questa tutt’al più conosceva l’uguaglianza degli eletti, che però fu accentuata solamente e unicamente agli inizi. Le tracce della comunione dei beni che si trovano del pari agli inizi delle nuova religione si possono ricondurre molto più alla solidarietà dei perseguitati che a vere idee di uguaglianza. Ma ben presto, stabilitasi la contrapposizione tra preti e laici, anche questo inizio di uguaglianza cristiana ebbe fine. L’invasione dell’Europa occidentale da parte dei germani eliminò per secoli ogni idea di uguaglianza, costruendo a poco a poco una gerarchia sociale e politica in una forma così complicata quale mai sino allora era esistita (…). Con questo essa preparò il terreno sul quale, solo in più tarda età, si potè parlare di uguaglianza umana e di diritti dell’uomo. Il medioevo feudale sviluppò inoltre nel suo seno la classe che era chiamata, nel suo sviluppo ulteriore, a diventare la depositaria della moderna rivendicazione dell’uguaglianza: la borghesia. Dapprima ceto feudale essa stessa, la borghesia aveva sviluppato l’industria prevalentemente artigiana e lo scambio di prodotti ad un grado relativamente alto entro la società feudale, quando, con la fine del XV secolo, le grandi scoperte marinare le apersero una carriera nuova e più vasta. Il commercio extraeuropeo, sinora esercitato solo tra l’Italia e il Levante, fu esteso sino all’America e all’India, e presto sorpassò in importanza tanto lo scambio dei singoli paesi europei tra di loro, quanto il traffico interno di ciascun paese singolo. L’oro e l’argento dell’America inondarono l’Europa e penetrarono come un elemento disgregatore in tutti i vuoti, le fessure e i pori della società feudale. L’industria artigiana non fu più sufficiente per i bisogni crescenti e nelle industrie principali dei paesi più progrediti fu sostituita dalla manifattura. A questo imponente rivoluzionamento delle condizioni economiche di vita della società, tuttavia, non seguì affatto immediatamente un cambiamento adeguato della sua organizzazione politica. L’ordinamento statale rimase feudale, mentre la società diventò sempre più borghese. Il commercio su vasta scala, quindi specialmente il commercio internazionale, e ancor più il commercio su scala mondiale, esige liberi possessori di merci, non inceppati nei loro movimenti, che, come tali, siano provvisti di uguali diritti, che scambino sulla base di un diritto uguale per tutti loro, almeno in ogni singolo luogo. Il passaggio dall’artigianato alla manifattura ha come presupposto l’esistenza di un certo numero di liberi lavoratori, da una parte, da vincoli corporativi e, dall’altra, dai mezzi per utilizzare da se stessi la loro forza-lavoro, i quali possano contrattare con il fabbricante per l’affitto della loro forza-lavoro, e quindi essere di fronte a costui come contraenti aventi uguali diritti. E finalmente l’uguaglianza e l’eguale valore di tutti i lavori umani, trovò la sua espressione più forte, anche se inconsapevole, nella legge del valore della moderna economia borghese, secondo la quale legge il valore di una merce viene misurato mediante il lavoro socialmente necessario in essa contenuto (Questa deduzione delle moderne idee di uguaglianza dalle condizioni economiche della società borghese è stata esposta per la prima volta da Marx nel “Capitale” [F.E.]). Ma laddove i rapporti economici esigevano libertà ed uguaglianza dei diritti, l’ordinamento politico opponeva loro, ad ogni passo, vincoli corporativi e privilegi particolari. Privilegi locali, tariffe doganali differenziate, leggi eccezionali di tutte le specie colpivano nel commercio non solo lo straniero o l’abitante delle colonie, ma abbastanza spesso anche intere categorie degli stessi cittadini dello Stato; privilegi corporativi sbarravano dappertutto e sempre di nuovo la strada allo sviluppo della manifattura. Non c’era luogo dove la strada fosse libera e le possibilità uguali per i concorrenti borghesi: eppure questa era la prima e sempre più urgente rivendicazione. La rivendicazione della liberazione dai vincoli feudali e l’instaurazione dell’uguaglianza giuridica mediante l’eliminazione delle disuguaglianze feudali: questa rivendicazione, non appena fu posta all’ordine del giorno dal progresso economico della società, assunse ben presto necessariamente dimensioni sempre maggiori. Ma se essa veniva posta nell’interesse dell’industria e del commercio, la stessa uguaglianza di diritti doveva essere rivendicata per la grande massa dei contadini, che in tutti i gradi della servitù, a partire dalla completa servitù della gleba, dovevano offrire gratuitamente la massima parte della loro giornata lavorativa al grazioso signore feudale ed inoltre pagare a lui e allo Stato anche innumerevoli tributi. D’altra parte non si poteva fare a meno di esigere che parimenti venissero soppressi i privilegi feudali, l’immunità dalle imposte della nobiltà e i privilegi politici dei singoli ceti. E poiché non si viveva più in un impero universale, come era stato l’impero romano, ma in un sistema di Stati indipendenti, le cui relazioni reciproche si muovevano su un piede di parità e nei quali lo sviluppo della borghesia era approssimativamente allo stesso livello, era naturale che la rivendicazione assumesse un carattere generale che oltrepassava i limiti del singolo Stato e che libertà ed uguaglianza fossero proclamate diritti dell’uomo. Così per il carattere specificamente borghese di questi diritti dell’uomo è indicativo il fatto che la Costituzione americana, la prima che riconosca i diritti dell’uomo, confermi nello stesso tempo la schiavitù della gente di colore esistente in America: i privilegi di classe vengono banditi, i privilegi di razza santificati. E’ noto però che la borghesia, dall’istante in cui, come farfalla dalla crisalide, viene fuori dallo stadio di borghesia feudale, dall’istante in cui da ceto medievale diventa una classe moderna, sempre ed inevitabilmente è accompagnata dalla sua ombra, il proletariato. E parimenti le rivendicazioni borghesi dell’uguaglianza sono accompagnate dalle rivendicazioni proletarie dell’uguaglianza. Dall’istante in cui viene posta la rivendicazione borghese della soppressione dei privilegi di classe, accanto ad essa si presenta la rivendicazione proletaria della soppressione delle stesse classi; dapprima in forma religiosa, ricollegandosi al cristianesimo primitivo, più tardi poggiandosi sulle stesse teorie borghesi dell’uguaglianza. I proletari prendono in parola la borghesia: l’uguaglianza deve essere attuata non solo apparentemente, non solo sul piano dello Stato, ma realmente sul piano sociale, economico. E specialmente da quando la borghesia francese, a partire dalla grande Rivoluzione, ha messo in primo piano l’uguaglianza civile, il proletariato francese le ha risposto colpo contro colpo, con la rivendicazione dell’uguaglianza sociale, economica, e l’uguaglianza è diventata il grido di guerra in modo speciale del proletariato francese. La rivendicazione dell’uguaglianza ha così, sulle labbra del proletariato, un duplice significato. O, ed è quanto avviene specialmente nei primi inizi, per esempio nelle guerre dei contadini, è la reazione naturale contro le stridenti disuguaglianze sociali, contro il contrasto di ricchi e poveri, di signori e servi, di crapuloni e affamati; e come tale è semplicemente espressione dell’istinto rivoluzionario, e trova giustificazione in questo contrasto e solamente in esso. O invece è sorta dalla reazione contro la rivendicazione borghese dell’uguaglianza e da questa trae esigenze più o meno giuste che la oltrepassano e serve come mezzo di agitazione per eccitare i lavoratori contro i capitalisti, e in questo caso essa si regge e cade con la stessa uguaglianza borghese. In entrambi i casi l’effettivo contenuto della rivendicazione proletaria dell’uguaglianza è la rivendicazione della soppressione delle classi. (…). Conseguentemente l’idea dell’uguaglianza, tanto nella sua forma borghese quanto nella sua forma proletaria, è essa stessa un prodotto storico e per la sua creazione sono state necessarie condizioni storiche determinate che, a loro volta, presuppongono, esse stesse, una lunga preparazione storica. E’ quindi tutto tranne che una verità eterna. (...)”[13].

Engels, dunque, afferma che l’uguaglianza è un concetto “storico” in quanto determinato, nel suo sviluppo logico-dialettico, dall’evoluzione storica, anch’essa necessariamente dialettica, della realtà materiale oggettiva “naturale” delle formazioni economico-sociali umane, le quali, proprio nella loro razionale evoluzione storico-dialettica, sono a loro volta una parte costitutiva della complessiva infinita ed universale realtà oggettiva materiale/naturale, intrinsecamente razionale con riferimento alla sua struttura essenziale ed al suo continuo ed eterno sviluppo ugualmente logico-dialettico.

L’uguaglianza, quindi, è un concetto “razionale e reale”, un concetto che trova il proprio fondamento razionale giustificativo nella realtà materiale oggettiva della natura e delle società umane; su tali premesse, l’uguaglianza sostanziale (socialista o proletaria) è un concetto più ampio, più generale ed universale, rispetto a quello dell’uguaglianza “formale” (o meramente “giuridica”), in quanto deriva e si origina certamente da quest’ultimo, ma si estende fino ad includere nel suo significato logico anche l’uguaglianza economica e sociale, l’uguaglianza di tutti i lavoratori consociati rispetto alla proprietà (giuridica) ed al controllo/possesso (materiale) dei beni economico-produttivi socialmente rilevanti (le imprese o aziende di rilevanti dimensioni), che devono quindi necessariamente essere di proprietà “comune”, pubblico-collettiva ovvero “sociale” e riconducibile agli stessi lavoratori organizzati sul piano politico-istituzionale nello Stato socialista; tale parità sostanziale di posizioni, di conseguenza, deve ragionevolmente sussistere anche rispetto alla ripartizione/distribuzione (proprio secondo criteri di universale uguaglianza “proporzionale” ai diritti ed ai bisogni fondamentali di natura sociale di tutti i lavoratori posti su un piano di sostanziale e formale parità ed equivalenza) del valore economico e dei “beni sociali” prodotti dal lavoro collettivo associato, combinato, collaborativo ed interconnesso (a cui tutti i membri della comunità sociale hanno il diritto ed il dovere di partecipare secondo le loro capacità, preferenze ed inclinazioni, senza alcuna forma di oppressione o sfruttamento). Tutto questo significa ed implica (sia logicamente che sul piano reale) l’eliminazione, la soppressione definitiva delle classi e delle differenze di classe su cui si fonda lo sfruttamento ed il dominio dei capitalisti nei confronti del lavoro e della classe lavoratrice in tutte le sue articolazioni, con conseguente instaurazione di un sistema economico-sociale socialista/comunista, cioè di un sistema sociale più evoluto e razionale, incentrato sul lavoro collettivo, associato, pianificato e cooperativo e sulla proprietà comune/collettiva dei medi e grandi mezzi di produzione economica, nonché sulla uguale distribuzione sociale delle risorse e dei beni idonei a soddisfare i bisogni ed i diritti fondamentali (individuali e collettivi) di tutti i lavoratori membri della stessa collettività sociale organizzata, secondo razionali principi e criteri di giustizia distributiva ed uguaglianza sostanziale.

Lo stesso Engels afferma che l’idea di uguaglianza “ha un importante funzione teorica, specialmente, grazie a Rousseau, pratico-politica durante e dopo la grande Rivoluzione, e ancora oggi agitatoria nel movimento socialista di quasi tutti i paesi”[14].

Quello tracciato da Engels è il percorso storico che, nel corso dei secoli, sarebbe poi sfociato (sotto la pressione della lotta di classe dei lavoratori e della vittoriosa Rivoluzione socialista dell’Ottobre 1917 in Russia) nel contenuto logico-prescrittivo del concetto di uguaglianza nella tradizione giuridica costituzionale europea: il principio di uguaglianza assume quindi una dimensione effettivamente universale in ragione del fatto che esso vale indistintamente per tutte le “persone” ossia per tutti gli esseri umani (a prescindere dalla condizione formale di “cittadino”), data l’ampiezza del catalogo delle discriminazioni espressamente vietate (tutte quelle basate sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica, le condizioni personali e sociali, le caratteristiche genetiche personali, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, le minorazioni, le patologie o le disabilità, l’età o le tendenze sessuali etc.). Si tratta di un elenco di divieti di operare discriminazioni irrazionali, peraltro, non esaustivo, potendo essere ampliato in via interpretativa in funzione della copertura di potenziali nuove esigenze di protezione; e tra le nuove esigenze di protezione giuridica rientrano sicuramente anche quelle funzionali alla tutela egualitaria dei diritti fondamentali (vita, integrità psico-fisica o salute, dignità, libertà e benessere/equilibrio complessivo personale, liberazione dall’oppressione e dallo sfruttamento) delle specie animali non umane e dotate (a vari livelli) di coscienza e sensibilità o senzienza.

La questione ed il concetto dell’uguaglianza giuridica (formale) vengono dunque ricondotti alla loro dimensione propriamente universale, che è quella di principio generale che ricomprende il divieto di ogni possibile discriminazione (irrazionale, ingiusta e lesiva della dignità dell’essere umano e, in una prospettiva di sviluppo progressivo, di ogni altro essere vivente “senziente”) ed aspira ad informare di sé l’intero ordinamento giuridico con un’efficacia immediata e diretta.

Ma gli ordinamenti costituzionali più evoluti e progressivi (in primis, l’ordinamento costituzionale italiano del 1948, che rappresenta uno dei modelli principali sul punto, essendo stato indirettamente e parzialmente influenzato, attraverso le idee apportate dal Partito Comunista Italiano in seno all’Assemblea Costituente, anche dalla prima Costituzione sovietica bolscevica) prevedono, accanto al principio generale dell’uguaglianza “formale”, un corrispondente principio generale di uguaglianza “sostanziale”, che si connette ed interseca strutturalmente con il primo (lo integra dialetticamente), formando un unitario principio/concetto di uguaglianza “formale-sostanziale”, e che consiste nell’obbligo per i poteri pubblico-collettivi (espressione democratico-istituzionale della stessa collettività sociale organizzata) di superare ed eliminare o abbattere le disuguaglianze economiche e sociali (“fattuali”) esistenti nella società, attraverso un’azione pubblica diretta ad attuare principi di giustizia (re)distributiva delle risorse, delle ricchezze e dei beni sociali secondo criteri di effettiva e sostanziale uguaglianza proporzionale ai diritti fondamentali spettanti a ciascun consociato, in ragione della necessità di riparare o compensare gli svantaggi naturali e sociali esistenti oggettivamente tra classi ed individui. L’art. 3 della Costituzione italiana (voluto dalle forze politiche comuniste e socialiste, principali protagoniste del movimento popolare di resistenza al nazi-fascismo) afferma il principio di “uguaglianza sostanziale” (economico-sociale) e, quindi, di giustizia sociale, in termini di obbligo per la Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Il principio generale di uguaglianza sostanziale fornisce evidentemente la base logico-giuridica necessaria e sufficiente per l’attuazione di azioni pubbliche dirette a vantaggio di categorie o classi sociali svantaggiate/sfavorite sul piano economico-sociale o naturale (quindi svantaggiate sotto il profilo “sostanziale”); l’uguaglianza sostanziale, in altri termini, consente la possibilità di quella continua opera di contaminazione e connessione dialettica tra i principi e gli elementi di giustizia “commutativa” (che si articola sull’uguaglianza proporzionale, sull’equilibrio e sull’equivalenza delle prestazioni e dei beni scambiati nei rapporti giuridico-sociali intersoggettivi) e quelli di giustizia “distributiva” (che implica l’equa/giusta e proporzionalmente “uguale” distribuzione sociale di beni, ricchezze e valore o prodotto collettivi, generati dalla società nel suo complesso con il consenso ed il contributo lavorativo di tutti i suoi membri), che costituisce la modalità basilare di avanzamento delle politiche sociali.

Sul concetto di “giustizia” (incentrato sostanzialmente e necessariamente sul principio di uguaglianza) occorre precisare che esso si traduce in un dovere e in un diritto di uguale trattamento formale e sostanziale, i quali coinvolgono in modo appunto uguale o equivalente, universale, reciproco e corrispettivo, tutti i soggetti che appartengono ad una comunità o ad una collettività sociale organizzata e, quindi, in linea di principio, ogni persona umana, ma anche, sul piano dei diritti soggettivi, ogni essere vivente animale non umano cosciente e senziente, che può essere considerato come appartenente alla medesima comunità sociale, intesa in senso ampio ed onnicomprensivo come comunità biologico-sociale “universale” cui appartengono anche gli esseri umani, ed avente, rispetto a questi ultimi, una posizione strutturale/naturale e biologica di inferiorità, di debolezza e di svantaggio sotto il profilo della capacità intellettiva, dovendo essere giustamente protetto e tutelato nei suoi diritti, interessi e bisogni fondamentali, dagli stessi esseri umani e dalle norme giuridiche prodotte dalla razionalità umana, attraverso obblighi o doveri di comportamento sociale.

La giustizia è precisamente la costante e perpetua volontà razionale, tradotta in norma ed in azione (morale e giuridica) individuale e collettiva, di riconoscere ed attribuire ad ognuno ciò che gli è dovuto (in quanto “proprio”) secondo criteri razionali di uguaglianza proporzionale al diritto, al contributo o al bisogno essenziale di ciascun “consociato”. Perciò, il nucleo logico ineliminabile ed il “mezzo” della giustizia in senso stretto è rappresentato dall’“uguale” (cioè dal criterio dell’uguaglianza formale e sostanziale), che non è una quantità fissa ed astrattamente assoluta, ma variabile secondo un principio di proporzionalità: non si tratta di dare a tutti in modo astrattamente ed assolutamente uguale, ma di dare a ciascuno il “proprio” in proporzione (uguale o equivalente) al suo diritto fondamentale, incomprimibile ed essenziale; la giustizia sostanziale assume forme diverse secondo la natura dei rapporti sociali che ne sono l’oggetto e secondo il criterio dell’uguaglianza proporzionale (al diritto soggettivo, al contributo fornito o al bisogno di fondo ed essenziale di ciascun consociato) applicato per determinare il “proprio” di ognuno[15].

Aristotele parla di giustizia fondata sulla proporzione e sull’uguaglianza e distingue tra: 1) “giustizia distributiva”, che regola i rapporti pubblico-collettivi intercorrenti tra i singoli consociati e la collettività sociale organizzata, con riferimento alla distribuzione di beni, risorse e ricchezze pubbliche secondo criteri di uguaglianza e di proporzionalità rispetto ai diritti, ai contributi ed ai bisogni fondamentali di ciascuno; 2) e “giustizia commutativa o regolativa” che regola i rapporti tra i singoli individui (lo scambio corrispettivo di cose o prestazioni tra privati) e, dunque, i rapporti sociali (giuridicamente rilevanti) tra i singoli esseri umani in posizione di assoluta uguaglianza personale nonché di equivalenza/uguaglianza tra il valore delle prestazioni o dei beni scambiati reciprocamente, nella misura in cui essa tende a “riparare” o “compensare” i danni o gli svantaggi ingiusti subiti da una delle parti del rapporto[16].

Cicerone, nel “De Inventione” scrive: “Iustitia est habitus animi, communi utilitate conservata, suam cuique tribuens dignitatem” (“La giustizia è uno stato morale [un abito dell’animo], osservato per l’utilità comune, che attribuisce a ciascuno la sua dignità”); Ulpiano traduce la definizione di Cicerone in termini giuridici, affermando che “Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi (“La giustizia è la costante e perpetua volontà di attribuire a ciascuno il proprio diritto”).

La giustizia è, dunque, non soltanto una scienza o una “ratio” (una ragione giustificativa di scelte), ma è anche una “volontà” razionale e costante di attribuire a ciascun consociato ciò che può considerarsi il “proprio” sulla base di criteri di uguaglianza proporzionale al legittimo diritto di ciascuno[17].

E’ quindi razionale e necessario (ed è stato necessario sul piano dell’evoluzione razionale della realtà storico-sociale) unificare le due componenti dialettiche (quella “formale” e quella “sostanziale”) del concetto ampio di uguaglianza e, conseguentemente, di giustizia (distributiva e commutativa); ciò ha prodotto (e produce), anche sotto il profilo della realtà giuridico-normativa, la necessità storica di eliminare o ridurre drasticamente (proprio in un’ottica di uguaglianza e giustizia sostanziale) le oggettive disuguaglianze economiche e sociali tra individui e gruppi, stabilendo chiaramente una serie di diritti sociali e collettivi (accanto ai classici diritti di “libertà”) che sono funzionali sicuramente alla realizzazione dei principi di uguaglianza sostanziale e giustizia sociale.

Gli argomenti trattati, come si vede, investono direttamente il problema della definizione dei concetti di “giustizia distributiva” e di “uguaglianza sostanziale”, nel senso di obiettivi (e principi) realizzabili attraverso un complesso di regole giuridiche (ovvero prescrittive di comportamenti, doverose e potenzialmente coercitive) di tipo generale ed astratto (regole comportamentali obbligatorie e necessarie alla coesistenza/integrazione sociale, tendenzialmente razionali ed universali, cioè ugualmente valide per tutti i consociati in modo reciproco e corrispettivo; regole o norme rispettose, quindi, anche del principio di “uguaglianza formale” o non discriminazione, in base al quale è necessario trattare in modo uguale i casi uguali ed in modo ragionevolmente differenziato i casi disuguali) aventi ad oggetto l’equa, imparziale ed uguale distribuzione dei beni e del prodotto sociale tra i consociati.

Su un piano generale potrebbe richiamarsi la nozione di una “giustizia distributiva equa” elaborata da Rawls nel suo saggio “Una teoria della giustizia” (1971), in cui si afferma in sintesi che il principio cardine di un’organizzazione sociale costruita e gestita secondo criteri equi o giusti, è quello secondo cui le disuguaglianze relative “immeritate” (naturali e sociali) tra i membri della società sono giustificate razionalmente solo se comportano un beneficio, in termini assoluti, anche per i “meno avvantaggiati”. In altri termini, ogni persona, dovrebbe avere un uguale diritto alla più estesa libertà fondamentale, compatibilmente con una simile libertà per gli altri, mentre le disuguaglianze economiche e sociali sono ammissibili soltanto se necessarie per il beneficio dei meno avvantaggiati (cd. “principio di differenza”).

Nell’ipotesi rawlsiana emerge un tentativo di sintesi razionale tra “libertà” ed “uguaglianza”, basato, da un lato, sull’idea che la libertà fondamentale di ciascuna persona possa essere diminuita soltanto se ciò comporta un correlativo aumento della libertà di tutti (cioè della libertà collettiva, generale ed universale), e, dall’altro, su una concezione della giustizia incentrata sulla distribuzione “egualitaria” dei beni sociali principali (cioè dei beni materiali diretti a soddisfare tutti gli essenziali e fondamentali diritti e bisogni sociali individuali e collettivi); una distribuzione che, quindi, avvantaggi i più svantaggiati (o i meno avvantaggiati).

Sotto un profilo ancora più generale, si può affermare che il concetto stesso di “giustizia distributiva” si fonda sull’idea che tutti i beni sociali essenziali (o comunque principali), che sono idonei a soddisfare gli interessi individuali e collettivi di natura sociale (e giuridicamente rilevante), devono essere ripartiti in modo “uguale” (secondo criteri di uguaglianza formale e sostanziale) tra i membri di una collettività organizzata e che una distribuzione sostanzialmente uguale e giusta può esservi solo se essa è diretta ad avvantaggiare “proporzionalmente” le categorie di individui svantaggiati o meno avvantaggiati.

In questo contesto assume un rilievo essenziale il principio ed il concetto giuridico di “solidarietà sociale”, cioè il dovere giuridico di cooperazione e collaborazione reciproca tra tutti i consociati, finalizzato alla realizzazione di interessi comuni o pubblico-collettivi ed alla garanzia del livello minimo di prestazioni, funzioni o servizi sociali erogati dai pubblici poteri ed idonei a tutelare, realizzare e preservare il diritto di ognuno ad un’esistenza effettivamente libera e dignitosa, mediante il soddisfacimento dei diritti e dei bisogni sociali fondamentali.

Il principio di “solidarietà sociale” riguarda pertanto essenzialmente i cd. “diritti sociali” ossia i diritti a contenuto economico-sociale aventi ad oggetto la realizzazione delle condizioni materiali necessarie ad una esistenza sociale libera dall’oppressione del bisogno e rispettosa dell’incomprimibile ed universale diritto alla dignità personale spettante a tutti i consociati secondo un principio generale ed unitario di uguaglianza formale/sostanziale; sono quindi diritti il cui contenuto è costituito dalla garanzia di un livello minimo di benessere e sicurezza economico-sociale, necessario alla tutela della uguale dignità e libertà di tutti gli individui aggregati in un’organizzazione sociale strutturata ed articolata sul piano istituzionale.

I diritti sociali si collocano a fianco dei diritti civili e politici come diritti di “terza generazione” tutelati e garantiti (sia come diritti individuali fondamentali, sia, soprattutto, come interessi pubblico-collettivi di natura sociale ed a rilevanza generale) dalle funzioni pubbliche svolte dal cd. “Stato sociale” e dirette ad erogare prestazioni e servizi di utilità pubblica, finalizzati a soddisfare i fondamentali bisogni ed interessi di carattere “sociale” (in quanto strutturalmente connessi all’organizzazione sociale/collettiva nel suo complesso ed alle sue funzioni/attività istituzionali) degli individui consociati (lavoro, salute o integrità psico-fisica ed assistenza medica, abitazione, istruzione e cultura, trasporti pubblici, erogazione di servizi pubblici essenziali come energia elettrica, acqua, gas, rete fognaria, igiene e tutela urbana ed ambientale, illuminazione pubblica, viabilità etc., assistenza e previdenza sociale cioè prestazioni assistenziali e previdenziali dirette a sopperire a situazioni di estremo bisogno e di disabilità o inabilità al lavoro, alla copertura e prevenzione dei rischi connessi allo svolgimento della prestazione lavorativa come infortuni e malattia, nonché a garantire un reddito minimo sufficiente nelle situazioni di disoccupazione involontaria, vecchiaia, disabilità etc.).

L’effettivo godimento di questi diritti è dunque condizionato dall’intervento attivo del legislatore e della pubblica amministrazione (cioè dei pubblici poteri legislativo ed esecutivo), che devono stabilire, organizzare ed erogare materialmente il servizio o la prestazione pubblico-collettiva ad utilità generale e sociale, finanziarla attraverso le entrate tributarie generali (in una logica progressiva che si innesta sul dovere tributario di ogni consociato di contribuire alle spese pubbliche in ragione della sua capacità o forza economica e secondo un principio di uguaglianza proporzionale rispetto ad essa, con una contribuzione che cresce in misura più che proporzionale rispetto al crescere della ricchezza imponibile), fissare la tipologia di prestazione pubblica o di bene pubblico erogato, precisare le specifiche modalità di erogazione ed i requisiti o le condizioni necessarie per usufruirne (tenendo conto anche delle variabili di tipo economico-finanziario e degli equilibri del bilancio pubblico).

Il diritto/dovere di solidarietà contiene dunque un elemento “sociale”, costituito dai diritti individuali e collettivi aventi ad oggetto la garanzia (da parte della collettività sociale organizzata/istituzionalizzata e dei suoi poteri pubblici) di un minimo e sufficiente grado di benessere e sicurezza economico-materiale, cioè dai diritti cd. “sociali” che si risolvono sinteticamente nella possibilità (tutelata sul piano giuridico) di partecipare effettivamente e pienamente alla vita economica, politica e sociale della collettività, per effetto di un intervento attivo della stessa comunità sociale organizzata ed istituzionalizzata, che (a sua volta) ha un preciso “obbligo giuridico” di garantire tale livello minimo di dignità e benessere individuale dei suoi membri attraverso la predisposizione e l’erogazione di servizi pubblici finanziati mediante le entrate tributarie (progressive) ed idonei a soddisfare i bisogni e gli interessi sociali essenziali di tutti i consociati.

In questo modo muta la dimensione e cambia la qualità stessa della “cittadinanza” e dell’intero contesto dei diritti e dei doveri ad essa correlati: anche i diritti (civili e politici) tradizionali, innanzitutto il diritto di proprietà (non tanto la piccola proprietà personale dei beni di consumo, che rimane un diritto soggettivo inalienabile dell’individuo anche, e soprattutto, nei sistemi economico-sociali socialisti, i quali ne garantiscono la fruizione egualitaria da parte di tutti i lavoratori, quanto la proprietà privata capitalistica dei beni economico-produttivi ossia dei mezzi di produzione socialmente rilevanti, centralizzati ed organizzati nelle aziende o imprese che utilizzano forza-lavoro altrui nel processo produttivo, mezzi di produzione che nei sistemi socialisti sono completamente socializzati o collettivizzati) e la connessa libertà di iniziativa economica, tendono ad essere ridefiniti e limitati in funzione della rilevanza giuridica assunta dalla dimensione sociale e collettiva in cui si situano.

Tutto ciò si coglie immediatamente nella Costituzione italiana, dove i tipici “diritti sociali” (dal diritto al lavoro, insieme con i diritti del lavoro, al diritto alla salute, all’integrità/incolumità psico-fisica ed all’assistenza sanitaria pubblica, nonché alla tutela dell’integrità dell’ambiente naturale naturale e degli esseri viventi che lo costituiscono; dal diritto all’istruzione pubblica a quello all’assistenza ed alla previdenza sociale per fare fronte a situazioni di bisogno economico e/o di disabilità, vecchiaia, disoccupazione o, comunque, debolezza/marginalità sociale; dal diritto all’abitazione a quello ai beni e servizi pubblici essenziali e generali) ricevono un esplicito riconoscimento giuridico, limitando e condizionando giustamente - in ragione della rilevanza prevalente del legame sociale esistente tra gli individui e dell’interesse pubblico-collettivo in stretta connessione con il principio di uguaglianza sostanziale, che impone allo Stato di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3, comma 2, Cost.) - gli stessi diritti individuali di libertà e di proprietà, rendendo non più sostenibile una lettura esclusivamente individualistica di tali diritti ed, al contrario, imponendo una loro visione collocata funzionalmente in un necessario contesto sociale e collettivo (che tiene appunto conto dell’esistenza “limitatrice” dei diritti sociali – nella loro configurazione di diritti individuali “a dimensione collettiva” – e dell’obbligo giuridico di realizzarli, rispettarli e tutelarli da parte dei pubblici poteri).

Nel dettato costituzionale si parla, dunque, di “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2), di “pari dignità sociale” di tutti i cittadini (art. 3), di “utilità sociale” e di rispetto della dignità, della sicurezza e della libertà umana, come limiti giuridici all’iniziativa economica privata (art. 41), di “funzione sociale” del diritto di proprietà (art. 42) ossia della “funzionalizzazione” del contenuto sostanziale del diritto di proprietà (soprattutto dei mezzi di produzione materiale) alla realizzazione di interessi generali di natura pubblico-collettiva e sociale (riconducibili alla collettività sociale organizzata), di espropriazione e collettivizzazione, cioè di legittima soppressione giuridica della proprietà privata su imprese e/o beni materiali (produttivi o meno) e di instaurazione su di essi di una proprietà pubblico-collettiva (dello Stato, di enti pubblici o di comunità di lavoratori o utenti), per motivi di preminente interesse generale ossia in ragione della realizzazione di un interesse pubblico generale e collettivo preponderante o comunque prevalente rispetto a tutti gli interessi particolari e privati (artt. 42 e 43), di programmi e controlli pubblici finalizzati ad indirizzare e coordinare l’attività economica pubblica e privata a fini sociali (di utilità generale/collettiva) e costituenti le forme giuridiche della pianificazione o programmazione della produzione economica (art. 41), di proprietà pubblico-collettiva (appartenenza allo Stato o a enti pubblici) dei beni economici (dei “mezzi o strumenti di produzione”, cioè in sostanza delle aziende più o meno complesse, rilevanti socialmente, articolate e concentrate) (art. 42), funzionale strutturalmente alla realizzazione di interessi generali e collettivi o sociali, attraverso la possibilità di esercizio di un’impresa pubblica (gestita ed esercitata da enti pubblici economici o da enti pubblici in forma societaria).                

Inoltre, va rilevato che l’art. 38 della Costituzione prevede il diritto fondamentale di tutti i lavoratori e cittadini inabili al lavoro, invalidi o impossibilitati a lavorare per cause oggettive, all’assistenza ed alla previdenza sociale diretta a fare fronte alle situazioni di bisogno materiale, stabilendo che: “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto a che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli invalidi e i minorati hanno diritto all’educazione ed all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato. L’assistenza privata è libera”.

I diritti sociali sono strettamente connessi alla formazione ed allo sviluppo storico dello “Stato sociale” inteso come forma di Stato democratico-pluralista funzionale a garantire (sul piano “formale” degli enunciati logico-giuridici, ma molto meno su quello “materiale” della realizzazione effettiva e concreta) il soddisfacimento e la tutela proprio di alcuni fondamentali bisogni ed interessi sostanziali (e, dunque, “diritti” o “pretese giuridicamente rilevanti”) “sociali” dei consociati, come il lavoro, la salute e l’integrità/incolumità psico-fisica (quindi necessariamente anche la vita o l’esistenza biologica), l’istruzione pubblica e gratuita, l’assistenza sociale pubblico-collettiva e la previdenza sociale dirette a contrastare lo stato di bisogno materiale ed economico dei singoli, i servizi pubblici generali, le infrastrutture pubbliche necessarie socialmente, etc..

Tali diritti di carattere sociale (espressione specifica di un generale/universale diritto all’uguale dignità personale e sociale di tutti i consociati), nella loro dimensione minima (e sufficiente) sono diventati ormai una precondizione basilare dello stesso processo democratico ed una componente ineliminabile del concetto e dello “status” di “cittadinanza”: in altri termini, i diritti sociali sono diventati la precondizione ed il presupposto materiale (e, conseguentemente, anche logico-giuridico) per l’esercizio effettivo e pieno di tutti gli altri diritti democratici/civili fondamentali.

Il tema dei diritti sociali e della loro effettiva e concreta realizzazione appare quindi strettamente connesso al concetto, al principio ed al dovere (morale e giuridico) di “solidarietà sociale” (art. 2 Cost.), intesa come vincolo che connette una pluralità di individui organizzati in una collettività sociale e come diritto/dovere di cooperazione/collaborazione ed aiuto reciproco tra i consociati all’interno dell’organizzazione collettiva di cui sono parte integrante, oltre che nei rapporti dei singoli con tale organizzazione sociale, la quale ha l’obbligo giuridico di garantire e tutelare gli stessi diritti e bisogni economico-sociali fondamentali di tutti i suoi componenti (collocati in una posizione di assoluta ed universale uguaglianza formale e sostanziale, fondata essenzialmente sul principio razionale dell’uguale dignità personale e sociale degli individui), attraverso la predisposizione, l’organizzazione e l’erogazione di beni e servizi pubblico-collettivi a rilevanza ed utilità generale e sociale, diretti a garantire a tutti i consociati – soprattutto agli strati sociali più deboli e svantaggiati – condizioni materiali di esistenza effettivamente libera dal bisogno economico e dignitosa; beni e servizi pubblici funzionali, dunque, a garantire a tutti i membri della collettività sociale un livello minimo di benessere e sicurezza economico-sociale necessario a tutelare il diritto universale di ciascuno al rispetto della propria incomprimibile dignità personale.  

Emergono chiaramente i nessi logico-giuridici del diritto/dovere (individuale e collettivo) di solidarietà con il principio di uguale dignità umana personale e sociale e con quello di uguaglianza formale e sostanziale tra i consociati (art. 3 Cost.), collocando lo stesso dovere di solidarietà in un contesto costituzionale più ampio, all’interno del quale assumono un rilievo essenziale i correlativi “diritti sociali” (o diritti individuali “a dimensione collettiva”) cioè i diritti soggettivi il cui soddisfacimento è fondato necessariamente sull’intervento attivo da parte dell’organizzazione sociale generale e, dunque, da parte dello Stato (“sociale”) e dei suoi poteri pubblici istituzionali (in tutte le loro articolazioni ed ai vari livelli) attraverso i meccanismi della finanza pubblica, vale a dire attraverso il sistema delle entrate tributarie (complessivamente “progressive”) dirette al finanziamento di beni e servizi pubblici ad utilità collettiva (e generale) ed a rilevanza sociale (dunque dirette al finanziamento di “prestazioni sociali” universali in senso lato e funzionali ad avvantaggiare gli strati più deboli e svantaggiati della collettività organizzata).

Il dovere generale di solidarietà sociale, contenuto prescrittivo logico del principio giuridico di solidarietà sociale (espressione, a sua volta, di un processo reale e razionale di “giuridizzazione” o “giuridicizzazione” – ossia di trasformazione in norma giuridica generale ed astratta – di un principio morale connesso ad una necessità sociale oggettiva e determinato causalmente dalla materialità di quest’ultima), implica dunque per i consociati l’obbligo di interagire reciprocamente in modo “cooperativo” (o “collaborativo”) al fine di realizzare obiettivi comuni di interesse collettivo o generale e di soddisfare conseguentemente anche i bisogni materiali essenziali dei singoli (tutti, senza eccezioni ossia in modo “universale”) ed i loro diritti sociali fondamentali, consentendo la stessa necessaria coesistenza sociale su basi razionali di giustizia sociale e su criteri/principi di uguaglianza formale-sostanziale.

Esso, inoltre, impone all’organizzazione politica generale della società (lo Stato) di operare in modo da eliminare o ridurre fortemente le disuguaglianze fattuali/sostanziali (anche di natura “biologica”, oltre che di tipo economico) tra i singoli e le classi o gli strati sociali, al fine di garantire, realizzare effettivamente e tutelare i fondamentali diritti dei consociati come individui e come membri dell’organizzazione sociale stessa (uguaglianza sostanziale).

Si tratta della formalizzazione giuridica di un dovere morale universale (di carattere essenzialmente razionale in quanto fondato sulla razionalità della realtà materiale sociale) che riguarda “tutti e ciascuno” e produce sullo Stato (“sociale”) l’obbligo di garantire a tutti i cittadini-lavoratori (e, quindi, a tutti gli individui membri della società), in modo uguale e “giusto” (secondo cioè i principi di uguaglianza formale e sostanziale), il soddisfacimento e la tutela dei diritti fondamentali alla vita, all’incolumità ed alla sicurezza dell’esistenza personale, alla salute, all’integrità ed al benessere psico-fisico, ad un’esistenza dignitosa nonchè libera dall’oppressione e dalla sofferenza inutile, all’uguaglianza sostanziale ed alla pari dignità sociale di tutti gli individui, al lavoro ed alla retribuzione adeguata, ragionevolmente proporzionata alla quantità ed alla qualità di lavoro prestato e, comunque, sufficiente a garantire i diritti esistenziali di libertà (dal bisogno) e di dignità personale e sociale (principio di giustizia commutativa e distributiva sostanzialmente “socialista”, in base al quale, in linea teorica, ad uguale quantità e qualità del lavoro prestato deve corrispondere un’uguale retribuzione che sia commisurata proporzionalmente all’integrale valore prodotto dal lavoratore stesso, detratte le imposte ed i contributi necessari a finanziare le spese pubblico-collettive comuni funzionali all’erogazione dei beni e dei servizi pubblici a rilevanza generale ed utilità sociale ovvero dei beni e dei servizi diretti al soddisfacimento ed alla realizzazione egualitaria dei fondamentali diritti sociali di tutti i lavoratori consociati, e che sia, in ogni caso, sufficiente a consentire al lavoratore stesso un’esistenza libera e dignitosa, confluendo in definitiva nella generale rivendicazione socialista, avanzata storicamente dalla classe lavoratrice e dalle sue organizzazioni collettive sociali e politiche, di una giusta ed egualitaria redistribuzione individuale del plusvalore complessivo generato dal lavoro collettivo associato, organizzato, combinato ed interconnesso dell’intera società), al nutrimento ed all’abbigliamento adeguati, all’abitazione, all’ambiente naturale salubre e protetto, all’istruzione ed alla cultura, all’assistenza pubblica e sociale in situazioni di bisogno o inabilità al lavoro, alla previdenza sociale (prestazioni pensionistiche per l’anzianità e la vecchiaia), alla sicurezza individuale e collettiva.

Il dovere di solidarietà va quindi considerato come “norma oggettiva” che fonda i diritti sociali degli individui ossia i diritti (o pretese giuridicamente tutelate) che gli individui hanno nei confronti della collettività sociale a cui appartengono e che lo Stato deve garantire attraverso l’accesso ai servizi ed ai beni pubblici e sociali; tali servizi, finanziati con le entrate tributarie “progressive” (fondate su imposte che crescono in misura “più che proporzionale” rispetto al crescere della ricchezza o forza economica soggettiva), devono essere forniti (gratuitamente o a prezzi e tariffe “politici” ossia pari o inferiori al loro costo di produzione, escludendo quindi il profitto privato capitalistico) dalle strutture istituzionali, al fine di soddisfare bisogni sociali fondamentali come, appunto, la salute, il lavoro, l’istruzione e la cultura, l’abitazione, la previdenza e l’assistenza sociale, l’assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali, i trasporti ed i servizi pubblici generali (erogazione di acqua potabile, energia e gas naturale), la tutela dell’ambiente ovvero del contesto materiale/naturale in cui si sviluppa la vita e di cui è parte integrante l’esistenza biologica animale e vegetale.

I diritti di libertà ed i diritti sociali fondamentali (alla pari/uguale dignità personale e sociale, alla vita/esistenza biologico-materiale ed alla sua incolumità, alla salute, all’integrità ed all’equilibrio/benessere psico-fisico, al lavoro ed alla giusta retribuzione, all’abitazione o all’alloggio, all’assistenza sociale pubblica per fare fronte a situazioni di estremo bisogno e fornire i mezzi economici necessari alla sussistenza, alle assicurazioni, alla previdenza ed alla sicurezza sociale per garantire il sostegno del reddito nelle situazioni di vecchiaia e di invalidità o inabilità al lavoro, all’istruzione pubblica, all’informazione corretta e veritiera, ai beni e servizi generali ad utilità pubblica, all’ambiente naturale integro, salubre e protetto) sono diritti e principi generalissimi e fondamentali, che hanno (per loro natura e contenuto logico) una dimensione giuridica ed un ambito applicativo soggettivo assolutamente egualitario ed universale (il quale ricomprende, in linea teorica e tendenziale, ogni “essere umano” e, per quanto riguarda i diritti più basilari ed essenziali - vita/esistenza biologico-materiale, dignità personale, integrità, benessere ed equilibrio psico-fisico, libertà e liberazione dall’oppressione e dal dolore - ogni essere vivente animale senziente e dotato di coscienza, anche in misura relativamente minimale); essi non possono che assumere un’efficacia giuridica vincolante generale e trasversale riguardante tutti i settori dell’ordinamento, acquisendo (teoricamente e praticamente) il ruolo di principi e ragioni giuridiche generali/universali costituenti il fondamento razionale giustificativo dello stesso ordinamento giuridico complessivo.

Eventuali limitazioni alla portata ed all’esercizio di tali diritti fondamentali (diritti civili di libertà e diritti sociali) devono essere necessariamente previste dalla legge (ossia da norme giuridiche generali ed astratte, emanate da un legittimo potere legislativo, aventi livello e forza giuridica di legge ordinaria ed espressione democratica di una volontà generale e collettiva riconducibili alla comunità sociale nel suo complesso) e devono rispettare, comunque, il contenuto logico-prescrittivo essenziale ed incomprimibile di detti diritti e libertà fondamentali (secondo parametri invalicabili di ragionevolezza, proporzionalità ed adeguatezza).

In altri termini, nel rispetto del principio di adeguatezza e proporzionalità (cioè del principio di “uguaglianza proporzionale” tra l’entità della limitazione del diritto fondamentale e la rilevanza dell’interesse pubblico-collettivo perseguito dalla norma giuridica nonché la rilevanza della situazione di necessità ed urgenza oggettiva che impone ai poteri pubblici la realizzazione e la tutela prioritaria dello stesso interesse generale) e del connesso principio di ragionevolezza o razionalità (il quale implica che la limitazione del diritto fondamentale deve essere ragionevolmente adeguata al perseguimento strumentale della finalità di interesse generale nella misura in cui essa appare necessitata sul piano della concreta realtà oggettiva ed inderogabile secondo criteri di ragione), possono essere apportate limitazioni ai diritti fondamentali solo laddove esse siano necessarie (razionalmente inevitabili), proporzionate (basate sul principio di proporzionalità e ragionevolezza) e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale (a finalità di tutela di rilevanti e prevalenti interessi di natura pubblico-collettiva e sociale) riconosciute dall’ordinamento giuridico e derivanti dall’esigenza di proteggere equivalenti o prevalenti diritti e libertà fondamentali altrui.

Ciò sulla base del principio razionale ed universale (valido per tutti i consociati in modo paritario e corrispettivo) secondo cui le libertà ed i diritti fondamentali sono riconosciuti a tutti gli individui in posizione di assoluta ed universale uguaglianza e reciprocità generale, trovando il diritto di ciascuno un limite invalicabile (e dunque un obbligo di rispetto) nell’uguale e corrispettivo diritto di tutti gli altri consociati e, per deduzione logica, nell’interesse generale o pubblico-collettivo dell’intera organizzazione sociale.

Si può quindi affermare che il concetto stesso di “giustizia distributiva” si fonda sull’idea che tutti i beni sociali essenziali (o, comunque, principali), idonei a soddisfare gli interessi individuali e collettivi di natura sociale (e giuridicamente rilevanti), devono essere ripartiti in modo “uguale” (secondo criteri di uguaglianza “proporzionale” formale e sostanziale) tra i membri di una collettività organizzata e che una distribuzione sostanzialmente “uguale” può esservi solo se avvantaggia i meno avvantaggiati (trasformandosi, dunque, in una redistribuzione sostanziale tendenzialmente “egualitaria” dei beni e della ricchezza sociali cioè del prodotto e del valore collettivo).

Citando sempre Rawls, può, in astratto sostenersi che un assetto distributivo è “giusto” quando è “equo”, ossia quando offre uguali opportunità a tutti i membri di una collettività sociale organizzata o, se tale uguaglianza di opportunità di fatto non sussiste, vi siano regole (giuridiche) che prevedono l’assegnazione di risorse (e di diritti) in favore di gruppi (o singoli) oggettivamente più svantaggiati o meno avvantaggiati. In altri termini, le disuguaglianze sono ammesse soltanto se risultano necessarie per arrecare vantaggio a tutti i componenti della società ed in particolare ai più svantaggiati, secondo il principio solidaristico di “riparazione” degli svantaggi naturali e sociali dei gruppi meno favoriti.

In quest’ottica, l’uguaglianza “sostanziale”, a sua volta, costituisce un connotato essenziale del concetto di “democrazia sostanziale”, nel precipuo significato di tipologia di organizzazione socio-politica che tende progressivamente alla eliminazione del maggior numero di disuguaglianze economico-sociali fra individui e gruppi, sino al limite massimo dell’uguaglianza di tutti rispetto a tutti i beni (materiali ed immateriali) necessari o utili all’esistenza. Peraltro, le istituzioni più avanzate della “democrazia sociale” sono storicamente quelle che incidono non tanto sulla distribuzione della ricchezza prodotta, quanto sul diverso modo di produrla (attraverso, ad esempio, la collettivizzazione dei mezzi di produzione di rilevanza sociale), confluendo nell’alveo del “socialismo” inteso, appunto, come organizzazione economico-sociale fondata sull’eliminazione della proprietà privata dei medi e grandi beni produttivi e l’instaurazione su di essi di forme giuridiche di proprietà pubblico-collettiva ossia “comune” e “sociale” (con conseguente redistribuzione egualitaria, sul piano sostanziale, del prodotto, del valore economico e del reddito complessivo generato dal lavoro collettivo organizzato ed articolato socialmente); la “democrazia socialista”, basata sul potere di governo politico dei lavoratori - espresso mediante organi istituzionali collettivi/assembleari e democraticamente rappresentativi degli interessi dell’intero “popolo lavoratore” (i Consigli dei lavoratori o “Soviet”, contestualmente titolari della funzione legislativa e di quella esecutiva) - e sulla proprietà, il possesso ed il controllo dei grandi mezzi/strumenti di produzione (strutturati in aziende ed imprese di dimensioni rilevanti) da parte della collettività sociale degli stessi lavoratori organizzati politicamente nello “Stato socialista”, è stata, dunque, storicamente la forma politica più avanzata sul piano dell’evoluzione progressiva e dialettica della razionalità collettiva e sociale, implicando un ordinamento giuridico (anch’esso necessariamente socialista) altrettanto avanzato e progressivo sotto il profilo dell’effettiva realizzazione dei “diritti sociali”.

Il diritto si inserisce in questo quadro generale, in quanto sistema (logico-concettuale di natura prescrittiva e con funzione direttiva del comportamento sociale, prodotto dalla razionalità umana collettiva, parte integrante della razionalità complessiva immanente nella oggettiva realtà universale materiale, naturale e sociale, in perenne evoluzione dialettica) di norme prescrittive di condotta (potenzialmente coattive) funzionali (anche) alla soluzione/regolazione razionale dei conflitti che si generano all’interno di ogni forma di organizzazione sociale umana (dalle più elementari alle più complesse), in relazione, soprattutto, all’appropriazione ed alla ripartizione delle risorse e della ricchezza prodotta: da ciò emerge, nella struttura della regolazione giuridica dei fatti sociali, l’imprescindibile funzione “distributiva” del prodotto “comune” tra i singoli componenti di una collettività organizzata, riconducibile alla più ampia e fondamentale funzione di “integrazione” espletata dal diritto stesso considerato come strumento di orientamento del comportamento umano all’interno dei rapporti intersoggettivi, necessario alla realizzazione di una stabile, equilibrata, razionale ed ordinata coesistenza sociale.

Si deve, in conclusione, rimarcare la stretta relazione esistente, sul piano logico e giuridico, tra il requisito di razionalità della norma giuridica, il principio di uguaglianza (nel senso di uguale ed universale validità della norma per tutti i consociati che versano nelle medesime condizioni sostanziali) ed il concetto di “giustizia distributiva” intesa come insieme di equi ed imparziali (quindi, “ragionevoli”) criteri di distribuzione/ripartizione “egualitaria” di beni sociali, diritti ed oneri/doveri collettivi tra i membri di una comunità organizzata, funzionali alla eliminazione/riduzione delle disuguaglianze naturali e sociali “immeritate” (strutturali) tra i soggetti che compongono la collettività sociale (uguaglianza/giustizia sostanziale).

Su tali basi ed in una prospettiva tendenzialmente universale, il concetto ed il principio di uguaglianza “formale” (logico-concettuale) e “sostanziale” (nel significato di uguaglianza concreta, effettiva, reale o realizzabile “razionalmente” attraverso l’eliminazione degli ostacoli, delle iniquità e delle disuguaglianze sociali, fattuali e strutturali tra esseri viventi “consociati”) non possono non essere estesi, sul piano della necessità razionale (e vengono, di fatto, faticosamente e contraddittoriamente estesi nell’ambito dello stesso processo di sviluppo storico, progressivo e razionale, delle società umane e delle varie forme di evoluzione della coscienza e dell’intelletto “collettivi”) fino a ricomprendere la “tendenziale” uguaglianza formale e sostanziale tra tutte le specie animali (e finanche, sotto alcuni e limitati profili, vegetali) e tra tutti gli esseri viventi dotati di “coscienza” (anche in grado quantitativo minimo) e, soprattutto, di “senzienza” (cioè di capacità di percepire sensazioni psico-fisiche e, quindi, di “sensibilità” verso la realtà esterna), in quanto parti sostanzialmente ed ontologicamente “uguali” (essenzialmente “assimilabili” tra loro) di un’unica realtà materiale universale ed onnicomprensiva (oltre che eterna ed infinita).

Tale uguaglianza ontologica e sostanziale, a sua volta, si traduce logicamente in uguaglianza giuridica sotto il profilo della paritaria attribuzione normativa, all’intera classe logica generale/universale degli esseri viventi coscienti e senzienti (anche sul piano “potenziale”), di tutti i fondamentali ed essenziali diritti della “persona” intesa come “soggetto di diritto” (non solo i diritti di libertà e liberazione dall’oppressione, dal dolore e dallo sfruttamento, ma anche quelli di dignità personale e “sociale” oltre quelli concernenti la vita, la salute ed il benessere psico-fisico).

Tali basi e presupposti fondamentali implicano necessariamente, sul piano logico, un principio preliminare di pari o uguale dignità personale di tutti gli esseri viventi senzienti che abitano il pianeta ed un corrispondente diritto di ciascun essere vivente senziente (parte di un “aggregato” collettivo universale) all’uguale rispetto della sua incomprimibile dignità personale con il correlato e conseguente obbligo giuridico generale di rispettare la pari dignità personale di ogni altro essere vivente senziente (obbligo giuridico che ovviamente sorge esclusivamente in capo agli esseri umani in quanto esseri dotati naturalmente del massimo grado di coscienza e volontà razionale vivente, per effetto dell’oggettivo processo evolutivo biologico).

2.1 Socialismo giuridico, marxismo rivoluzionario e principio di uguaglianza.

Nella storia dell’evoluzione progressiva del pensiero giuridico verso un concetto sempre più universale di uguaglianza formale/sostanziale e verso il riconoscimento (almeno sul piano formale e logico-prescrittivo delle norme giuridiche) dei diritti sociali propri della classe lavoratrice come classe oppressa e sfruttata (premessa logico-razionale per la successiva estensione dei diritti fondamentali anche a tutti gli esseri viventi senzienti non umani, anch’essi oppressi e sfruttati dal sistema capitalistico), assume certamente rilevanza il cd. “socialismo giuridico”, un’eclettica corrente di pensiero (di cui uno dei rappresentanti più influenti fu Anton Menger, giurista e filosofo del diritto austriaco) che proponeva di trasformare il sistema economico capitalistico attraverso una politica del diritto di carattere marcatamente riformista e socialista, tesa al riconoscimento di una serie di fondamentali diritti sociali (di natura intrinsecamente ed essenzialmente “socialista”) in favore delle classi lavoratrici e delle masse popolari (senza proporsi di incidere in modo rivoluzionario sulla struttura economico-sociale di fondo del sistema capitalistico). Si trattava, in sostanza, di una politica e di una concezione generale del diritto avente lo scopo di minimizzare la funzione primaria del fattore economico a favore di una “elaborazione giuridica del socialismo”, attraverso il riconoscimento di nuovi diritti fondamentali di carattere “sociale”.

Contro questa interpretazione giuridico-riformista del socialismo, Friederich Engels e Karl Kautsky scrissero, nel 1887, l’articolo “Juristen – Sozialismus” (“Socialismo giuridico” o il “Socialismo dei giuristi”), criticandola in modo esemplare e del tutto corretto dal punto di vista scientifico proprio del socialismo marxista rivoluzionario, fondato sui principi del materialismo storico e dialettico; il testo ha una grande importanza teorica e politica, costituendo un classico sull’argomento del rapporto tra marxismo e diritto.

Ad avviso dei giuristi socialisti, il diritto è riformabile poiché esso è un prodotto, in continua evoluzione (dialettica), della razionalità, del pensiero, delle idee e dell’intelletto collettivi umani (è uno strumento regolatorio sostanzialmente funzionale ad indirizzare i comportamenti intersoggettivi all’interno dei rapporti sociali, secondo schemi/modelli intellettivo-razionali di contenuto logico prescrittivo e di tipo generale ed astratto, in ragione della necessità oggettiva di consentire un’ordinata, ragionevole ed equilibrata coesistenza sociale e, dunque, di consentire la necessaria esistenza della società umana), oltre che dei rapporti strutturali sociali, politici ed economici. Se il diritto è il prodotto dialettico di un processo storico (“naturale”) sociale, politico ed ideologico, allora vi è spazio “per un’operazione antidogmatica, con la quale non si accetta più – come fino ad allora avevano fatto i giuristi – lo status quo giuridico-legislativo”[18]. La polemica contro il positivismo giuridico e il recupero delle categorie giusnaturalistiche, in una logica storicistica di inquadramento del fenomeno giuridico, portava quindi ad una nuova valutazione antiformalistica, antidogmatica, anticoncettualistica e pluralista del diritto; in altri termini, il socialismo giuridico sosteneva che la società mutava, si evolveva nel corso della storia umana, ed esprimeva nuovi bisogni individuali e collettivi “reali” che si traducevano in istanze, richieste e pretese giuridiche alle quali si doveva dare risposta sul piano legislativo, le quali cioè dovevano, per necessità oggettiva, estrinsecarsi nella forma intellettivo-razionale o logico-concettuale della norma giuridica legislativa attributiva, in modo generale ed astratto (e secondo un criterio di “uguaglianza”), di nuovi diritti individuali e collettivi di natura marcatamente “sociale”[19].

Peraltro, corrisponde sicuramente alla verità che la dinamica materiale della lotta di classe tra capitale e lavoro, tra borghesia capitalistica e forza-lavoro (operaia) salariata del proletariato, tra la classe capitalistica e la classe lavoratrice organizzata nelle sue associazioni sindacali e politiche, genera dialetticamente (secondo la classica visione marx-engelsiana) la rivendicazione, da parte dei lavoratori associati/aggregati, di istanze e pretese sostanziali che assumono necessariamente la “forma giuridica” di “diritti sociali” riferibili al “lavoro” (diritto al lavoro ed alla dignità personale e sociale del lavoratore, alla giusta e sufficiente retribuzione, alla sicurezza, alla previdenza ed all’assistenza economico-sociale, alla salute ed all’integrità psico-fisica, all’incolumità ed alla sicurezza fisica dei lavoratori, all’istruzione etc.) e quindi di diritti potenzialmente ed intrinsecamente “socialisti”, i quali ragionevolmente potrebbero costituire il nucleo fondante di un futuro “ordinamento giuridico socialista” e che, comunque, tendono ad assumere, nel tempo ed anche all’interno di un sistema capitalistico, un’espressione formale di tipo legislativo.

Tuttavia, ciò certamente non implica la legittimazione teorica di una “via giuridica al socialismo” di tipo riformista e gradualista, in ragione del fatto che il contenuto essenziale dei diritti sociali della classe lavoratrice non può mai essere concretamente, effettivamente ed integralmente realizzato da uno Stato capitalistico, all’interno e nell’ambito dei rapporti strutturali di produzione e di proprietà di un’organizzazione sociale capitalistica (rapporti che sono oggettivamente non riformabili e si pongono in una contraddizione di fondo insanabile con detti diritti sociali), ma, al contrario, può esserlo esclusivamente all’interno di una complessiva struttura economico-sociale “socialista”, basata sulla proprietà (sul diritto di proprietà) comune/collettiva (e “pubblica”) dei mezzi di produzione (aziende ed imprese), sul loro controllo operaio (diretto ed indiretto) e, soprattutto, connessa necessariamente al potere di governo politico generale di uno “Stato socialista del lavoro e dei lavoratori” (alcuni giuristi successivi lo hanno correttamente definito, riferendosi all’U.R.S.S., “Stato di democrazia marxista”), instaurato per via rivoluzionaria (attraverso una “rivoluzione sociale”), democraticamente rappresentativo di tutta la classe lavoratrice strutturata all’interno di organi collettivi/assembleari istituzionali di tipo consiliare (o sovietico), titolari sia del potere legislativo che di quello esecutivo/amministrativo ed attraverso i quali sia possibile rappresentare e sintetizzare (secondo il metodo del “centralismo democratico”) la volontà politica generale della totalità dei lavoratori consociati (del “popolo lavoratore” in senso ampio ed onnicomprensivo), mediante la formazione e la connessione dialettica di maggioranza e minoranza (che mantengono comunque integri tutti i loro diritti di libertà di espressione e manifestazione del pensiero, impegnandosi contestualmente a rispettare le legittime decisioni deliberate a maggioranza ed il contesto politico-giuridico generale di natura “socialista”).            

Si contestava, da parte dei giuristi socialisti, che l’unico diritto esistente fosse quello sancito dai codici borghesi e che potesse essere solo lo Stato a produrre il diritto (il quale, al contrario, poteva essere prodotto, e veniva effettivamente e direttamente prodotto, dalla stessa società, dalle organizzazioni sociali dei lavoratori, dalla dinamica della lotta di classe tra capitale e lavoro che generava nuovi diritti sociali per la classe lavoratrice) ed infine si contestava che esistesse soltanto la categoria dei diritti soggettivi individuali e, per converso, si proponeva il riconoscimento per i lavoratori di nuovi diritti “naturali” (individuali e collettivi) di origine sociale ed economica: il diritto al lavoro, il diritto di associazione sindacale e politica, il diritto alla sussistenza materiale, il diritto alla equa/giusta distribuzione della ricchezza, il diritto alla sicurezza economica e sociale, il diritto alla vita ed alla salute, il diritto alla dignità dell’esistenza; si trattava, in sintesi, di riconoscere, accanto ai tradizionali diritti individuali di libertà, anche i “diritti sociali”, come diritti fondamentali al pari dei primi[20].

Si è spesso parlato in termini negativi del socialismo giuridico, in quanto contrassegnato da forti elementi di eclettismo, ma, in realtà, tale “poliedrica” concezione teorica del diritto era il risultato logico, la sintesi coerente, di un approccio complessivo allo studio del fenomeno giuridico in cui vengono integrati i diversi piani scientifico-conoscitivi della storiografia giuridica, della sociologia giuridica, della “dogmatica giuridica” (nel senso di studio e conoscenza del diritto sulla base di concetti e categorie generali/universali astratte) e della filosofia giuridica: da un punto di vista storico-giuridico, il socialismo giuridico (definito anche come “solidarismo giuridico”) approfondisce il nesso di interdipendenza (dialettica) esistente tra il diritto e lo sviluppo storico concreto della società (lo sviluppo storico-materiale e “naturale” delle formazioni economico-sociali umane e dei loro rapporti strutturali, da cui il fenomeno giuridico regolatorio viene necessariamente generato e prodotto); da un punto di vista sociologico-giuridico, esso analizzava e valutava le condizioni di validità, effettività ed efficacia delle norme giuridiche rispetto alla concreta dinamica dei rapporti tra le classi ed i gruppi sociali; da un punto di vista teorico-giuridico, rilevava la insufficienza dei metodi formalistici di interpretazione delle norme giuridiche; ed infine, da un punto di vista filosofico-giuridico, il socialismo (o solidarismo) giuridico affermava il “processo valoriale” del diritto (destinato ad incorporare principi e valori morali diffusi oggettivamente nella società) sul quale veniva a fondarsi una nuova “teoria solidaristica della giustizia”[21].

Sull’effettiva incidenza del socialismo giuridico nelle politiche legislative di natura sociale e “progressiva”, si sofferma Cassese, il quale osserva che tutti gli studiosi che hanno approfondito i caratteri peculiari del socialismo giuridico, hanno affermato che si trattava di un fenomeno “nebuloso, vago e confuso (…) ma nessuno si è ancora dato carico di valutare l’influenza del socialismo giuridico nella legislazione sociale dell’età giolittiana e sui progressi dell’intervento statale nell’economia”[22].

Da parte del socialismo marxista (o “marxismo rivoluzionario”), si rimproverava al socialismo giuridico la sua essenziale ed esclusiva finalità riformista, il fatto che esso ha sostanzialmente trascurato e “coperto” il ruolo della lotta di classe tra borghesia capitalistica e classe lavoratrice, in modo da “evitare” e “negare” la necessità storica dello sbocco rivoluzionario e della presa del potere politico da parte dei lavoratori e dei loro partiti, per la conseguente instaurazione di uno Stato e di un sistema economico-sociale realmente socialista (fenomeni - strutturale e sovrastrutturale - strettamente connessi ed interdipendenti)[23].

Il socialismo giuridico (o solidarismo giuridico sociale) è cioè in grado “di teorizzare una funzione sociale della proprietà privata, la socializzazione del diritto di proprietà, ma non la socializzazione dei reali mezzi di produzione” (delle imprese e delle aziende), cioè la trasformazione della “società privatistica” in società socialista fondata sulla proprietà comune e “pubblica” dei mezzi di produzione economica rilevanti e concentrati e nella conseguente equa/giusta distribuzione egualitaria del prodotto sociale del lavoro collettivo[24].

Il processo storico di istituzionalizzazione e giuridicizzazione della lotta di classe, consistente nel fatto oggettivo che gli operai (ed i lavoratori in genere), associandosi, riunendosi ed organizzandosi nei sindacati (quindi in proprie organizzazioni collettive che giuridicamente assumono la forma dell’associazione), in ragione della necessità di tutela materiale e giuridica dei propri interessi e diritti collettivi o “di classe” (a partire dal fondamentale diritto alla retribuzione “giusta” e sufficiente per le esigenze vitali con la connessa riduzione dell’orario di lavoro), e regolando i rapporti di produzione materiali mediante la forma giuridico-negoziale del contratto di lavoro (individuale e collettivo), si sono collocati necessariamente sul terreno giuridico dello scambio sinallagmatico/corrispettivo tipico di una logica economica di mercato (anche se fortemente regolamentato), non contraddice, ma anzi conferma, la tesi marxista dell’esito rivoluzionario e socialista del processo storico complessivo. Qui interviene, infatti, il ruolo, necessario ed imprescindibile, del partito marxista rivoluzionario (ossia “comunista”) e la sua essenziale funzione di innalzamento progressivo (intellettivo-razionale e teorico-pratico) della coscienza politica “socialista” della classe lavoratrice e di conseguente direzione politica generale (attraverso il “programma comunista”) della larga massa degli operai (a partire dagli strati più avanzati) verso la realizzazione degli obiettivi generali e strategici della rivoluzione socialista (della presa del potere di governo politico da parte dei lavoratori e della costruzione pratica del socialismo).

La “teoria” del partito marxista-rivoluzionario/comunista è stata elaborata compiutamente da V.I. Lenin nel testo “Che fare?” (1902), laddove lo stesso Lenin, sviluppando coerentemente la teoria ed i principi già elaborati da Marx ed Engels, propone la formazione di un partito comunista/marxista-rivoluzionario costituito dall’avanguardia politica (cioè della parte politicamente più avanzata e cosciente) della classe operaia e, in senso più generale, dell’intera classe lavoratrice, come necessario “organismo collettivo” di guida teorica e direzione politica “cosciente” della stessa classe lavoratrice (essendo, dunque, lo stesso partito un “organo” della classe, strettamente connesso ad essa e costituente la sua “coscienza collettiva” più avanzata) verso la conquista del potere di governo politico generale della società e verso la conseguente realizzazione di un sistema economico-sociale di tipo socialista, basato cioè sul fondamentale diritto di proprietà comune/collettiva (o “socialista”) dei mezzi di produzione economica (attribuito alla classe lavoratrice ossia attribuito all’intero mondo del lavoro associato, combinato, interconnesso ed organizzato socialmente), sulla eliminazione del profitto privato e dello sfruttamento del lavoro, sulla pianificazione razionale e democratica dell’economia e sulla conseguente ripartizione sostanzialmente egualitaria del valore prodotto dalla stesso lavoro collettivo “sociale” (cioè dei beni e dei servizi prodotti dalla società per la società) in proporzione equilibrata e ragionevole ai bisogni, ai diritti fondamentali (di natura civile e sociale) ed al contributo effettivo e “possibile” di ciascun consociato, secondo principi e criteri razionali di giustizia o equità sociale distributiva ed uguaglianza sostanziale universale.

Lenin correttamente ritiene che la classe operaia spontaneamente, cioè nella dinamica spontanea della lotta economica di classe tra capitale e lavoro, può arrivare esclusivamente ad una coscienza di classe “tradunionista” ossia economica e sindacale (limitata alla regolazione giuridica del rapporto di produzione capitale-lavoro e del rapporto di distribuzione profitto-salario all’interno di un sistema economico capitalista, in vista della tutela concreta dei diritti immediati e minimi del lavoro e dei lavoratori) e che solo un partito marxista-rivoluzionario è in grado di dirigere e portare a compimento una rivoluzione socialista sulla base di saldi principi generali teorici e programmatici comunisti; una rivoluzione che, realizzando effettivamente e concretamente sul piano politico e giuridico – nel corso del suo processo di sviluppo dialettico – l’integrale contenuto sostanziale di tutti i fondamentali diritti democratici civili e sociali (obiettivi “democratici” transitori) arriva inevitabilmente alla necessaria e compiuta realizzazione degli obiettivi e dei diritti individuali e collettivi socialisti, convertendo, secondo una tipica logica dialettica, il contenuto logico-prescrittivo di quei fondamentali diritti “democratici” individuali e collettivi di carattere civile e sociale (posti dalla borghesia, nel corso del processo storico universale, solo su un piano formale ed astratto) nel contenuto logico prescrittivo concreto, effettivo, reale e sostanziale dei diritti individuali e collettivi “socialisti” (che vanno ad “incorporare” e “superare” dialetticamente e progressivamente gli stessi diritti democratici).

Secondo Lenin, dunque, la coscienza politica socialista di classe (che è sostanzialmente la coscienza razionale e collettiva della classe lavoratrice, avente ad oggetto la necessità storica del socialismo - in ragione della piena “socializzazione” delle forze produttive del lavoro collettivo universale - e la necessità della preliminare conquista del potere di governo politico generale da parte delle stesse forze di classe del lavoro, finalizzata sia alla realizzazione concreta ed effettiva di uno Stato socialista che costituisca, a sua volta, espressione “democratica” e “consiliare/assembleare” della generale/collettiva volontà politica socialista cosciente e razionale di tutti i lavoratori, sia alla costruzione/organizzazione strutturale di una compiuta formazione economico-sociale prima socialista e poi comunista) può essere portata, ad opera del partito marxista-rivoluzionario o comunista, alla classe operaia e lavoratrice, solo “dall’esterno” della immediata lotta economica tra capitale e lavoro. In altri termini, i lavoratori non diventano “spontaneamente” marxisti-rivoluzionari (ovvero “comunisti”), non acquisiscono spontaneamente la “coscienza politica socialista di classe” nel corso delle lotte economiche contro i “padroni” (contro i capitalisti possessori/proprietari dei mezzi di produzione) per la difesa del salario (cioè per la difesa della retribuzione del lavoro prestato nello scambio giuridico-economico con il capitalista) e degli altri diritti immediati della stessa classe lavoratrice (riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, sicurezza ed incolumità psico-fisica del lavoratore sul posto di lavoro, previdenza ed assistenza sociale etc.); pertanto i marxisti rivoluzionari (i comunisti) hanno la necessità oggettiva di formare un “partito politico” (che, sul piano giuridico, è un’“associazione privata” libera e volontaria con finalità politiche generali e, quindi, di natura “pubblico-collettiva”) per propagandare e diffondere nella classe lavoratrice la teoria, i principi e le idee marxiste condensate nel programma politico comunista e socialista (in funzione della trasformazione rivoluzionaria della “società capitalistica” in “società socialista”), e, quindi, per convincere la maggioranza dei lavoratori politicamente attivi e coscienti ad aderire alle idee del marxismo-rivoluzionario (ossia del comunismo), innalzandone il livello di coscienza politica fino alla piena comprensione della necessità storica del socialismo.

Lenin, correttamente, prosegue affermando che, per capire complessivamente la politica ed i compiti generali della classe lavoratrice, è necessario comprendere tutta la società, nella sua integrale onnicomprensività, cioè tutte le classi sociali che la compongono (con tutte le loro stratificazioni ed articolazioni interne), i loro rapporti materiali reciproci ed i loro rapporti con lo Stato e con il potere pubblico legislativo ed esecutivo (ossia i loro rapporti con il potere e l’organizzazione politica generale della società); per acquisire la coscienza politica socialista di classe e diventare marxisti-rivoluzionari, i lavoratori, la classe operaia ed il proletariato hanno dunque bisogno di conoscere l’intera società, non solo il proprio particolare angolo o specifico settore della stessa e, conseguentemente, nel “Che fare?” Lenin afferma chiaramente che “La coscienza politica di classe può essere portata ai lavoratori solo dal di fuori; vale a dire, solo dall’esterno della lotta economica, al di fuori della sfera dei rapporti tra lavoratori e datori di lavoro”.

Nel pensiero politico di Lenin, che si inserisce interamente nell’ambito teorico del marxismo e del comunismo, è fondamentale, dunque, l’idea di partito (marxista-rivoluzionario); Lenin sostiene (e la realtà storica oggettiva della grande Rivoluzione d’Ottobre in Russia, diretta dal Partito bolscevico da lui stesso guidato, gli dà pienamente ragione scientifica e fattuale) che il proletariato (la classe operaia e lavoratrice in generale) potesse compiere una rivoluzione socialista solo sotto l’attiva direzione teorico-pratica e politica di un partito comunista che assumesse il ruolo e la funzione di “avanguardia rivoluzionaria”, di sviluppata coscienza socialista collettiva ed organizzata della parte più avanzata della classe lavoratrice. Secondo Lenin un partito del genere può portare a termine e concretizzare i propri compiti ed obiettivi rivoluzionari socialisti soltanto attraverso una forma di organizzazione collettiva “associativa”, disciplinata e regolata secondo il principio (intrinsecamente giuridico in quanto regolatorio e logico-prescrittivo di obblighi di comportamento e corrispondenti “diritti” individuali e collettivi) del “centralismo democratico”, in base al quale gli esponenti del partito discutono liberamente le proposte programmatiche e politiche (con conseguente libertà di opinione, di espressione, di manifestazione del pensiero e di critica, sia individuale che collettiva attraverso l’organizzazione di “tendenze” interne e strutturate), ma si impegnano ed obbligano reciprocamente a rispettare le decisioni collettive e a non contestarle (pubblicamente) una volta che esse siano state votate/deliberate, sancite e stabilite formalmente a maggioranza ossia una volta che esse abbiano assunto la forma di “norma giuridica” contenente un principio generale, espressione di una volontà comune di ordine razionale (espressione cioè di un processo logico-dialettico interno), vincolante per tutti i membri del partito stesso e quindi per tutti gli associati.

Questo partito marxista-rivoluzionario avrebbe dovuto essere essere costituito da militanti di elevato livello politico, alcuni dei quali dediti all’attività politica a tempo pieno (“rivoluzionari di professione”); il partito avrebbe dovuto, secondo Lenin, essere strettamente legato o connesso alla classe ed al movimento operaio generale, intervenendo coscientemente nelle organizzazioni collettive “professionali” dei lavoratori e, quindi, nel movimento sindacale di massa, in funzione del progressivo innalzamento e diffusione della coscienza politica socialista di strati sempre più ampi della classe lavoratrice e della conquista della maggioranza dei lavoratori politicamente attivi (avanguardia operaia “larga”). Esso avrebbe dovuto utilizzare “tutte le forme di lavoro, legale o illegale” (inclusa la partecipazione alle elezioni parlamentari come forma di intervento politico di propaganda) per costituirsi come partito dirigente della classe operaia, elevandone il livello di coscienza politica socialista e conquistando il consenso e l’appoggio della stessa classe operaia (e lavoratrice in generale) al suo programma politico rivoluzionario e comunista.

Nella visione di Lenin, il processo rivoluzionario deve condurre all’instaurazione di una Repubblica Socialista mondiale (di cui l’URSS, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, lo Stato socialista dei lavoratori, lo Stato operaio prodotto dalla Rivoluzione bolscevica dell’Ottobre 1917 in Russia, avrebbe rappresentato il primo embrione ed il nucleo fondativo). Tale processo ha dunque un carattere ed una dimensione necessariamente internazionali ed universali: in effetti, per Lenin, è proprio lo sviluppo e la maturazione oggettiva in senso socialista delle forze produttive del lavoro associato, combinato ed interconnesso a livello mondiale, che ha reso possibile la rivoluzione sociale anche in un paese arretrato come la Russia (“l’anello più debole della catena imperialista mondiale”); ma, per la sua stessa sopravvivenza, il processo rivoluzionario socialista iniziato in Russia, avrebbe dovuto estendersi a livello internazionale e, soprattutto, nei paesi capitalisticamente più avanzati e progrediti dell’Europa occidentale.                  

Il concetto di “centralismo democratico” costituisce, ancora una volta, il sintomo della rilevanza del diritto e delle “norme giuridiche” nell’ambito della teoria marxista-rivoluzionaria sviluppata dal leninismo e riassume i principi di organizzazione interna (principi prescrittivi di condotta intersoggettiva che acquisiscono tutti, inequivocabilmente, una natura sostanzialmente giuridica, ancora prima che politica) adottati (per il corretto funzionamento) dai partiti comunisti leninisti, in quanto associazioni giuridiche (con finalità e natura politiche) ossia organizzazioni/aggregazioni collettive e pluripersonali riconducibili alla categoria giuridica generale delle associazioni di diritto privato dotate di autonoma e distinta “soggettività giuridica”. L’aspetto “democratico” di questo metodo giuridico-organizzativo consiste nella piena libertà personale di tutti i membri del partito di manifestare il proprio pensiero (viene cioè integralmente riconosciuto il diritto fondamentale di manifestazione del pensiero e di critica), di discutere e dibattere liberamente e democraticamente sui principi teorici, sulla linea politica e sulla direzione strategica (rigorosamente socialista) e/o tattica; ma, una volta che la decisione del partito viene scelta e deliberata “giuridicamente” dalla maggioranza (a seguito di libero e democratico dibattito), tutti i membri del partito stesso si impegnano reciprocamente a sostenere e rispettare quella libera e volontaria decisione collettiva, frutto di una razionale dialettica interna, essendovi comunque obbligati giuridicamente a pena di legittima e proporzionata applicazione di sanzioni coattive (censura, sospensione o espulsione). Quest’ultimo aspetto rappresenta il “centralismo” ovvero la centralizzazione unitaria (la “sintesi”) delle libere volontà razionali individuali in un’unica libera volontà razionale “collettiva” e generale: Lenin infatti definiva il concetto di “centralismo democratico” come “libertà di discussione, unità di azione”.

Gli “Statuti” delle organizzazioni associative leniniste (cioè gli atti giuridici fondamentali che, a seguito della loro deliberazione democratica, libera e volontaria, da parte di un’assemblea congressuale rappresentativa dei membri del partito, regolano e stabiliscono, con norme interne vincolanti/obbligatorie, gli obiettivi ed i principi politici fondamentali, generali e direttivi dell’associazione politica, l’organizzazione ed il funzionamento degli organi e della complessiva attività del partito stesso ed i diritti/doveri basilari dei suoi membri) avevano definito i seguenti principi-base (come detto, di natura essenzialmente giuridico-regolativa) del centralismo democratico: 1) carattere rappresentativo, elettivo e revocabile di tutti gli organi di partito, dalla base al vertice; 2) tutte le strutture devono rendere conto regolarmente del loro operato a chi le ha elette (alla base del partito) ed agli organi superiori; 3) una rigida e responsabile disciplina di partito, con subordinazione della minoranza alla maggioranza nelle decisioni collettive con rilevanza esterna e pubblica ed obbligo della minoranza di osservarle/rispettarle e non contestarle pubblicamente (mantenendo tuttavia costantemente il pieno diritto di libera manifestazione del pensiero e di critica da parte di tutti gli associati all’interno del partito); 4) assoluta libertà (e, quindi, diritto) di critica e autocritica (nei limiti dei principi generali di ragionevolezza, correttezza e rispetto reciproco delle diverse opinioni soggettive); 5) le decisioni degli organi superiori sono giuridicamente (e politicamente) vincolanti ovvero obbligatorie per gli organi inferiori; 6) obbligo di cooperazione collettiva di tutti gli organi al lavoro politico ed alla direzione generale del partito e, contemporaneamente, responsabilità individuale di ogni membro del partito sul proprio personale operato.

Il “Che fare?” di Lenin è il testo fondante della teoria marxista-rivoluzionaria del centralismo democratico, considerato appunto come insieme di principi politico-giuridici per l’organizzazione ed il funzionamento di un partito rivoluzionario dei lavoratori, il cui compito essenziale è la diffusione della coscienza di classe (o meglio, della coscienza politica socialista di classe) tra strati sempre più ampi della classe lavoratrice, divulgando i principi fondamentali della teoria marxista-rivoluzionaria, sui quali è possibile costruire una conoscenza scientifica corretta (quindi, un’esatta rappresentazione intellettivo-razionale) delle leggi generali dello sviluppo sociale della realtà materiale oggettiva, che possa fondare, sul piano della “volontà pratica”, una conseguente azione politica rivoluzionaria e comunista razionalmente cosciente, consapevole e coerente.

La “coscienza di classe” può definirsi, in via generale, come la consapevolezza intellettivo-razionale soggettiva di essere inseriti in una determinata “classe sociale” (ossia in una delle “categorie generali” in cui si articola la società con riferimento alla sua struttura produttiva), acquisita tramite l’analisi cosciente della posizione sociale ricoperta nell’ambito della società osservata cioè tramite la corretta rappresentazione cognitivo-razionale della oggettiva realtà sociale nei suoi strutturali e fondamentali rapporti di produzione materiale oltre che in tutti i corrispondenti rapporti sovrastrutturali di natura politica ed ideologica.

Assieme agli altri membri appartenenti alla stessa classe sociale, l’individuo condivide essenziali interessi sostanziali e materiali (ma anche, di conseguenza, “spirituali”), talvolta strutturalmente conflittuali con quelli delle altre classi costituenti la società, come avviene nel caso (attualmente centrale) delle due grandi classi sociali principali che (pur nella loro complessa articolazione e stratificazione interna) compongono, in linea fondamentale, il sistema economico-sociale capitalistico: quella operaia o, più in generale, quella dei lavoratori (“produttivi”) subordinati e salariati (che, per vivere, vendono sul mercato la propria forza-lavoro, verso il corrispettivo di una retribuzione, ai possessori del capitale o dei mezzi/strumenti di produzione) e quella dei capitalisti, che detengono la proprietà ed il controllo dei mezzi di produzione (organizzati nelle imprese) ed acquistano sul mercato la forza-lavoro “libera” e disponibile, pagando ai lavoratori una retribuzione o salario.

Il rapporto di classe tra capitale e lavoro, in una società capitalistica, è sostanzialmente un rapporto sociale (iniquo/ingiusto) di dominio, sfruttamento ed oppressione del primo sul secondo; la “classe del lavoro”, la classe lavoratrice, il lavoro collettivo ed associato, instaurando e realizzando compiutamente (nel complessivo processo storico generale) una società socialista e, successivamente, comunista, dovrebbe liberarsi da tale oppressione e da tale sfruttamento, ripristinando, in modo realmente effettivo ed in una prospettiva di completa e reale “liberazione” dalla sofferenza e dal dolore, le condizioni basilari di uguaglianza sostanziale e giustizia sociale “universali”. Dunque, per coscienza di classe si intende la presa di coscienza da parte del proletariato (dei lavoratori subordinati salariati ossia, in primo luogo, della classe operaia produttiva) della propria essenziale condizione di “classe sociale del lavoro”, antitetica ed antagonista rispetto alla classe sociale capitalistica (composta dai proprietari/possessori di capitale) e della propria missione storica (essenziale e necessaria) di costruzione di un sistema economico-sociale socialista/comunista (con radicale eliminazione del profitto privato, dello sfruttamento e dell’oppressione di classe, ed instaurando in modo pieno ed effettivo il contenuto sostanziale dei principi di uguaglianza e libertà nonché dei diritti civili e sociali fondamentali di tutti i consociati).

La teoria marxista assegna infatti al proletariato (alla classe lavoratrice operaia in alleanza con tutti gli “strati intermedi” del lavoro subordinato ed autonomo) il compito storico (ineluttabile ed universale) di dover guidare l’intera umanità verso il progresso socialista; se ne deduce che la classe operaia (ed in generale lavoratrice), diretta dal partito marxista-rivoluzionario, realizzando il socialismo ed il comunismo, riporta il capitale sotto il controllo dell’intera società e libera dallo sfruttamento, dal dominio e dall’oppressione di classe da parte del capitale stesso, non solo se stessa, ma anche (e soprattutto) tutta l’umanità (cioè l’intera società umana) e, conseguentemente, su un piano di assoluta universalità, tutti gli esseri viventi animali non umani coscienti e senzienti, i quali sarebbero, a loro volta, definitivamente liberati dall’oppressione, dalla violenza, dal dolore e dallo sfruttamento prodotti dal sistema del profitto capitalistico.

Il “proletario” (cioè l’operaio, il lavoratore produttivo subordinato) si impoverisce progressivamente in modo direttamente proporzionale al plusvalore (valore ulteriore ed aggiuntivo rispetto alla retribuzione percepita) che produce con il suo lavoro salariato (plusvalore che viene interamente appropriato, senza corrispettivo, dalla classe capitalistica, sotto forma di profitto privato); dal momento che, secondo la teoria marxista, solo dalla presa di coscienza, da parte della classe operaia, dell’intero meccanismo di sfruttamento capitalistico e dei connessi rapporti di classe tra capitale e lavoro, può scaturire la solidarietà di classe (il vincolo di unione classista) tra i proletari (tra i lavoratori subordinati) e, quindi, la rivoluzione socialista, si può affermare che la coscienza di classe è un presupposto fondamentale ed ineludibile dello stesso processo rivoluzionario verso il socialismo.

Già Hegel (1770-1831) si soffermò a lungo su questa tematica, sostenendo che l’appartenenza del soggetto ad una classe (sociale) non può prescindere dalla volontà razionale dell’individuo; secondo il filosofo idealista, l’atto (cosciente e volontario) di identificarsi in una classe non è degradante, poiché consente appunto la realizzazione dell’unità razionale tra il particolare e l’universale, cioè la “sussunzione” logico-razionale e reale del particolare all’interno dell’universale.

Marx, mantenendo la struttura dialettica del pensiero hegeliano, ma, al contempo, rigettandone integralmente l’impostazione idealistica, afferma che sono le condizioni materiali oggettive, economiche e sociali, ad influenzare e produrre, sul piano della determinazione o derivazione causale, le idee, i concetti logico-intellettivi e la volontà cosciente e razionale degli esseri umani; perciò la “coscienza” soggettiva è materialmente determinata dalla struttura economico-sociale, che viene stabilita in modo oggettivo dai rapporti di produzione e di lavoro (aventi tutti ad oggetto la prestazione di un’attività lavorativa subordinata o autonoma, verso l’erogazione di un corrispettivo di natura retributiva) e “riflette” o “rappresenta”, sotto il profilo intellettivo-razionale astratto, la stessa realtà materiale da cui essa è prodotta.

Antonio Gramsci scriverà che la coscienza di classe deve forgiare la nuova classe proletaria, abituarla all’esercizio del potere politico, ordinare le forze storiche del lavoro in modo che si uniscano ed acquisiscano la capacità di ragionare in prospettiva.

Tornando al “socialismo giuridico”, si può affermare che esso era sostanzialmente un tentativo di integrare sul piano delle riforme giuridico-legislative, il liberalismo con il socialismo e non conteneva in sé alcuno sbocco autoritario; il valore della solidarietà, perno centrale dell’ideologia del socialismo giuridico, ha portato l’Assemblea Costituente italiana del dopoguerra a considerare la solidarietà stessa come valore e principio fondante del nostro ordinamento giuridico: l’art. 2 della Costituzione italiana parla infatti di “adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Sul punto, la relazione esplicativa sull’art. 2 della Costituzione (che sancisce il riconoscimento del principio di solidarietà), redatta in sede di lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, afferma che la Repubblica deve riconoscere la necessaria socialità di tutte le persone, <<le quali sono destinate a completarsi e a perfezionarsi a vicenda mediante una reciproca solidarietà economica e spirituale”: anzitutto, in varie comunità ed organizzazioni sociali intermedie, disposte secondo una naturale gradualità (comunità familiari, territoriali, professionali, politico-culturali, religiose etc.)>> e quindi, per tutto ciò in cui quelle comunità non bastino, nello Stato”[25].            

Appare ancora una volta evidente che un tale universale ed onnicomprensivo concetto di “solidarietà” non può non ricomprendere implicitamente, in un significato logico necessariamente più ampio ed universale, la solidarietà umana nei confronti di tutti gli esseri viventi animali non umani, in quanto esseri viventi coscienti e senzienti, membri (insieme alla specie umana) di una generale ed onnicomprensiva comunità biologica interspecifica, proprio in ragione del fatto che tale principio di solidarietà si sviluppa progressivamente e diffusamente, nel concreto, all’interno della stessa società umana e nella “coscienza collettiva” vasta dei suoi componenti aggregati.

Il riferimento comune alle idealità, ai concetti ed ai principi giuridici identificati nel nuovo “diritto naturale-sociale” - che il legislatore deve razionalmente riflettere, recepire e riprodurre in base al necessario processo di adeguamento dei principi logico-intellettivi (contenuti nelle norme giuridiche positive generali ed astratte) alla realtà materiale e sociale che essi rappresentano e qualificano - rimane un argomento normativo tuttora giustificato se si pensa che oggi è predominante la tesi “neo-costituzionalista” secondo la quale i diritti umani sono ragioni giustificative di ideali, valori, principi ed esigenze che nascono fuori dalle sedi riconosciute formalmente come fonti del diritto dall’ordinamento, trovando la loro origine direttamente nel processo reale di evoluzione e sviluppo progressivo della società umana e delle forze materiali e “spirituali” (o razionali) che la costituiscono[26].

Per il “neo-costituzionalismo”, infatti, i diritti umani fondamentali (che possono, in molti casi, essere logicamente estesi a tutti gli esseri viventi animali non umani coscienti e senzienti) hanno “fonte morale”, nel senso che incorporano, sul piano logico-prescrittivo, principi, norme e concetti di natura razionale e morale (intendendo la “morale” come complesso di doveri universali di comportamento sociale incentrati su criteri razionali di giustizia, equità, rispetto, correttezza, pietà etc.) e riflettono i bisogni e le esigenze materiali, le finalità ideali e le aspettative razionali che maturano ed evolvono oggettivamente nella società contemporanea.

In altri termini, i diritti fondamentali riflettono le idee (i concetti), i principi normativi ed i valori (di natura razionale e “tendenzialmente universale”) fondati, a loro volta, sulle esigenze materiali, gli interessi sostanziali, le necessità ed i bisogni individuali e collettivi (in particolare e di fondo, la necessità oggettiva di conservazione ed autoconservazione psico-fisica dei singoli consociati e della collettività sociale di cui essi fanno parte), le aspettative e le finalità “ragionevoli” che si sviluppano progressivamente nella società umana (cioè nella concreta realtà sociale), possono avere una fonte logico-argomentativa di carattere strettamente razionale, in quanto sono il risultato deduttivo di ragioni giustificative, motivazioni ed argomenti etico-politici coerenti, che fondano ed esplicano la loro infinita produzione e “germinazione”, a partire da principi e valori morali e giuridico-concettuali di contenuto logico-prescrittivo molto generale/universale.

Il fatto che Engels e Kautsky si interessano alle tematiche del “socialismo giuridico” fa comprendere l’importanza politica e sociale di tale movimento, che proiettava in ambito politico e giuridico-normativo, cioè sul terreno delle riforme legislative, gli obiettivi del socialismo riformista, contrapposto alla corrente “marxista-rivoluzionaria” del socialismo internazionale, nell’aspro dibattito relativo alla strategia della presa del potere politico da parte del proletariato (della classe lavoratrice); questa forbice ideologica tra socialismo marxista-rivoluzionario, sostenuto da V.I. Lenin, R. Luxemburg e, in Italia, dal filosofo marxista Antonio Labriola, oltre che, in seguito, da Antonio Gramsci (fondatore, con Amadeo Bordiga, del Partito Comunista d’Italia), e socialismo riformista e gradualista, sostenuto da E. Bernstein, successivamente anche da K. Kautsky, e, in Italia, da Filippo Turati, si evidenziò, in Europa occidentale, con gli esiti socialdemocratici della II° Internazionale che portarono, sul piano della prassi politica, alla prevalenza dei partiti socialdemocratici, alla loro capitolazione di fronte alla prima guerra mondiale imperialista ed alla evoluzione, in Italia (ma, specularmente, anche in tutti gli altri paesi dell’Europa occidentale), della strategia politica riformista del partito socialista guidato da Turati, mentre in Russia, con la netta ed evidente affermazione della teoria e della prassi politico-strategica del partito bolscevico (marxista-rivoluzionario), diretto da Lenin e da Trotsky, nella vittoriosa Rivoluzione proletaria dell’Ottobre 1917, che condusse alla concreta realizzazione del primo Stato socialista dei lavoratori nella storia dell’umanità ed alla fondazione della III° Internazionale (o Internazionale Comunista).

In realtà con l’articolo sul “Socialismo Giuridico”, due eminenti marxisti come Engels e Kautsky, hanno dato un ulteriore elemento di corretta interpretazione ed approfondimento scientifico alla teoria marxista del diritto e dello Stato, la quale costituisce il fondamento del “marxismo giuridico”[27]; nella prima parte dell’articolo viene ricostruita, sul piano dell’analisi dello sviluppo storico, la situazione sociale e politica del periodo medievale, caratterizzato dalla centralità temporale e spirituale della Chiesa all’interno dell’organizzazione sociale feudale, in cui tutti i rapporti giuridici e sociali ruotano intorno alla stessa Chiesa di Roma: “era dunque ovvio che il Dogma della Chiesa fosse punto di partenza e base di tutto il pensiero. Giurisprudenza, scienze naturali e filosofia, tutto veniva rapportato ai contenuti della Chiesa”[28]. La realtà sociale cambia quando, durante il regime economico-sociale feudale, si sviluppa progressivamente il potere economico della borghesia ed alla fine del XVIII secolo, con la grande Rivoluzione francese, la stessa classe borghese conquista il potere politico, abbattendo la monarchia e lo Stato aristocratico-feudale: compare cioè “in Francia la nuova concezione del mondo a viso aperto, che doveva diventare quella classica della borghesia: la concezione giuridica del mondo”[29].

Nasce il diritto borghese e al posto del diritto divino subentrano i diritti fondamentale innati e “naturali” dell’essere umano (in senso astratto, generale ed universale), costituiti principalmente dal diritto alla vita ed all’integrità fisica, del diritto alla libertà personale e del diritto all’uguaglianza formale ed universale di tutti gli uomini; “i rapporti economico-giuridici, che si erano immaginati prima, perché sanzionati dalla Chiesa, come se fossero creati dalla Chiesa e dal dogma, si propongono adesso come fondati sul diritto e creati dallo Stato (…). E poiché la concorrenza è la forma fondamentale di traffico dei liberi produttori di merci e, quindi, la più grande livellatrice, l’uguaglianza davanti alla legge diviene il principale grido di battaglia della borghesia[30].

La lotta condotta dalla borghesia in ascesa contro i signori feudali fu una lotta per il possesso dello Stato e “doveva essere condotta sulla base di esigenze giuridiche; questo fatto contribuì a consolidare la concezione giuridica del mondo”[31].

Ma questa nuova situazione socio-politica comportò, come necessaria conseguenza sul piano della derivazione causale, la nascita del proletariato moderno, cioè della classe sociale dei lavoratori subordinati produttivi salariati (la classe operaia), che, attraverso le sue organizzazioni ed associazioni collettive (di tipo economico e politico), avanzò, nel contesto della dinamica della lotta di classe, immediate richieste e rivendicazioni giuridiche e politiche (richieste e rivendicazioni materiali che, quindi, necessariamente assumevano forma e natura sostanziale giuridico-politica); Engels e Kautsky rilevano che “le prime formazioni dei partiti proletari, come i loro rappresentanti teorici, rimasero del tutto sul terreno del diritto, soltanto che si costruirono un diverso terreno giuridico rispetto a quello che era della borghesia”[32].

Due erano sostanzialmente le richieste giuridiche della classe lavoratrice e delle sue organizzazioni collettive economiche e politiche: l’estensione sociale e sostanziale del principio giuridico dell’uguaglianza (“universale”) e la giusta redistribuzione del plusvalore prodotto dai lavoratori ed appropriato dai capitalisti senza corrispondere un corrispettivo retributivo (ovvero il diritto ad una redistribuzione del plusvalore prodotto dal lavoro collettivo, in favore della classe lavoratrice e secondo criteri di giustizia ed uguaglianza sostanziale); ma “entrambe le concezioni erano ugualmente insufficienti, (…) nella misura in cui venissero formulate giuridicamente una per una e lasciassero il nucleo della questione, cioè la trasformazione dei rapporti di produzione, più o meno intoccato”[33].

A tale proposito, si deve precisare che, in linea tendenziale e di fondo, la teoria di Marx, basata sulla concezione materialistica della storia, mette in evidenza il fatto “che tutte le concezioni giuridiche, politiche, filosofiche e religiose dell’uomo sono tratte in ultima istanza dalle loro condizioni di vita, dal loro modo di produrre e scambiare i prodotti”[34]. Questa affermazione costituisce il nucleo essenziale del pensiero marxista sulla funzione del diritto, che sorge e deriva (sul piano della determinazione/derivazione causale) dai concreti ed oggettivi rapporti sociali materiali intercorrenti tra gli esseri umani, configurandosi, secondo Engels e Kautsky, come un riflesso o rappresentazione logico-razionale di tipo prescrittivo o “normativo” (diretta cioè a svolgere una funzione di indirizzo razionale dei comportamenti sociali) dei rapporti sociali di produzione materiale dell’esistenza collettiva; e ciò, evidentemente, su un piano di assoluta universalità, vale per tutte le formazioni economico-sociali umane che si sviluppano sul piano storico (ossia si evolvono dialetticamente in un processo universale di “storia naturale”): si tratta quindi di un principio scientifico “universale” che trova attuazione e conferma pratica sia per quanto riguarda la formazione economico-sociale capitalistica attualmente dominante, sia per quanto concerne le formazioni economico-sociali “socialiste” (in primo luogo, l’URSS) che si sono fino ad ora concretamente realizzate storicamente e che necessariamente dovranno realizzarsi anche in futuro.

Secondo il pensiero marxista, si stabilisce costantemente una correlazione funzionale tra diritto ed economia (con una conseguente connessione di derivazione/determinazione causale), in cui non solo il diritto viene (“in ultima istanza”) determinato e prodotto dalla struttura economico-sociale, ma esso rappresenta anche la forma logico-concettuale (o razionale) di contenuto significativo prescrittivo degli stessi rapporti sociali (la norma giuridica opera come articolazione logico-prescrittiva necessaria e inevitabile del modo di produzione economico-materiale e delle relazioni intersoggettive nelle organizzazioni sociali umane), mentre l’economia ed i fondamentali rapporti sociali di produzione e distribuzione sono la “materia” che costituisce il nucleo strutturale di tale forma[35].

L’applicazione della teoria del materialismo storico alla spiegazione della fenomenologia giuridica induce a concepire il diritto come sovrastruttura dell’economia (che ne costituisce la base strutturale), in modo che il rapporto dialettico struttura-sovrastruttura si possa sviluppare secondo una modalità complessa, reciproca e non unidirezionale ma, al contrario, secondo una dinamica generale di azioni e retroazioni bidirezionali. In termini più precisi il rapporto tra struttura economica (rapporti sociali di produzione della vita materiale individuale e collettiva) e sovrastruttura giuridico-normativa è, in ultima istanza, un rapporto di determinazione e derivazione causale (non meccanica ma “dialettica” ed incentrata su criteri scientifici universali di regolarità/normalità basati su principi di elevata probabilità logica o credibilità razionale) della seconda dalla prima; si tratta certamente di una connessione di fondamentale determinazione e derivazione causale della sovrastruttura logico-giuridica dalla struttura economica, non “unidirezionale” nè univoca, ma, appunto, di tipo complesso, dialettico e tendenzialmente “bidirezionale”, costituita cioè da una serie di influssi pluridirezionali (ascendenti e discendenti) e di correlazioni reciproche, in cui, alla fine ed “in ultima istanza”, prevale la struttura di base sulla corrispondente sovrastruttura.

In un sistema economico-sociale (sia esso antico, feudale, capitalistico oppure socialista) le interconnessioni tra la “struttura” economica e la “sovrastruttura” giuridica costituiscono quindi un contesto reale unitario ed inscindibile; tali relazioni si articolano non solo in una azione di fondo “determinante” della base economica sulle forme giuridiche, ma anche, inevitabilmente, nelle successive e connesse “retroazioni” che l’involucro giuridico “determinato” esercita, a sua volta, sul fondamento economico (oggetto di costante regolazione ed indirizzo da parte della stessa sovrastruttura giuridica).

In termini più ampi, nella reale visione scientifica marx-engelsiana, la struttura economica (cioè sostanzialmente i rapporti sociali attraverso i quali viene prodotta l’esistenza materiale degli individui) è certamente il “fattore determinante” della dinamica sociale complessiva, ma lo è solo “in ultima istanza”; tale concetto viene chiaramente espresso da Engels nella lettera a Joseph Bloch del 21 settembre 1890 e ripreso dal filosofo marxista italiano Antonio Labriola nella sua opera intitolata “Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare” (Roma, 1896).

Le formazioni economico-sociali (e, dunque, innanzitutto quella capitalistica analizzata da Marx ed Engels ed attualmente pienamente estesa a livello globale, ma, in generale, tutte le formazioni economico-sociali sorte nel corso dell’evoluzione storica, da quelle “antiche” fondate sullo schiavismo a quella feudale intermedia, ricomprendendo in tale processo anche la prima conformazione di un’organizzazione economico-sociale socialista realizzata nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche nel corso del XX° secolo e rimasta oggettivamente incompiuta nonchè successivamente “riassorbita”, all’esito di un lungo processo di burocratizzazione controrivoluzionaria, nel sistema capitalistico internazionale) e la loro dinamica di sviluppo storico-naturale, sono infatti fenomeni costituiti da un unico e complesso sistema dialettico di interrelazioni, nessi ed influenze reciproche tra la struttura economico-produttiva di base e le corrispondenti sovrastrutture giuridico-politiche; non è quindi possibile separare artificialmente il substrato strutturale (determinante) dalle “forme” del diritto e della politica (determinate ma essenziali ed a loro volta retroagenti sul primo). Ciò in quanto il “diritto”, come fenomeno oggettivo, non si esaurisce nella semplice norma giuridica, la quale, nel suo contenuto logico prescrittivo (obbligatorio) e descrittivo, non è altro che l’espressione “formalizzata” di rapporti materiali esistenti nella struttura economica della società “o, se emanata come legge statale, di per sé è soltanto un sintomo in base al quale si può giudicare con una certa verosimiglianza della futura nascita dei corrispondenti rapporti”[36].

E’ stato giustamente rilevato che è lecito dubitare che sia ascrivibile allo stesso Marx una visione “unidirezionale” e “discendente” del diritto, inteso come strumento utilizzabile solo dalla classe dominante[37]. In effetti, il diritto, proprio in quanto sistema logico-concettuale normativo o prescrittivo di comportamenti e “ragionevolmente” regolativo delle relazioni sociali intersoggettive (individuali e collettive), non può che svilupparsi ed articolarsi dialetticamente (dunque in modo “contraddittorio”) sulla base dei rapporti materiali (cioè di forza economica) tra le classi sociali, risentendo oggettivamente dell’evoluzione reale delle lotte e dei conflitti tra gruppi “dominanti” (in genere minoritari numericamente ma dotati di prevalente potere economico e politico) e gruppi “dominati”, all’interno della struttura sociale. E’ chiaro che ciò non esclude, anzi necessariamente ricomprende, la concreta possibilità che, in una società capitalistica, le classi lavoratrici subalterne (anche e soprattutto attraverso varie forme di lotta sociale e politica, e mediante proprie organizzazioni giuridico-istituzionali o associative) esercitino influenze (in alcuni casi notevoli) favorevoli alla tutela dei propri “diritti” o interessi materiali, sulla stessa regolazione giuridico-normativa positiva (pur rimanendo quest’ultima, nel suo insieme, sostanzialmente funzionale agli interessi “generali” della classe socialmente dominante).

Il diritto, quindi, appare come fenomeno umano reale e intellettivo-razionale - nel senso che esso è un fenomeno umano che si configura come prodotto logico-concettuale dell’intelletto collettivo degli esseri umani e come elemento reale-materiale derivante dalla struttura dell’organizzazione sociale nel suo complesso - determinato “in ultima istanza” dalla base economico-produttiva e svolgente la essenziale funzione generale di strumento regolativo/organizzativo dei comportamenti e dei rapporti sociali, operando in senso “pluridirezionale” tra le classi che compongono la società ed in modo complessivamente funzionale agli interessi “strategici” della classe dominante in tutte le sue articolazioni e stratificazioni.

E’ stato correttamente osservato che “Ogni ordinamento giuridico contiene in sé, accanto ad una maggioranza di norme poste a tutela dei gruppi, delle classi e degli strati sociali più avvantaggiati, un numero più o meno vasto di norme destinate, come direbbe Rawls, ad “avvantaggiare i meno avvantaggiati”, cioè ad avvantaggiare, in una parziale prospettiva di necessaria giustizia sociale distributiva e di uguaglianza sostanziale, i gruppi, le classi e gli strati più svantaggiati, più sfavoriti o più deboli della società, riportando condizioni di minimo equilibrio nei casi di eccessiva disparità; “queste norme possono essere frutto di pressioni esercitate con successo dalla base sociale sui vertici, come pure il prezzo che i vertici credono di dover pagare per ottenere più facilmente obbedienza e consenso a principi ritenuti più essenziali”[38].

Significativa conferma di quanto sopra è, nell’ordinamento politico-giuridico democratico italiano, il cd. “Statuto dei lavoratori” (legge n. 300 del 1970) che riconosce avanzate forme di tutela giuridica in materia di diritti individuali e collettivi dei lavoratori subordinati.

Peraltro, deve segnalarsi come la teoria giuridica marxista abbia parlato di “funzione rivoluzionaria del diritto”[39]; se, nella versione marxista, il diritto può essere utilizzato con finalità di radicale cambiamento sociale in senso socialista (e, dunque, in funzione della concreta ed effettiva trasformazione rivoluzionaria della società in direzione del socialismo), ciò dipende essenzialmente proprio dalla intrinseca ed essenziale natura generale di strumento normativo obbligatorio e razionalmente regolatorio dei comportamenti e dei rapporti sociali, cioè dalla sua ampia funzione di strumento di “controllo sociale” (coercitivo, coattivo e repressivo), che è utilizzabile (anzi, deve essere necessariamente utilizzato) nel processo rivoluzionario socialista, contro le resistenze opposte dalle classi capitalistiche ostili a detto processo, ma anche, e soprattutto, in ragione della oggettiva necessità di dare un ordine razionale e stabile (regolare/equilibrato) a tutti i rapporti sociali intersoggettivi interni alla stessa classe lavoratrice e sui quali deve edificarsi la nuova organizzazione economico-sociale socialista e comunista.

Ciò che viene a mutare in una fattispecie rivoluzionaria “non è la <<funzione>> in se stessa, ma il soggetto che opera attraverso l’elemento considerato (qui il diritto) e dunque il progetto di azione che di esso si avvale”[40]: nella logica marx-leninista, il soggetto è la clase lavoratrice diretta politicamente dal partito marxista-rivoluzionario (il partito comunista), mentre il “progetto di azione” è la conquista del potere politico, la rottura rivoluzionaria dell’ordine sociale capitalistico e la conseguente costruzione di un sistema socialista.

E’ evidente, poi, che in una formazione economico-sociale di tipo socialista e comunista, non essendovi una divisione dei consociati in classi sociali contrapposte, ma configurandosi una società fondata sull’uguaglianza sostanziale universale e costituita esclusivamente da lavoratori con uguali diritti e doveri giuridici, titolari collettivamente (e su un piano di parità assoluta) del potere economico (attraverso la titolarità di un diritto pieno ed inalienabile avente come contenuto la proprietà comune/collettiva “socialista” dei mezzi di produzione materiale, cioè delle aziende e delle imprese socialmente rilevanti) e del potere politico (attraverso lo Stato socialista fondato sul potere generale pubblico degli organi istituzionali assembleari “consiliari”, democraticamente rappresentativi di tutti i cittadini lavoratori), il diritto avrà una struttura ed un contenuto necessariamente “socialista” (che riflette cioè i rapporti di produzione, di distribuzione e di proprietà socialisti), proprio in quanto sistema logico-concettuale normativo o prescrittivo di comportamenti sociali tendenzialmente ragionevoli e strumento razionalmente regolativo (in modo obbligatorio e cogente) delle stesse relazioni sociali intersoggettive individuali e collettive aventi natura essenzialmente “socialista” e fondate su un pienamente realizzato principio di effettiva e sostanziale uguaglianza generale nonchè di necessaria liberazione da ogni forma di oppressione e sfruttamento.  

Conseguentemente si può affermare che il sistema giuridico è un sistema “dinamico” che, in linea tendenziale ed attraverso una relazione dialettica, “deve” corrispondere/adeguarsi alla situazione economico-sociale generale, cioè non solo ai rapporti ed al modo di produzione esistente, ma anche, in definitiva, all’evoluzione progressiva delle capacità o “forze” della produzione materiale e del lavoro collettivo-sociale (cioè allo sviluppo progressivo, in senso necessariamente “socialista” e cooperativo/collaborativo, delle forze/capacità produttive del lavoro collettivo, associato ossia interconnesso socialmente).

Una delle funzioni basilari del diritto, come sistema di regole di condotta di contenuto logico-prescrittivo obbligatorio e riferibili alla disciplina dei rapporti sociali intersoggettivi, è infatti quella della soluzione (nel senso di “regolazione ragionevole”) dei conflitti tra gli esseri umani all’interno delle varie forme di organizzazione sociale che necessariamente essi si danno nel corso dello sviluppo del processo storico: “regolazione” dei conflitti che si generano entro le forme più elementari di convivenza, così come dei conflitti che percorrono la società nel suo insieme, incentrati sulla contesa tra gli uomini per l’appropriazione delle risorse economiche e per la distribuzione/ripartizione della ricchezza sociale prodotta[41]. La funzione “distributiva” del prodotto sociale tra i componenti di una collettività organizzata, appare dunque una delle funzioni basilari ed imprescindibili di un sistema giuridico, il quale assume un ruolo di “variabile dipendente” dal processo “storico-naturale” di evoluzione dialettica (attraverso forme successive dotate tendenzialmente di maggiore razionalità oggettiva) dell’organizzazione sociale della produzione materiale, delle capacità pratiche (o “forze”) sociali di tale produzione e dei modi in cui essa si articola concretamente e progressivamente.

I sistemi giuridici assolvono nel complesso la funzione di risolvere i conflitti (in modo ragionevole e pacifico) con l’applicazione di regole generali ed astratte predeterminate che stabiliscono quale tra gli interessi sostanziali contrapposti sia degno di protezione, dovendo prevalere, e quale non sia meritevole di protezione e debba conseguentemente soccombere: è, in altri termini, la funzione di “adeguare i rapporti fra gli uomini, in tutta la loro varietà e complessità, ad un dato modello di ordinata convivenza, di realizzare un equilibrio generale e, il più possibile, stabile tra i diversi interessi in conflitto nella società”[42].

Un sistema economico di tipo capitalistico si incardina sul dato strutturale rappresentato dal rapporto sociale fondamentale correlato a detto sistema, ossia il rapporto “capitale-lavoro”: esso è una relazione di produzione materiale, che assume la forma giuridica di “rapporto di proprietà” (e, quindi, anche di relazione distributiva) tra il soggetto (o, più precisamente, la classe sociale di soggetti) che ha il possesso/controllo del capitale costante (mezzi di produzione) ed il soggetto (la classe sociale di soggetti) che possiede e dispone soltanto della propria forza-lavoro (ne ha, quindi, la “proprietà”) da vendere sul mercato (necessariamente alla classe sociale che detiene i mezzi produttivi ed al valore di scambio - o “prezzo” – costituito dal salario o retribuzione) per procurarsi i mezzi di sussistenza.

E’ evidente che dal descritto rapporto di produzione/proprietà deriva il connesso (e speculare) rapporto di distribuzione “profitto-salario”, cioè la relazione di ripartizione quantitativa (regolata, a vari livelli, da norme giuridiche) del valore complessivo realizzato nel processo produttivo sociale, tra le classi ed i singoli soggetti che vi partecipano (si consideri, ad esempio, lo strumento normativo del contratto individuale e collettivo di lavoro subordinato, che, in Italia, trova le sue fonti giuridiche nell’ordinamento sindacale e nell’autonomia collettiva negoziale e normativa delle “parti sociali”, ma anche, di riflesso, nell’ordinamento statale, a livello costituzionale e legislativo).

Nell’analisi marx-engelsiana, il rapporto di produzione capitale-lavoro è, nella sua intima essenza, un rapporto di dominio/controllo del capitale stesso sulla forza-lavoro produttiva (vale a dire, innanzitutto, sulla classe operaia industriale) ed in generale su tutta la forza lavoro salariata, nelle sue varie articolazioni e stratificazioni sociali (proletarie e semiproletarie). Tale dominio/controllo è finalizzato prioritariamente allo sfruttamento intensivo e prolungato della stessa forza-lavoro, funzionale all’estrazione del massimo livello di plusvalore possibile (valore aggiuntivo/ulteriore rispetto al salario, prodotto dal lavoro ed appropriato dal capitalista senza corrispondere alcuna retribuzione al lavoratore) – attraverso l’aumento della produttività/ritmi lavorativi e del tempo di lavoro necessario, il prolungamento del tempo di lavoro assoluto e/o la riduzione/compressione dei salari -, in relazione alla concreta e differenziata dinamica storica delle relazioni materiali tra le classi sociali.

Il descritto fenomeno oggettivo si riflette, evidentemente, nelle “forme giuridiche” di natura logico-concettuale e razionale (anch’esse essenziali) delle stesse relazioni sociali, determinando – ciclicamente ed in modo disomogeneo per settori economico-sociali o aree geografiche – l’espansione o la compressione dei “diritti” individuali e collettivi dei lavoratori (delle posizioni soggettive di “libertà” o “potere decisionale” riconosciute alle classi subalterne dall’ordinamento giuridico generale e correlate alla dialettica dei rapporti di classe – e frazioni di classe – ben precisi) nei confronti dei soggetti economicamente e politicamente dominanti (si pensi, ancora, al fenomeno dell’organizzazione sindacale dei lavoratori, alla contrattazione collettiva in materia di lavoro, ai diritti di sciopero, di assemblea nei luoghi di lavoro, di elezione degli organi rappresentativi dei lavoratori all’interno dell’azienda, al divieto di licenziamento ingiustificato ed illegittimo, alla tutela dell’integrità psico-fisica e della personalità morale dei lavoratori etc., ed a tutte le loro formalizzazioni giuridiche nelle norme positive dell’ordinamento).

Si tratta, in sintesi, di un meccanismo sociale incentrato sull’appropriazione “privata” senza alcuna controprestazione equivalente o corrispettivo, da parte della classe di soggetti che detiene la “proprietà” dei mezzi (strumenti) di produzione, del valore ulteriore (rispetto al salario) prodotto dal lavoro associato, combinato ed interdipendente, che è lavoro “sociale” o collettivo oggettivamente correlato allo sviluppo storico delle capacità produttive delle società umane. Viene da considerare come, in effetti, si sia al cospetto di una gigantesca dinamica storica di “espropriazione sociale” da parte di pochi individui nei confronti della maggioranza assoluta della società; ciò che fondamentalmente equivale alla negazione del diritto “naturale” e “razionale” di proprietà/appropriazione dell’uomo sul prodotto del “proprio” lavoro, comportando una sostanziale (ma, in ogni caso, storicamente “transitoria”) iniquità e non razionalità di tutte le regole giuridiche “positive” di distribuzione/ripartizione del prodotto sociale.

L’iniquità delle norme giuridiche distributive della ricchezza sociale è, infatti, destinata ad essere progressivamente superata nel processo dialettico reale, che conduce, in modo oggettivo, attraverso “rotture” rivoluzionarie e discontinuità, a nuove forme di “proprietà collettiva” o “socialista”. Marx ed Engels (ne “Il Manifesto del Partito Comunista”, 1848) parlavano di “proprietà dei produttori associati” o “proprietà sociale”, per indicare tale nuova forma “socialista” di proprietà collettiva e comune (o “pubblica”) sui mezzi/strumenti di produzione (dotati di rilevanza sociale), necessariamente generata dallo sviluppo economico-sociale delle forze produttive del lavoro associato, accanto alla diretta “proprietà personale” o diritto di uso/godimento/disposizione personale sui beni di consumo prodotti dalla società e ripartiti/distribuiti razionalmente/equamente ed in modo “egualitario” tra tutti i componenti della stessa (in ragione della eliminazione radicale dello sfruttamento del capitale sul lavoro e della soppressione giuridica del profitto privato), secondo universali criteri e principi di giustizia distributiva ed uguaglianza sostanziale proporzionale ai bisogni ed ai diritti fondamentali di tutti gli esseri umani (ma, si potrebbe aggiungere, sviluppando coerentemente il ragionamento marxiano, di tutti gli esseri viventi animali umani e non umani senzienti e coscienti) che formano le aggregazioni sociali attraverso le quali si esplica l’esistenza e la vita materiale individuale e collettiva.

Le forme giuridiche della proprietà pubblico-collettiva (o “comune”) e della proprietà “sociale” di lavoratori o utenti sui beni produttivi, sono in effetti già presenti (insieme alle prevalenti e tipiche forme della proprietà privata) anche attualmente, soprattutto in alcuni ordinamenti giuridici orientati in senso marcatamente “democratico-sociale” (ad esempio, l’art. 43 della Costituzione della Repubblica Italiana, nel disciplinare l’istituto giuridico della nazionalizzazione o collettivizzazione delle aziende, fa riferimento ad imprese e relativi mezzi di produzione sottratti “ex lege”, ossia per provvedimento giuridico-normativo coattivo, ai privati ed attribuiti, per ragioni di preminente “interesse generale”, allo Stato, ad enti pubblici o a “comunità di lavoratori o di utenti”, cioè sostanzialmente a “cooperative” che dovrebbero realizzare forme di “autogestione” e “controllo operaio” sulla produzione da parte degli stessi lavoratori o utenti dell’impresa).

Tali forme giuridiche sono, nella realtà, ovviamente “piegate” alle esigenze di fondo delle organizzazioni capitalistiche in cui sorgono ed operano; è tuttavia innegabile che esse costituiscono l’effetto sintomatico e tangibile dell’evoluzione storica delle forze produttive del lavoro associato, dei metodi di produzione sempre più “socializzati” e della loro pressione dialettica (attraverso l’articolazione e l’andamento concreto dei conflitti di classe) sui rapporti di produzione/proprietà capitalistici, rappresentando in qualche modo l’indicatore di una dinamica di sostanziale “socializzazione” del lavoro e della produzione, che collide inevitabilmente con l’appropriazione privata del prodotto sociale complessivo e con le connesse relazioni strutturali. Si potrebbe, in un certo senso, affermare, sulla base dei dati storici, che attraverso l’istituto giuridico della collettivizzazione o nazionalizzazione dei mezzi produttivi (imprese-aziende) concentrati e di grandi dimensioni (dunque necessariamente di utilizzo, rilevanza ed utilità sociali), si manifesta, in forma potenziale/embrionale, nel processo storico reale e sul piano logico-concettuale delle norme giuridiche, il fenomeno della soppressione della proprietà privata capitalistica su detti mezzi di produzione e della contestuale instaurazione su di essi di una differente proprietà pubblica/sociale/collettiva o “comune” di natura potenzialmente ed intrinsecamente “socialista” (se e nella misura in cui essa si possa collegare a forme di “controllo operaio” ossia di controllo dei lavoratori produttivi sulla gestione dell’impresa stessa), fondata, in linea di principio e teorica, sulla “volontà collettiva” della maggioranza della società (una volontà, quindi, di tipo tendenzialmente “socialista” in quanto collegata alla classe lavoratrice nella sua interezza).

Tale “volontà collettiva” assume (in modo progressivo e dialettico-contraddittorio), nel corso dello sviluppo storico, forme di razionalità cosciente ed “universalità” crescenti, in connessione con l’evoluzione concreta delle forze produttive del “lavoro sociale” (che operano oggettivamente in senso sempre più organizzato, associato ossia “collettivo” e “cooperativo”).

Secondo Marx, in un sistema prima socialista e poi comunista, il lavoro, anziché dividere gli uomini e renderli schiavi, li unisce e li libera dall’oppressione, dà piena espressione alle loro capacità intellettuali, pratiche e creative in modo assolutamente libero all’interno di uno sforzo comune di cooperazione/collaborazione collettiva diretta a realizzare una causa comune razionalmente accettata da tutti i consociati[43]. Marx parla del lavoro liberato dalle catene dello sfruttamento capitalistico identificandolo con quella libera creazione che è la più completa espressione della natura e della dignità umana priva di impedimenti, essenza della felicità, emancipazione ed armonia razionale dell’uomo in connessione con gli altri uomini; altre volte, e più ragionevolmente, egli contrappone il lavoro al tempo libero e prevede che, con l’abolizione dello sfruttamento del capitale e del profitto privato, con l’avvento del comunismo e l’abolizione delle classi sociali, il lavoro sarà ridotto al minimo indispensabile, ma non sarà eliminato del tutto: esso ovviamente non sarà il lavoro di schiavi sfruttati ma di uomini liberi ed uguali (cioè liberati completamente dallo sfruttamento e dall’oppressione capitalistica), che costruiscono la loro esistenza materiale e spirituale associata e comune in accordo con regole (morali e giuridiche) liberamente stabilite e liberamente accettate da tutti in modo paritario e reciproco; e tuttavia alcune forme di lavoro (tutte quelle più essenziali al progresso materiale e spirituale dell’umanità) continueranno ad esistere ed a rientrare, così come Marx afferma verso la fine del terzo libro del “Capitale”, “nel regno della necessità”[44]; il vero “regno della libertà” (della non costrizione) ha inizio solo oltre tale limite della necessità e può realizzarsi solo ed esclusivamente avendo “quale proprio fondamento il regno della necessità”[45].

La necessità per l’essere umano e per le sue organizzazioni collettive di tale quantità minima di lavoro è, quindi, parte inevitabile, ineliminabile ed oggettiva della loro natura e della loro sopravvivenza fisico-materiale, che è assolutamente impossibile eliminare[46].  

In un sistema di accumulazione capitalistica, pertanto sussiste un evidente contrasto del contenuto prescrittivo delle regole giuridiche distributive “positive”, con il principio logico-giuridico “razionale/universale” della cd. “giustizia distributiva” consistente nel dovere di attribuire a ciascun membro della società (contro ogni altro) ciò che può essergli considerato “proprio” (a lui riconducibile direttamente e, dunque, “dovuto” e legittimamente spettante) ossia nel dovere universale di attribuire correttamente ed equamente a ciascun membro della società il proprio “legittimo diritto (fondamentale)”, su un piano di assoluta e generale uguaglianza, parità e reciprocità rispetto ad ogni altro membro della società stessa[47] (il principio in questione può evidentemente essere esteso fino a ricomprendere tutti gli esseri viventi coscienti e senzienti umani e non umani, consociati in un’organizzazione collettiva ovvero, più ampiamente, membri a pieno titolo di una “comunità biologica interspecifica universale”).

Su un piano razionale-astratto, il diritto (in quanto “puro concetto”) è, infatti, definibile come la regola dell’azione o del comportamento pratico (potenzialmente costrittiva) in base alla quale “la libertà dell’arbitrio di ognuno può coesistere con la libertà dell’arbitrio di ogni altro secondo una legge universale” e, quindi, egualitaria (definibile come legge della “ragione pratica”), costituendo “ingiustizia” ogni ostacolo/resistenza “particolare” a tale coesistenza[48].

Il punto centrale dell’articolo sul “Socialismo giuridico” è dato dall’osservazione critica di Engels e di Kautsky relativa al fatto che Menger avesse ridotto la teoria e la dottrina del movimento socialista alla sola rivendicazione di tre diritti umani fondamentali: 1) il diritto al compenso integrale del lavoro; 2) il diritto all’esistenza; 3) il diritto al lavoro. Secondo Engels e Kautsky, invece, il socialismo non può essere ridotto, da un punto di vista giuridico, alla pura e semplice aspirazione a tre diritti umani fondamentali, essendo in realtà un processo più complesso, profondo ed onnilaterale, di cui eventualmente la realizzazione dei sopra specificati diritti fondamentali potrebbe rappresentare un effetto derivato, un elemento conseguente ovvero una delle parti costitutive del processo reale generale.

Il diritto al lavoro viene pertanto considerato “un’esigenza provvisoria, la prima maldestra formula in cui si riassumono le pretese rivoluzionarie del proletariato (Marx)”[49]; ma proprio in ciò risiede l’importanza della rivendicazione politico-giuridica dello stesso diritto al lavoro (ed in generale di tutti gli altri diritti fondamentali civili e sociali degli esseri umani, tra i quali spiccano il diritto di ogni lavoratori ad un’esistenza libera e dignitosa, il diritto di ogni lavoratore alla propria integrità psico-fisica e personalità/libertà morale ed il diritto di ogni lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato) in funzione della realizzazione della prospettiva socialista (l’unica che può effettivamente e concretamente attuare nella realtà il contenuto logico di tali diritti).

Marx afferma che “i diritti umani”, in un sistema economico-sociale borghese-capitalistico, sono l’espressione ideologica della situazione dell’uomo “estraniato” nella società civile e scisso o separato artificialmente da essa: “i cosiddetti diritti dell’uomo (…), come distinti dai diritti del cittadino non sono altro che i diritti del membro della società civile, cioè dell’uomo egoista, dell’uomo separato dall’uomo e dalla comunità. (…) il diritto dell’uomo alla libertà si basa non sul legame dell’uomo con l’uomo, ma piuttosto sull’isolamento dell’uomo dall’uomo. Esso è il diritto a tale isolamento, il diritto dell’individuo limitato, limitato a se stesso”[50].

Ciò implica che, per Marx, la libertà e gli altri diritti fondamentali individuali devono necessariamente essere correlati/connessi, dialetticamente e su un piano di assoluta ed universale uguaglianza sostanziale, con la libertà e con i diritti fondamentali individuali e collettivi di tutti gli altri consociati, con una conseguente razionale limitazione reciproca ed equilibrante delle relative sfere giuridiche di libertà individuali e collettive; i fondamentali diritti individuali di libertà devono quindi essere ragionevolmente (o razionalmente) delimitati dall’interesse pubblico/comune e collocati all’interno dell’organizzazione sociale complessiva, nel contesto ampio della collettività sociale organizzata cioè della universale/generale comunità sociale, fondendosi con essa in una superiore sintesi dialettica che esprima una sostanziale unità razionale superiore (ed onnicomprensiva) del particolare con l’universale, della volontà, dei diritti e degli interessi individuali con la volontà, i diritti e gli interessi collettivi/comuni riferibili alla società nel suo complesso.

Tali diritti devono quindi essere limitati, condizionati, bilanciati e circoscritti in ragione del necessario e reciproco obbligo di rispetto non solo degli uguali diritti fondamentali spettanti a tutti gli altri consociati, ma anche (e soprattutto) dei diritti e degli interessi fondamentali collettivi e generali (ovvero “comuni” e “pubblici”) imputabili alla comunità sociale nel suo complesso.

Ciò, evidentemente, nella sostanza non è realizzabile (se non in minima parte e solo sul piano dell’enunciazione formale) all’interno di un sistema economico-sociale capitalistico in cui vengono legittimati il “diritto” e la “libertà” individuali (irrazionali ed arbitrari) di sfruttare il lavoro altrui, cioè il “diritto” e la “libertà” di pochi soggetti di appropriarsi, senza contropartita retributiva o corrispettivo, del maggior valore prodotto dal lavoro collettivo di tutti gli altri consociati, di opprimere, dominare e sfruttare, in funzione del proprio profitto privato, non solo tutta la società umana ma anche l’intero ambiente naturale di cui essa è parte integrante insieme a tutte le altre forme di vita biologica.

L’esito logicamente coerente del ragionamento marxiano è, dunque, che solo una società socialista (che elimina alla radice il profitto privato e stabilisce concretamente criteri normativi di uguaglianza sostanziale generale e giustizia sociale distributiva nella ripartizione del valore prodotto dal lavoro collettivo associato e cooperativo) può effettivamente realizzare i principi ed i diritti fondamentali in questione, stabilendo conseguentemente (con norme giuridiche obbligatorie e cogenti) che nessuno può avere il “diritto” o la “libertà” di sfruttare il lavoro degli altri consociati, di appropriarsi, senza retribuzione, del plusvalore prodotto dal lavoro collettivo altrui (che invece deve essere redistribuito tra tutti i consociati secondo criteri razionali di uguaglianza e giustizia sostanziale), di opprimere, dominare e sfruttare la società nel suo complesso e l’intero ambiente naturale con tutte le forme di vita esistenti, in ragione del fatto che sussistono e sono prevalenti, per tutti i membri della società e per tutti gli esseri viventi, un diritto ed una libertà universali, individuali e collettivi (spettanti ad ogni singolo consociato ed alla collettività sociale nel suo insieme) di non essere sfruttati, dominati ed oppressi, oltre che un “diritto” altrettanto universale dell’ambiente naturale (con tutte le forme di vita biologica in esso esistenti) di non essere sfruttato, violato, inquinato e distrutto.

2.2 Diritto al lavoro, principio di uguaglianza e prospettiva socialista.

Nella forma logico-giuridica del “contratto di lavoro”, lavoratore e capitalista appartengono astrattamente ad un’unica classe naturale (quella degli “esseri umani”) e si configurano formalmente come “libere” persone aventi uguale capacità giuridica cioè uguale capacità di essere titolari di diritti e doveri e di compiere atti negoziali che producono effetti giuridici vincolanti: “se dunque la forma economica, lo scambio, pone da tutti i lati l’eguaglianza dei soggetti, il contenuto che spinge allo scambio, pone la loro libertà”[51]. Ma ciò è evidentemente un’astrazione formale e logico-concettuale che cela la sostanza economico-sociale del rapporto di lavoro subordinato: il salario cela il lavoro che l’operaio salariato compie senza alcuna retribuzione; l’equivalenza, propria di ogni scambio, cela l’ineguaglianza reale, lo sfruttamento del capitalista sul lavoratore salariato; l’indipendenza formale nasconde la dipendenza reale e sostanziale[52].

In forza di questi presupposti, ad avviso di Marx, “il diritto al lavoro è nel senso borghese un controsenso, un meschino, pio desiderio; ma dietro il diritto al lavoro sta il potere sul capitale, dietro il potere sul capitale sta l’appropriazione dei mezzi di produzione, il loro assoggettamento alla classe operaia associata, e quindi l’abolizione del lavoro salariato, del capitale e dei loro rapporti reciproci”[53]. Per Marx, il diritto al lavoro non è sicuramente l’unico mezzo adatto per realizzare la rivoluzione proletaria e socialista, ma la sua intrinseca natura “socialista” e la sua potenziale capacità di scardinamento del sistema economico borghese, è indubbia ed assolutamente rilevante; essa viene ammessa ed evidenziata dallo stesso Marx, che, proseguendo nella sua analisi, afferma: “l’Assemblea costituente, che aveva posto di fatto il proletariato rivoluzionario hors la loi, fuori legge, doveva per ragioni di principio espellere dalla Costituzione, dalla legge delle leggi, una formula: doveva lanciare il suo anatema contro il diritto al lavoro”[54].

La lotta per il diritto al lavoro, vale a dire la questione e la richiesta “giuridica” del diritto al lavoro, portata avanti dalle organizzazioni collettive (economico-sociali e politiche) della classe operaia, diventa per Marx centrale ed essenziale, nel contesto di un regime borghese-capitalistico, per il suo carattere oggettivamente e nettamente antitetico rispetto al fondamento stesso della struttura economico-sociale capitalistica; essa diventa centrale ed essenziale non solo in funzione dell’elevamento (sia pure minimale) delle condizioni materiali di vita delle classe lavoratrici e della loro coscienza collettiva, ma anche per il fatto intrinseco che la stessa pretesa giuridica integrante il contenuto (logico-prescrittivo e materiale) del diritto al lavoro, essendo sostanzialmente ostile al sistema capitalistico, pone di fatto le basi della prospettiva rivoluzionaria socialista e comunista, assume cioè una rilevanza essenziale nella prospettiva strategica della conquista del potere politico da parte della classe lavoratrice e della conseguente costruzione di uno Stato socialista (ovvero di un governo politico generale dei lavoratori) con una corrispondente organizzazione economico-sociale socialista e comunista ossia di una società dominata ed organizzata dalle forze del lavoro collettivo associato, organizzato in modo cooperativo, combinato ed interconnesso di tutti i suoi componenti, tutti ugualmente appartenenti ad un’unica classe lavoratrice (coincidente con l’intera collettività sociale) che possiede e controlla direttamente la totalità dei mezzi o strumenti economico-produttivi di “rilevanza sociale”, attraverso la forma giuridica di un diritto di proprietà pubblico-collettiva e di controllo della società (nella sua integralità) sul capitale complessivo sociale, cui corrisponde una ripartizione individuale egualitaria dei beni di consumo e del valore economico prodotto dal lavoro collettivo, secondo razionali e perequati criteri (necessariamente giuridico-normativi) di giustizia distributiva e di uguaglianza sostanziale proporzionale ai bisogni ed ai diritti fondamentali di ciascun cittadino-lavoratore consociato, il quale mantiene, quindi, un diritto intangibile di appropriazione personale sui beni di consumo distribuiti equamente secondo i predetti principi di uguaglianza sostanziale.

Si tratta, dunque, di una società (quella socialista/comunista) che elimina totalmente il profitto privato e la disoccupazione garantendo a tutti i cittadini un pieno ed effettivo diritto al lavoro dignitosamente ed equamente retribuito nonchè libero dallo sfruttamento capitalistico.

Engels e Kautsky procedono, inoltre, ad una serrata “critica marxista” del primo principio del “Socialismo giuridico” elaborato da Menger, cioè del diritto della classe operaia a ricevere “il compenso integrale del lavoro”: nella “Critica al Programma di Gotha”, Marx confuta minuziosamente l’idea di Lassalle (poi mutuata da Menger nella formulazione del diritto fondamentale n. 1) che l’operaio riceve, in un regime socialista, il frutto non ridotto o il “compenso integrale” del proprio lavoro; Marx dimostra che, in una società socialista, ogni lavoratore ha certamente diritto ad una retribuzione giusta, adeguata, sufficiente e proporzionata alla quantità di lavoro prestata in favore della società, ma, in ogni caso, essa è una retribuzione decurtata di una quota parte in ragione della necessità di finanziare le spese collettive/comuni imprescindibili per il funzionamento dell’intera organizzazione sociale. Marx afferma infatti che dal lavoro complessivo di tutta la società (socialista) bisogna detrarre: un fondo di riserva, un fondo per l’estensione della produzione, un fondo destinato a reintegrare il macchinario consumato ecc., e inoltre bisogna detrarre, dal lavoro complessivo sociale (dal reddito/valore derivante dal lavoro complessivo sociale) e dagli oggetti di consumo, un fondo (di consumo sociale) destinato a finanziare le spese di amministrazione e le spese pubbliche per la scuola, gli ospedali, gli ospizi ecc.[55].

In altri termini, nell’ottica marxiana, dal lavoro e dal reddito complessivo di tutta la società (organizzata su basi socialiste) bisogna detrarre, attraverso l’imposizione fiscale, una quota di valore economico diretto a finanziare i fondi pubblici per coprire le spese comuni connesse all’erogazione dei servizi e dei beni pubblico-collettivi a rilevanza sociale e funzionali a garantire (in modo egualitario) i bisogni ed i diritti sociali fondamentali (individuali e collettivi) di tutti i membri della società (salute, istruzione, assistenza e previdenza sociale, abitazione, servizi pubblici in generale etc.).

A differenza della formula nebulosa, oscura e generica di Lassalle (e, dopo di lui, di Menger) (“diritto dell’operaio al frutto/compenso integrale del suo lavoro”), Marx stabilisce ponderatamente e realisticamente come deve essere la gestione giuridica ed economica di una società socialista: in questa società “pre-comunista” l’uguale diritto non scompare, continua ad esistere, ma è ancora “diritto borghese” (in via di trasformazione dialettica verso il “diritto socialista”) e, come ogni diritto, presuppone la disuguaglianza materiale: “Il diritto può consistere soltanto, per sua natura, nell’applicazione di un’uguale misura; ma gli individui disuguali (e non sarebbero individui diversi se non fossero disuguali) sono misurabili con uguale misura solo in quanto vengono sottomessi [dalla norma giuridica generale ed astratta e, dunque, “uguale”, n.d.r.] soltanto secondo un lato determinante: per esempio, in questo caso, soltanto come operai, e si vede in loro soltanto questo, prescindendo da ogni altra cosa. Inoltre, un operaio è ammogliato, l’altro no; uno ha più figli dell’altro, ecc. ecc.. Supposti uguali il rendimento e quindi la partecipazione al fondo di consumo sociale, l’uno è più ricco dell’altro e così via. Per evitare tutti questi inconvenienti, il diritto, invece di essere uguale, dovrebbe essere disuguale”[56].

A ben vedere però, questa affermazione di Marx implica logicamente il principio giuridico universale di uguaglianza “formale-sostanziale” e quello di giustizia distributiva (intrinsecamente “socialista”) in base ai quali è necessario trattare normativamente in modo “uguale” i casi formalmente e sostanzialmente “uguali” o simili in misura giuridicamente e socialmente rilevante e trattare normativamente in modo ragionevolmente e proporzionalmente “disuguale” i casi formalmente e sostanzialmente “disuguali” o dissimili in misura giuridicamente e socialmente rilevante, in ragione della finalità razionale essenziale di “avvantaggiare” gli individui, gli strati ed i gruppi sociali oggettivamente e sostanzialmente più svantaggiati, meno favoriti o più deboli (ossia strutturalmente/naturalmente meno avvantaggiati), con lo scopo ultimo di eliminare o ridurre, progressivamente ed al massimo grado, irragionevoli disuguaglianze ed iniquità sociali.

Questo concetto giuridico-normativo di uguaglianza sociale/sostanziale può, pertanto, essere effettivamente, concretamente ed integralmente realizzato nella oggettiva dimensione fattuale e storica, solo mediante l’instaurazione di un sistema economico-sociale “socialista” fondato sulla proprietà “comune” (sociale e collettiva) dei mezzi di produzione rilevanti socialmente (connessa al controllo operaio sulle industrie e sulle imprese produttive), riconducibile alla intera collettività sociale dei lavoratori e delle masse popolari, organizzata politicamente nelle istituzioni consiliari/assembleari democraticamente rappresentative della “volontà generale” del popolo lavoratore (“democrazia socialista”) ed esprimenti un governo politico, un potere giuridico-normativo di livello legislativo (che traduce in norme giuridiche generali ed astratte l’indirizzo politico socialista) ed uno Stato (ossia un’organizzazione politica generale della società) “propri” degli stessi lavoratori e delle stesse masse popolari. Un governo politico ed un potere legislativo generale rappresentativo degli interessi comuni del “popolo lavoratore”, che possa, a sua volta, procedere ad una distribuzione/redistribuzione del valore economico complessivo generato dal lavoro collettivo-sociale, secondo razionali ed equi principi di giustizia distributiva ed uguaglianza sostanziale ragionevolmente proporzionale ai diritti fondamentali, alle necessità, agli interessi (legittimi) ed ai bisogni sociali individuali e collettivi (ossia generali e comuni) di tutti i membri della comunità sociale organizzata, attraverso regole giuridiche di razionale e giusta/egualitaria ripartizione o distribuzione del prodotto sociale (e, quindi, attraverso un conseguente equo prelievo tributario sui lavoratori e sulle imprese socialiste, finalizzato al necessario finanziamento pubblico dell’erogazione di beni e servizi a rilevanza ed utilità collettiva, generale e sociale), che, in questo contesto, non possono non acquisire dialetticamente la connotazione essenziale di regole giuridiche socialiste, costituenti effettivamente (nel loro complesso) un “diritto oggettivo” ed un ordinamento giuridico-normativo di natura socialista.

Questo principio generale di uguaglianza formale e sostanziale (uguaglianza dei diritti fondamentali e nei diritti fondamentali) assume dunque, nel corso del progressivo sviluppo storico e logico-dialettico della complessiva realtà oggettiva materiale e sociale, una dimensione sempre più razionale ed universale, estendendosi necessariamente e gradualmente a tutti gli esseri viventi coscienti e senzienti (umani e non umani) e potendo acquisire una piena, effettiva, integrale e sostanziale realizzazione concreta solo mediante la superiore forma di organizzazione economico-sociale e politica socialista/comunista della società umana, con la connessa piena evoluzione di tutte le facoltà intellettivo-razionali collettive che si estrinsecano nelle varie manifestazioni della conoscenza scientifica e della cultura in generale.

La parte più interessante dell’articolo di Engels e Kautsky sul “Socialismo giuridico” è, tuttavia, la parte finale in cui gli autori traggono le conclusioni politiche del loro ragionamento, affermando che “(…) non si intende dire che i socialisti rinunceranno a esprimere <<determinate pretese giuridiche>>. Un partito socialista attivo, come ogni partito politico in genere, è impossibile senza di esse. Le richieste che scaturiscono dagli interessi comuni di una classe sociale, possono essere realizzate soltanto se questa classe conquista il potere politico, facendo acquisire alle proprie richieste validità in forma di legge. Ogni classe in lotta deve dunque formulare le proprie richieste in un programma, sotto forma di pretese giuridiche. Ma le richieste di ogni classe cambiano nel corso delle trasformazioni sociali e politiche, sono diverse in ogni Paese, a seconda delle sue peculiarità e del suo grado di sviluppo sociale. Perciò, anche le pretese giuridiche dei singoli partiti, pur con tutto l’accordo negli obiettivi finali, non sono completamente le stesse per ogni epoca e per ogni popolo. Sono un elemento mutevole e vengono riviste di epoca in epoca, come si può desumere nei partiti socialisti dei diversi paesi. In tali revisioni, sono le <<condizioni reali>> ad essere tenute in conto; invece a nessuno dei partiti socialisti esistenti è ancora venuto in mente di trarre dal proprio programma una nuova filosofia del diritto, e questo non potrà loro venire in mente nemmeno in futuro”[57].

Ciò significa evidentemente che i partiti socialisti e comunisti, in quanto rappresentanti degli interessi materiali, politici e “spirituali” comuni/collettivi della classe operaia e della classe lavoratrice nel suo complesso, devono necessariamente dare al proprio programma socialista – ovvero al socialismo come “programma politico” e come obiettivo strategico da realizzare attraverso l’abbattimento del sistema capitalistico e la costruzione di un sistema economico-sociale (e dunque anche “politico-giuridico”) socialista e comunista – una “forma giuridica”, il che implica che essi devono dare ai propri obiettivi socialisti (transitori e definitivi) la forma logica di “pretese giuridiche e legali”, la forma giuridica rivendicativa dei “diritti sociali” propri della classe lavoratrice: diritto all’uguaglianza sostanziale, diritto al lavoro, diritto ad una giusta/equa retribuzione ed alla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, diritto alla sicurezza/incolumità, alla vita/esistenza biologica, al benessere ed all’integrità psico-fisica, diritto alla libertà morale ed alla piena dignità personale e sociale di ciascun lavoratore e di ciascun essere umano consociato, diritto alla giusta ed uguale distribuzione dei beni e dei servizi prodotti dal lavoro collettivo, diritto al controllo operaio sulla produzione e sui mezzi produttivi delle imprese, diritto di proprietà collettiva/pubblica dei mezzi di produzione concentrati e rilevanti etc.. Tutti diritti (e pretese giuridiche) concretamente realizzabili, in modo pieno, effettivo e sostanzialmente integrale, solo attraverso l’instaurazione rivoluzionaria di un complessivo sistema economico-sociale (cioè economico-produttivo e politico-istituzionale) socialista/comunista, che sostituisca il fallimentare sistema di produzione capitalistico (arrivato oggettivamente al suo termine storico).

Di fondo, lo stesso metodo scientifico marx-engelsiano individua una verità oggettiva indiscutibile: è la dinamica storica della lotta di classe tra capitale e lavoro, con la conseguente pressione materiale esercitata dalla forza della classe lavoratrice e delle sue organizzazioni sociali e politiche (il sindacato ed i partiti politici dei lavoratori), ad avere dialetticamente determinato, sul piano della generale “regolarità causale”, il sorgere dei diritti “sociali” del lavoro e dei lavoratori (diritto al lavoro, diritto alla retribuzione proporzionata ed adeguata alla quantità di lavoro prestato e comunque sufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa al lavoratore, diritto alla durata massima del tempo di lavoro ed al riposo, diritto alla pari/uguale dignità personale e sociale di ogni lavoratore, diritto alla vita, all’esistenza biologico-materiale, all’incolumità ed alla sicurezza personale, alla salute ed all’integrità psico-fisica del lavoratore, diritto alla previdenza ed all’assistenza sociale in caso di bisogno, diritto all’istruzione, diritto di associazione sindacale e politica, diritto di manifestazione del pensiero, diritto di sciopero per tutelare i propri interessi comuni di classe) e la loro espressa formalizzazione in norme giuridiche valide ed efficaci, sia pure spesso (come è naturale) del tutto inattuate nell’ambito di una società ancora capitalistica.

Tali norme giuridiche, tuttavia, rappresentano “obiettivi transitori” rilevanti ed enormi passi avanti nel contesto generale ed universale del progressivo sviluppo storico oggettivo delle forze produttive sociali dell’umanità verso l’instaurazione del socialismo, il quale ultimo, necessariamente e razionalmente, rappresenta il più avanzato sistema economico-sociale in grado di realizzare sostanzialmente, in modo pieno ed effettivo, il contenuto essenziale di tutti i diritti sociali del lavoro e dei lavoratori.

In altri termini, le “pretese giuridiche” socialiste avanzate dai partiti dei lavoratori (storicamente i partiti comunisti e socialisti) sono pretese sostanziali e materiali di natura “politica” (parte di un programma politico generale socialista/comunista), che assumono, contestualmente e necessariamente, la immediata configurazione logico-concettuale (“universale”) di diritti, poteri e (future) “norme” giuridiche; esse si collocano, appunto, all’interno di un programma politico di obiettivi transitori in grado di innalzare il livello di coscienza socialista/comunista della più estesa maggioranza possibile della classe lavoratrice, conquistandone il consenso e l’appoggio volontario alla linea generale dello stesso partito marxista-rivoluzionario ed al suo progetto di rivoluzione socialista, in ragione della progressiva acquisizione della piena consapevolezza razionale circa la necessità storica obiettiva di un “governo politico dei lavoratori” funzionale alla riorganizzazione dell’intera società su basi socialiste.

Lo stesso “diritto al compenso integrale del lavoro”, pur nella sua genericità ed approssimazione concettuale, può essere correttamente inteso nel significato ampio di diritto di ogni lavoratore ad una retribuzione proporzionalmente uguale (in linea tendenziale) al valore prodotto dal proprio lavoro (con le necessarie detrazioni fiscali finalizzate al finanziamento delle spese pubblico-collettive di utilità sociale) ed implica un principio universale di giustizia distributiva in base al quale il valore complessivo prodotto dal lavoro sociale (dal lavoro individuale e collettivo associato, organizzato, combinato ed interconnesso socialmente) deve essere distribuito tra i consociati secondo criteri razionali ed equi di uguaglianza proporzionale non solo al contributo quantitativo e qualitativo fornito da ciascun lavoratore, ma anche e soprattutto proporzionale ai diritti ed ai bisogni fondamentali (vita, esistenza, benessere ed integrità psico-fisica, dignità personale umana e sociale, libertà morale, sicurezza fisica e sociale etc.) di ciascun componente/membro della collettività sociale organizzata.

Tale “principio naturale di distribuzione” (e tale criterio di giustizia distributiva) è di possibile attuazione concreta soltanto “in una società con proprietà comune, ma con un uso speciale”[58] ossia una società fondata sul possesso e sulla proprietà “comune” (collettivo-sociale) dei mezzi di produzione (almeno di quelli socialmente rilevanti ossia, escludendo le imprese artigianali condotte prevalentemente dal lavoro autonomo e personale del titolare, delle medie e grandi imprese/aziende che vengono necessariamente attivate, gestite e fatte funzionare solo attraverso il lavoro collettivo, associato ed organizzato di una pluralità di persone) e, contemporaneamente, sul possesso, sulla proprietà e sull’uso personale/individuale e “particolare” dei beni di consumo necessari ad una esistenza umana dignitosa socialmente, distribuiti equamente secondo razionali ed adeguati/proporzionati criteri di giustizia distributiva sostanzialmente egualitaria.

In definitiva, al centro di tutta la questione si colloca, ancora una volta, “l’esigenza di <<uguaglianza>>, che dominò l’intero socialismo rivoluzionario francese, da Babeuf a Cabet e Proudhon, ma che il Signor Menger riuscirà a fatica a formulare giuridicamente, nonostante il fatto che, o forse proprio perché, essa sia stata la più giuridica fra tutte quelle che sono state menzionate”[59].

Il processo razionale dello sviluppo storico reale (delle forze produttive della società umana, dei rapporti di produzione e della lotta di classe) si concluderà (necessariamente), dunque, con la piena instaurazione della “società comunista”, la quale, secondo la visione marxiana, eliminerà definitivamente ogni divisione di classe procedendo alla totale liberazione individuale e collettiva da ogni forma di oppressione, violenza e sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura e su tutti gli altri esseri viventi coscienti e senzienti; questo produrrà l’integrale instaurazione del vero principio universale di uguaglianza sostanziale, in base al quale il prodotto sociale del lavoro collettivo verrà ripartito secondo il criterio razionale di giustizia distributiva: “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”[60], che implica il concetto di uguale trattamento normativo di situazioni sostanzialmente uguali e di ragionevole e proporzionato diverso/disuguale trattamento normativo di situazioni sostanzialmente disuguali.

In una società senza classi sociali contrapposte, priva di sfruttamento ed oppressione da parte di una classe dominante sulle classi dominate e costituita, quindi, da un’unica classe sociale composta soltanto da lavoratori/produttori associati ed “uguali” (quanto all’attribuzione paritaria dei diritti fondamentali) tra loro (cioè una società in cui “lo sviluppo di ciascuno è condizione imprescindibile per il libero sviluppo di tutti”[61]), lo Stato come apparato e strumento politico utilizzato dalla classe sociale dominante per controllare ed opprimere la classe dominata, esaurita la sua funzione storica, si estingue. Tuttavia, ne “Il Manifesto del Partito Comunista” del 1847-48 e poi ancora nel 1850 e nel 1852, Marx aveva reso chiaro che lo Stato non sarebbe scomparso immediatamente, dovendo essere necessario un periodo temporale di trasformazione rivoluzionaria della società dal capitalismo al socialismo ed al comunismo. In questo stadio di transizione, l’autorità statale dovrebbe essere mantenuta ed anzi rafforzata, ma essa sarebbe stata assoggettata al totale controllo (democratico) dei lavoratori (della classe operaia e di tutte le masse lavoratrici proletarie e semiproletarie), rappresentanti la maggioranza assoluta e prevalente (anzi la quasi totalità) della società e divenuti ormai classe dominante; in questa prima fase (fase socialista) della Rivoluzione, lo Stato sarà “la dittatura rivoluzionaria del proletariato”[62] (secondo la prima formula leninista, la “dittatura democratica degli operai e dei contadini”) ovvero sarà lo “Stato dei lavoratori”, strutturato su organi istituzionali consiliari/assembleari democraticamente rappresentativi degli interessi e di tutte le tendenze o opinioni politiche socialiste dei lavoratori associati; organi che sono dotati congiuntamente di potere legislativo ed esecutivo (come è storicamente accaduto con lo Stato socialista sovietico generato dalla Rivoluzione bolscevico-leninista russa dell’Ottobre 1917).

Durante questo periodo, prima che si riesca a superare la scarsità economica, il salario dei lavoratori sarà necessariamente erogato secondo il principio di uguaglianza proporzionale al lavoro da essi svolto e la disoccupazione sarà comunque totalmente eliminata con la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro. Ma allorquando “il completo sviluppo della ricchezza cooperativa” avrà creato una società di liberi ed uguali, in cui “le sorgenti della ricchezza cooperativa scorreranno con maggiore abbondanza”[63], l’obiettivo comunista sarà raggiunto. Solo allora e non prima, si giungerà finalmente alla comunità ideale (quella comunista) e non vi saranno più né padroni, né schiavi, né sfruttatori né sfruttati, né ricchi né poveri; in essa i beni di questo mondo, prodotti (da un sistema economico collettivista democraticamente organizzato e pianificato) secondo le richieste ed i bisogni sociali non deformati dall’arbitrio individuale, verranno distribuiti equamente non in base ad un mero principio di uguaglianza e giustizia formale o aritmetica, ma secondo un principio di razionale uguaglianza e giustizia sostanziale: infatti, non essendo uguali le capacità e i bisogni dei singoli individui, il contributo sociale dato e ricevuto da ciascuno, per essere giusto, dovrà essere strutturato secondo la celebre formula (o “norma”) marxiana di giustizia distributiva contenuta nella “Critica del Programma di Gotha” del 1875: “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Gli uomini, finalmente emancipati e liberati dall’oppressione e dallo sfruttamento di classe, cominceranno a sviluppare al massimo le proprie capacità individuali e collettive, la storia non sarà più una successione di classi sfruttatrici e classi sfruttate, la soggezione alla divisione del lavoro cesserà e si realizzerà la vera libertà (oscuramente preannunciata da Hegel); solo allora avrà inizio la storia umana, nel vero senso della parola[64].

La produzione è un’attività sociale; ogni forma di cooperazione, collaborazione e divisione del lavoro crea obiettivi, fini, scopi ed interessi (quindi “diritti”) comuni, “sociali”, unitari e distinti rispetto a quelli dei singoli che vi partecipano. Se avviene, come nella società capitalistica, che il prodotto del lavoro collettivo ed associato sia fatto proprio da un settore ultraminoritario della società e usato a suo esclusivo vantaggio, inesorabilmente, secondo l’analisi marx-engelsiana, questo fatto contrasta e collide con le esigenze, i bisogni, gli interessi ed i diritti “naturali” della società umana, cioè con ciò che è necessario agli esseri umani (la cui caratteristica intrinseca è quella di essere “sociali”) per potersi sviluppare pienamente e liberamente (sotto il profilo individuale e collettivo)[65].

Secondo Marx, coloro che accumulano nelle proprie mani i mezzi di produzione ed i loro frutti sotto forma di capitale, necessariamente privano la maggior parte dei produttori, i lavoratori, di ciò che essi stessi creano e producono con il proprio lavoro, dividendo la società in sfruttatori e sfruttati, oppressori ed oppressi, cioè in due fondamentali classi sociali (capitalisti e proletari o lavoratori) con interessi contrapposti ed inconciliabili tra loro, in perenne lotta o conflitto, rompendo l’unità sociale e ponendo tutti gli esseri umani in una situazione contrastante con la propria natura diretta a renderli parte di una società unita e collaborativa, a fargli comprendere le ragioni delle proprie azioni e renderli partecipi dei frutti di un’attività comune, libera e razionale[66].

Proprio perché le leggi dello sviluppo storico delle società umane (considerato scientificamente da Marx come “processo di storia naturale”) non sono meccaniche e meramente deterministiche, ma dialettiche, ambivalenti e frutto della combinazione dinamica/interattiva di elementi oggettivi (determinati) ed elementi soggettivi (coscienti, relativamente liberi e volontari), la struttura economico-sociale capitalistica può essere mutata e superata, ad un certo grado di sviluppo necessario delle forze produttive del lavoro collettivo, solo attraverso una rottura sociale rivoluzionaria cosciente, libera e volontaria da parte della classe lavoratrice, diretta a liberare sé stessa e l’intera umanità dall’oppressione e dallo sfruttamento del capitale e del profitto privato; la concezione marxiana di “progresso sociale” si identifica, dunque, con la progressiva conquista della “libertà” che consiste nel sempre crescente controllo equilibrato della natura da parte di una cosciente, organizzata, concertata e razionalmente pianificata attività sociale e collettiva[67] (il che coincide con il socialismo realizzato e coerentemente sviluppato).

E’ proprio Engels a scrivere che “solo una cosciente organizzazione della produzione sociale in cui produzione e distribuzione vengano pianificate, permette di elevare la società umana rispetto al resto del regno animale, come la produzione in generale ha sotto certi aspetti già fatto per gli uomini”[68]; ed ancora: “La socializzazione degli uomini, che in passato appariva loro come un fatto imposto dalla natura e dalla storia, sarà allora conseguita mediante la loro stessa libera azione (…). In tal modo l’umanità compirà il salto dal regno della necessità a quello della libertà”[69].

In conclusione, solo l’instaurazione di un sistema o formazione economico-sociale socialista e comunista, può effettivamente e concretamente realizzare in modo integrale i principi di uguaglianza sostanziale e di libertà o liberazione totale da ogni fattore di oppressione e sfruttamento, per tutte le specie biologiche viventi (nella tutela del complessivo contesto naturale), in piena conformità con i capisaldi del materialismo storico e dialettico marx-engelsiano, il quale riconosce la profonda ed unitaria interconnessione/compenetrazione dialettica di tutti gli elementi che costituiscono la realtà materiale oggettiva ossia la profonda unità logico-razionale e materiale di tutto il reale e, quindi, di tutte le forme di vita e le specie biologiche che lo costituiscono e che si sono progressivamente differenziate all’interno di un unico ed unitario processo naturale dialettico-evolutivo, traendo origine da un’unica realtà materiale universale oggettivamente esistente, eterna ed infinita, la quale ne costituisce il substrato sostanziale omogeneo, “egualitario” e razionale (dotato cioè di un’intima razionalità di struttura e di funzionamento, che si articola attraverso connessioni di derivazione causale tra tutti i fenomeni, materiali ma anche “spirituali” o coscienti, che compongono lo sviluppo dialettico dell’intero processo evolutivo reale, secondo leggi e criteri di elevata probabilità logico-razionale ed in funzione della realizzazione di una finalità oggettiva essenziale, anch’essa di ordine razionale, che è, di fatto, quella di “esistere”).            

  1. Conclusioni: la funzione generale del diritto ed il principio di uguaglianza.

Alla luce delle considerazioni ed argomentazioni sopra esposte, si può affermare che, in generale, il diritto si configura sostanzialmente come determinazione e regolazione “normativa” umana della condizione materiale dello stesso essere umano nella sua dimensione necessariamente “plurale”, collettiva o sociale; in altri termini, l’essenza sostanziale del diritto consiste nella regolazione/determinazione (razionale o ragionevole) dei comportamenti umani all’interno della più ampia e necessaria dimensione dei rapporti intersoggettivi che si stabiliscono nell’ambito della pluralità degli individui che costituiscono le collettività sociali organizzate (in cui si articola oggettivamente l’esistenza storico-materiale degli esseri umani come “specie animale”)[70].

Tale oggettiva dimensione plurale e sociale ricomprende, logicamente ed inevitabilmente, anche i rapporti e le connessioni materiali della stessa specie umana con tutte le altre specie viventi (animali e vegetali) e con l’ambiente naturale complessivo da cui è prodotta ed in cui si inserisce e si colloca l’intera vita biologica (come sistema ed organizzazione plurisoggettiva/collettiva di specie viventi diverse tra loro ma interconnesse ed interdipendenti).

Il diritto è, quindi, determinazione e regolazione “ragionevole” (ovvero fondata tendenzialmente su criteri/principi di progressiva ragionevolezza, adeguatezza, correttezza/proporzionalità, imparzialità, equità ed uguaglianza), logico-razionale (ossia “concettuale”) e materiale (cioè “reale”), della condizione umana individuale e plurale (o “sociale-collettiva”), anche nella misura in cui la specie umana intrattiene relazioni biologico-materiali e sociali (giuridicamente e moralmente rilevanti) con altre specie animali coscienti e senzienti (e, su un piano ancora più universale, con tutti gli esseri viventi animali e vegetali, in varia misura coscienti e/o senzienti ovvero dotati, quanto meno, di una certo grado di capacità percettiva sensoriale, ossia di “sensibilità” alla realtà esterna, e costituenti la generale “comunità/collettività biologico-naturale terrestre”), in funzione della realizzazione, della tutela e della protezione delle “finalità razionali” e dei connessi bisogni (o interessi) materiali/spirituali essenziali e fondamentali (trasformati normativamente dal “diritto oggettivo”, attraverso regole generali ed astratte, in interessi materiali/spirituali e finalità razionali “giuridicamente rilevanti” ossia in “diritti soggettivi” individuali e collettivi, tutelati contro ogni comportamento illecito ed ingiustamente lesivo) propri dei singoli individui (intesi, in questo caso ed in modo più ristretto, quali entità biologiche animali, umane e non umane, coscienti e senzienti, poste su un piano di ragionevole ed universale uguaglianza formale e sostanziale) che compongono la collettività sociale organizzata e, quindi, propri anche della stessa collettività sociale organizzata (considerata, nel suo complesso, come pluralità di individui o esseri viventi coscienti e senzienti, interdipendenti tra loro e strutturati oggettivamente in una “comunità biologico-sociale universale ed interspecifica”).

I bisogni e gli interessi primari (individuali e collettivi) sono essenzialmente e sinteticamente riconducibili: 1) alla necessità di tutela, conservazione e protezione dell’incolumità ed integrità psico-fisica o biologica e, quindi, degli interessi primari e fondamentali alla vita, alla salute ed al benessere/equilibrio (sostanziale e funzionale) fisico e spirituale (o “psichico-mentale”), riferibili a tutti i membri della comunità sociale organizzata (sotto il profilo individuale e collettivo); 2) alla necessità di garantire a tutti gli individui associati la possibilità (ovvero la “libertà”) di muoversi e comunicare o esprimere liberamente il proprio pensiero e di agire o comportarsi di conseguenza (libertà di movimento e di manifestazione del pensiero e/o libertà di estrinsecare il proprio comportamento secondo le proprie caratteristiche “etologiche”); 3) alla necessità di garantire e tutelare la “dignità personale” dei singoli individui (cioè l’insieme dei principi, degli interessi e dei diritti essenziali che rappresentano, in ultima istanza, il valore ontologico assoluto ed incomprimibile di ogni essere vivente cosciente e senziente), appartenenti a tutte le specie viventi coscienti e senzienti, poste su un piano di universale, ragionevole e proporzionata uguaglianza (e, dunque, su un piano di imparzialità ed equità); 4) alla necessità di garantire la riproduzione/prosecuzione delle specie biologiche e degli individui che le compongono.  

Questi bisogni ed interessi sostanziali fondamentali vengono (“devono essere”), sotto forma di diritti soggettivi, tendenzialmente (ed in modo “progressivo”) riconosciuti e garantiti/assicurati dal “diritto oggettivo” (inteso come sistema logico di norme generali ed astratte, con significato concettuale prescrittivo di condotte sociali obbligatorie e cogenti) a tutti gli esseri viventi “senzienti” (e dotati di “coscienza” ad ogni grado evolutivo naturale), sulla base di principi razionali di uguaglianza, proporzionalità ed imparzialità, ed in funzione della realizzazione delle condizioni minime e necessarie per mantenere un’equilibrata coesistenza sociale degli individui appartenenti alla specie umana (nel contesto più vasto della altrettanto necessaria tutela dell’integrità complessiva dell’ambiente naturale, costituito da tutte le specie viventi animali e vegetali e dalla stessa realtà fisico-materiale da cui tutte le specie biologiche sono prodotte ed in cui esse si inseriscono attraverso una molteplicità di relazioni, rapporti ed interconnessioni dialettico-causali, che ne determinano la reciproca interdipendenza fisico-biologica), riguardando inevitabilmente anche i rapporti materiali (biologici e sociali) di coesistenza ed oggettiva interdipendenza/interconnessione degli umani con tutte le altre specie animali coscienti e senzienti (nel quadro di una più ampia comunità o collettività biologica interspecifica universale).

Vi è inoltre da rilevare che tale universale coesistenza biologica e sociale “organizzata”, per essere pienamente razionale, deve essere quanto più possibile stabile, equilibrata, ordinata, ragionevole, equa e progressivamente fondata su principi (razionali) di uguaglianza/giustizia generale (formale e sostanziale) e di assoluta imparzialità nell’attribuzione dei diritti fondamentali a tutti gli individui (entità biologiche o viventi) “senzienti” ed appartenenti alle varie specie animali potenzialmente fornite di un qualunque grado o livello di coscienza soggettiva, che integrano la stessa unitaria “collettività sociale” (intesa, come detto, nel senso ampio ed onnicomprensivo di “comunità/collettività biologica interspecifica”).

Tutte queste funzioni vengono svolte dal diritto con sempre maggiore perfezione e compiutezza (sebbene attraverso contraddizioni, contrasti, sintesi e superamento di detti contrasti, arretramenti e successive progressioni) nel corso di un generale e complessivo processo di sviluppo storico (tendenzialmente e fondamentalmente “progressivo”) delle formazioni economico-sociali umane e delle loro forze o capacità produttive materiali (oltre che, conseguentemente, spirituali, intellettive, culturali); un processo di sviluppo storico che si evolve necessariamente verso il progresso sociale definitivo costituito dalla razionalità socialista e comunista, la quale sarà in grado di realizzare sostanzialmente i principi di uguaglianza universale e giustizia sociale, solamente enunciati e posti su un piano formale, limitato, parziale e distorto nel corso del precedente sviluppo storico.

 

* PhD in Scienze Giuridiche.

[1]     Secondo la celebre equazione di Einstein E=mc2, dove c equivale alla velocità della luce.

[2]     E. Fantechi, Giordano Bruno, Milano, 2017, pag. 28.

[3]     E. Fantechi, Giordano Bruno, cit., pag. 28.

[4]     E. Fantechi, Giordano Bruno, cit., pagg. 28-29.

[5]     E. Fantechi, Giordano Bruno, cit., pag. 37.

[6]     E. Fantechi, Giordano Bruno, cit., pag. 37.

[7]     E. Fantechi, Giordano Bruno, cit., pag. 40.

[8]     V.I. Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo (1908-1909), trad. it., Milano, 2004, pagg. 57, 59 e 87.

[9]     F. Engels, La dialettica della natura, 1883.

[10]   In questo senso, V. I Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, cit.

[11]   K. Marx, Il Capitale, Libro I, 1867.

[12]   K. Marx, Il Capitale, Libro I, 1867.

[13]   F. Engels, Antiduhring, ed. it., Milano, 2017, pagg. 129-133.

[14]   F. Engels, Antiduhring, cit. pag. 129.

[15]   Enciclopedia Treccani, Voce “Giustizia”.

[16]   Enciclopedia Treccani, Voce “Giustizia”.

[17]   Enciclopedia Treccani, Voce “Giustizia”.

[18]   E. Maestri, Postfazione a “Il Socialismo giuridico” di F. Engels – K. Kautsky, Ed. it., Napoli, 2015, pag. 63.

[19]   E. Maestri, Postfazione cit., pag. 63.

[20]   E. Maestri, Postfazione cit., pag. 64.

[21]   E. Maestri, Postfazione cit., pag. 64.

[22]   S. Cassese, Socialismo giuridico e diritto operaio. La critica di Sergio Panunzio al socialismo giuridico, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, nn. 3-4, I, 1974-75, pag. 489.

[23]   E. Maestri, Postfazione cit., pag. 65.

[24]   In questo senso, cfr. U. Cerroni, Marx e il diritto moderno, Roma, 1972, pag. 67.

[25]   E. Maestri, Postfazione cit., pag. 68.

[26]   E. Maestri, Postfazione cit., pag. 69.

[27]   E. Maestri, in F. Engels-K. Kautsky, Il socialismo giuridico, Introduzione cit. pagg. 10-11

[28]   F. Engels e K. Kautsky, Il socialismo giuridico (Juristen-Sozialismus), citato da E. Maestri, in F. Engels-K.Kautsky, Il socialismo giuridico (a cura di E. Maestri), Introduzione cit., pag. 12.

[29]   F. Engels e K. Kautsky, Il socialismo giuridico (Juristen-Sozialismus), citato da E. Maestri, in F. Engels-K.Kautsky, Il socialismo giuridico (a cura di E. Maestri), Introduzione cit., pag. 12.

[30]   F. Engels e K. Kautsky, Il socialismo giuridico (Juristen-Sozialismus), citato da E. Maestri, in F. Engels-K.Kautsky, Il socialismo giuridico (a cura di E. Maestri), Introduzione cit., pag. 13.

[31]   F. Engels e K. Kautsky, Il socialismo giuridico (Juristen-Sozialismus), citato da E. Maestri, in F. Engels-K.Kautsky, Il socialismo giuridico (a cura di E. Maestri), Introduzione cit., pag. 13.

[32]   F. Engels e K. Kautsky, Il socialismo giuridico (Juristen-Sozialismus), citato da E. Maestri, in F. Engels-K.Kautsky, Il socialismo giuridico (a cura di E. Maestri), Introduzione cit., pag. 13.

[33]   F. Engels e K. Kautsky, Il socialismo giuridico (Juristen-Sozialismus), citato da E. Maestri, in F. Engels-K.Kautsky, Il socialismo giuridico (a cura di E. Maestri), Introduzione cit., pag. 13-14.

[34]   F. Engels e K. Kautsky, Il socialismo giuridico (Juristen-Sozialismus), citato da E. Maestri, in F. Engels-K.Kautsky, Il socialismo giuridico (a cura di E. Maestri), Introduzione cit., pag. 14.

[35]   E. Maestri, Introduzione a F.Engels - K. Kautsky, Il socialismo giuridico, cit. pag. 14.

[36]   E. B. Pasukanis, La teoria generale del diritto ed il marxismo (1924), citato da R. Treves, Sociologia del diritto. Origini, ricerche, problemi, Torino, 1988, pag. 97.

[37]   V. Ferrari, Funzioni del diritto. Saggio critico ricostruttivo, 1987, Roma-Bari, pagg. 78-79.

[38]   V. Ferrari, Funzioni del diritto cit., pagg. 81-82.

[39]   P.I. Stucka, La funzione rivoluzionaria del diritto e dello Stato (1921), Trad. it., in P.I. Stucka, E.B. Pasukanis, A.J. Visinskij, M. S. Strogovic, Teorie sovietiche del diritto, a cura di U. Cerroni, Milano, 1964.

[40]   V. Ferrari, Funzioni del diritto cit., pagg. 24-25.

[41]   F. Galgano, Diritto Privato, Padova, 1987, pag. 3.

[42]   F. Galgano, Diritto Privato, Padova, 1987, pag. 3.

[43]   I. Berlin, Karl Marx, tr. it., Milano, 2021, pag. 147.

[44]   I. Berlin, Karl Marx, tr. it., Milano, 2021, pag. 147.

[45]   K. Marx, Il Capitale. Libro terzo, tr. it. Roma, 1973

[46]   I. Berlin, Karl Marx, tr. it., Milano, 2021, pag. 148.

[47]   I. Kant, La metafisica dei costumi, trad. it., Roma-Bari, 2009, pag. 43.

[48]   I. Kant, La metafisica dei costumi, trad. it., Roma-Bari, 2009, pag. 44.

[49]   F. Engels – K. Kautsky, Il socialismo giuridico (Juristen-Sozialismus), cit., pag. 17.

[50]   K. Marx, La questione ebraica, tr. it., Roma, 1971, pag. 70.

[51]   K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (Grundrisse), Firenze, pag, 214.

[52]   E. Maestri, in F. Engels - K. Kautsky, il Socialismo giuridico, Introduzione cit., pag. 19.

[53]   K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, in K. Marx-F. Engels, Opere scelte, trad. it., Roma, 1969, pag. 410.

[54]   K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, cit.

[55]   K. Marx, Critica al Programma di Gotha, trad. it., Roma, 1978.

[56]   K. Marx, Critica al Programma di Gotha, tr. it., Roma, 1978, pag. 31.

[57]   F. Engels – K. Kautsky, Il socialismo giuridico, cit., pag. 61.

[58]   F. Engels - K. Kautsky, Il socialismo giuridico, cit., pag. 47.

[59]   F. Engels - K. Kautsky, Il socialismo giuridico, cit., pag. 45.

[60]   K. Marx, Critica del Programma di Gotha (1875), ed. it., Roma, 1990.

[61]   K. Marx – F. Engels, Il Manifesto del Partito Comunista, ed. it., in K. Marx – F. Engels, Opere Complete, Vol. VI, Roma, 1973.

[62]   K. Marx, Critica del Programma di Gotha, cit.

[63]   K. Marx, Critica del Programma di Gotha, cit.

[64]   I. Berlin, Karl Marx, ed.it., Milano, 2021, pagg. 256-257.

[65]   I. Berlin, Karl Marx, ed.it., Milano 2021, pag. 153.

[66]   I. Berlin, Karl Marx, ed.it., Milano 2021, pagg. 153-154.

[67]   I. Berlin, Karl Marx, ed.it., Milano 2021, pag. 156.

[68]   F. Engels, Dialettica della natura, in K. Marx – F. Engels, Opere complete, trad.it., Roma, 1974. citato in I. Berlin in Karl Marx cit., pag. 156.

[69]   F. Engels, Dialettica della natura, in K. Marx – F. Engels, Opere complete, trad.it., Roma, 1974. citato in I. Berlin in Karl Marx cit., pag. 156

[70]   Sulla definizione del diritto come “determinazione umana della condizione umana e, perché umana, sociale”, cfr. G. Ferrara, Riflessioni sul diritto, Napoli, 2019, pagg. 16 e segg.

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