Mattia Gambilonghi *

 

L’obiettivo del saggio in questione è quello di chiarire l’accezione del termine che dà il titolo al volume, quello, cioè, di “democrazia sociale”, e, in secondo luogo, di mettere in luce il legame che questa particolare forma politica viene ad instaurare, da un lato, con il cosiddetto costituzionalismo democratico-sociale (o “della seconda ondata”), e, dall’altro, con le forme di interventismo e di governo dei processi economici e sociali affermatesi a partire dall’entre-deux-guerres.

Inizieremo col dire che l’idea e il concetto di “democrazia sociale” ci sembra in larga parte coincidente e sovrapponibile con quello di “Stato sociale”, a patto però di concepire quest’ultimo non, à la Fortshoff, semplicemente come un segmento o una sezione dell’ordinamento politico e della sua organizzazione, ovvero come l’insieme delle erogazioni e delle prestazioni che attraverso le politiche economiche e di bilancio sono assicurate dallo Stato per tutelare e garantire i soggetti più deboli o in condizioni di difficoltà. Al contrario, secondo uno sguardo ed un approccio improntati alla globalità, lungi dall’essere un qualcosa di non-strutturale e di estremamente contingente e congiunturale – legato cioè ai programmi e alle deliberazioni politiche e in ragione di ciò inevitabilmente destinato ad espandersi o a contrarsi in base agli orientamenti del momento – lo Stato sociale va qui inteso nella sua accezione più larga e specificamente giuridica, sarebbe a dire, come una vera e propria forma di Stato dotata di una propria specifica razionalità interna e proprio per questo capace di distinguersi e di differenziarsi dal punto di vista qualitativo sia dai suoi predecessori, come ad esempio le varianti e diverse declinazioni dell’ottocentesco Stato liberale di diritto (Rechtsstaat, rule of law, ecc.), che dalle forme politiche caratterizzanti invece il ciclo neoliberale inauguratosi nel corso degli anni Ottanta. Non si può insomma considerare, economicisticamente, lo Stato sociale come un “mero assemblaggio di tecniche e pratiche di politica economica”[1] e sociale, ma bisogna piuttosto guardare ad esso come ad un autentico “sistema complessivo […] di relazioni sociali”[2], tale da interessare non soltanto la mobilità e la trasformazione dei confini tra Stato e mercato, tra comandi autoritativi e meccanismi spontanei di mercato, ma anche la natura e la dinamica dei rapporti e delle interazioni che – proprio in ragione della trasformazione appena accennata – vengono a delinearsi tra i differenti gruppi e attori sociali che lungo quel confine mobile e incerto si muovono.

A suffragare poi questa scelta terminologica vi è non solo la sua presenza dentro numerosi manuali di diritto pubblico, che accolgono la categoria di “Stato sociale” tra le proprie classificazioni delle diverse forme di Stato, ma anche il fatto che i termini “democrazia sociale” (“démocratie sociale”) o “Stato sociale di diritto” (“sozialer Rechtsstaat”) siano stati adottati e fatti propri per fini auto-definitori da due delle più rilevanti carte costituzionali del secondo dopoguerra, sarebbe a dire quella francese e quella tedesca. O ancora – nel quadro di quei paesi che avviano la cosiddetta “terza ondata di democratizzazione” e che al modello democratico-sociale guardano come principale punto di riferimento – da quella spagnola, che afferma letteralmente che la Spagna si costituisce come un “Estado social y democrático”, e da quella portoghese, che considera la realizzazione di una “democrazia economica e sociale” come uno dei suoi obiettivi principali.

Dovendo perciò fornire una descrizione anche solo sintetica dell’idealtipo di democrazia sociale che si intende indagare in questo volume, seguendone le origini, la strutturazione e i successivi processi di trasformazione e declino, riteniamo di poter definire “democrazie sociali” – o, appunto, “Stato sociale” – le forme politiche e i modelli costituzionali che si delineano a partire dalla formulazione dei “patti sociali” che innovano le costituzioni materiali degli Stati europei e occidentali in seguito alle rilevanti trasformazioni prodottesi negli anni Trenta. Queste trasformazioni avrebbero operato fondamentalmente in due modi. Da un lato, ridisegnando i confini e riformulando i rapporti esistenti tra Stato e mercato, tra Politico e sociale, rendendo cioè il momento statuale – attraverso la nota “equazione keynesiana”, ossia la regolazione della propensione al consumo per il tramite di una domanda aggiuntiva erogata ed immessa dai poteri pubblici – fattore principale del ciclo economico, con funzioni fondamentali tanto nel meccanismo d'accumulazione configurandosi come Stato-imprenditore, quanto nell'ambito della circolazione e della redistribuzione attraverso lo strumento fiscale e della gestione della spesa pubblica[3]. Dall'altro, e proprio in virtù di questo divenire dello Stato soggetto di mercato portatore – al tempo stesso – di una logica non mercantile[4], operando una profonda trasformazione dei meccanismi di rappresentanza, di mediazione e di formulazione delle decisioni[5], attraverso cui si intende reagire alla sopraggiunta improponibilità tanto delle mediazioni tradizionali (con sede nel mercato autoregolato e nello “scambio di equivalenti”[6]), quanto della concezione atomistica della rappresentanza propria dello schema liberale (fondata sulla preminenza della figura del cittadino-proprietario all'interno dell'organizzazione sociale[7]). Il primato assunto nella gestione dello scambio politico dai partiti di massa (sul versante istituzionale) e dalle centrali sindacali (su quello sociale) come strumenti di mediazione di bisogni e domande sociali[8]; la ridefinizione di questo meccanismo di scambio in senso triangolare; il suo inquadramento all'interno di un'intelaiatura statale e del Politico propria della democrazia pluralista, volta a produrre una dialettica permanente fra gruppi sociali: sono questi i tratti fondamentali di quella “rifondazione corporatista” della rappresentanza politica al centro delle società occidentali nel “trentennio glorioso”[9]. È quindi evidente, quando si parla di “democrazia sociale” o di “Stato sociale”, che ci si trovi dinnanzi ad un modello di organizzazione politico-costituzionale della società capitalistica, in sintesi, non comprensibile né in termini puramente politici o in termini puramente economici, e in cui politica ed economia cessano di essere sfere autonome e rigidamente separate, per divenire al contrario contigue e soggette a processi di compenetrazione reciproca[10]. Del resto, come ha recentemente ricordato Gian Mario Bravo, quegli esponenti dell’austromarxismo – come Otto Bauer e Max Adler – che hanno a lungo meditato e riflettuto sul concetto di “democrazia sociale”, consideravano quest’ultima come un regime politico imperniato su istituzioni capaci non solo di “incarnare le istanze della società civile”, ma anche di “mediare politica ed economia”[11].

Proprio in ragione di questa irriducibilità al solo elemento della sicurezza sociale e delle politiche economiche ad essa preposte, lo Stato sociale si caratterizza come una “complessa sequenza storica”[12], tale da comprendere una pluralità di elementi, di strutture e di agenti, la cui dialettica ed il dinamismo delle interazioni che si realizzano tra di essi rendono lo Stato sociale un fatto integralmente politico (e non una semplice opzione di politica congiunturale e bilancio). Il fatto che esso non sia riducibile, secondo la logica paternalistico-autoritaria del modello bismarckiano di Sozialstaat, al solo interventismo statale e alle prestazioni sociali che tramite esso vengono erogate, includendo e comprendendo invece la dinamica pluralistica consustanziale allo sviluppo dei diritti politici e sociali, è del resto riconosciuto da autorevoli studiosi del diritto: si pensi ad Alain Supiot, che tra le modificazioni essenziali apportate dallo Stato sociale all’ordine giuridico liberale, pone, accanto alla dimensione statalistica dei servizi pubblici e dell’amministrazione, lo sviluppo dell’autodeterminazione collettiva – che si esplica nella concessione alle parti sociali e ai cittadini liberamente associati di uno spazio rilevante per l’esercizio di “libertà collettive”, il cui fine principale diviene una autonoma “elaborazione del diritto” per il tramite della contrattazione collettiva – e l’umanizzazione e la (tendenziale) de-mercificazione del lavoro e del rapporto lavorativo, che della prima è un presupposto indispensabile[13]. O ad Antonio Baldassarre, il quale rintraccia l’ascendenza teorica degli elementi maggiormente distintivi dello Stato sociale postbellico, da un lato, nelle teorie decisionistiche di Carl Schmitt – materializzatesi a suo dire nello “Stato amministrativo” e nelle pratiche di programmazione economica da esso condotte – e, dall’altro, nella concezione pluralistica della democrazia e della sovranità di Harold Laski – interpretando lo sviluppo delle procedure di concertazione fra le parti sociali e fra i differenti interessi organizzati come l’applicazione concreta della “ricostruzione della intelaiatura statale e del “politico”” auspicata dall’intellettuale britannico[14]. La natura complessa delle interazioni che dunque – attraverso quello che Cafagna ha definito il “circolo” virtuoso a cui dà origine la sequenza spesa pubblica-libertà dal bisogno-rafforzamento del potere negoziale sindacale[15] – si svolgono dentro la cornice dello Stato sociale e che al tempo stesso lo sostanziano e lo plasmano, così come questa dialettica tra elemento “statale” e “sociale”, tolgono di mezzo e depotenziano le pretese di qualsiasi visione unilaterale, aconflittuale e “ottriativa” dello Stato sociale. Tanto nella loro declinazione “moderata” – propria degli approcci integrazionistici che negli anni Cinquanta teorizzavano deterministicamente la progressiva evaporazione del conflitto sociale in ragione della sopraggiunta capacità del capitalismo welfaristico di assicurare prosperità e benessere sociale a tutti i gruppi sociali –, tanto nella loro declinazione “di sinistra” o “antagonista” propria delle correnti trotskyste o operaiste, che interpretano la più accentuata regolazione statale a fini sociali ed il maggior peso delle organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio come il frutto di un autentico “piano del capitale” volto a razionalizzare i meccanismi di funzionamento del sistema economico e sociale, oltre che a neutralizzare i gruppi politici radicalmente critici assorbendone le istanze –, queste teorie raffigurano infatti le trasformazioni connesse all’affermazione dello Stato sociale o come la naturale e spontanea evoluzione dell’economia capitalistica propria delle società industrialmente avanzate e dell’età del benessere (nel caso delle prime), o come delle mere concessioni effettuate dalle classi dominanti nei confronti dei ceti operai (e, più in generale, subalterni) al fine di “integrare” quest’ultimi nel “sistema” e di destrutturarne, riformisticamente, la carica e le aspirazioni rivoluzionarie (nel caso delle seconde). Entrambe le concezioni (indubbiamente stilizzate per ragioni di spazio) sembrano però elidere in maniera netta l’elevata conflittualità sociale ed il complesso scambio politico soggiacenti alle trasformazioni economiche, sociali e statuali del trentennio glorioso, ignorando cioè la dinamica ed il movimento biunivoco che si realizza sia tra i due poli dello Stato e della società, che tra i gruppi sociali e le classi in lotta, un movimento entro cui prende corpo quella che è stata definita una “lotta di frontiera tra democrazia e corporativismo”[16]. Espressione, quest’ultima, che rende plasticamente l’idea della contesa e dei conflitti che attraversano la formulazione ed il decision-making delle politiche di intervento sociale proprie della stagione del Welfare State. La concezione complessa, conflittuale e non-otriattiva dello Stato sociale che in questo lavoro si intende adottare, rimanda più in generale all’approccio specifico attraverso cui chi scrive guarda e concepisce la stessa idea di democrazia, da considerare non tanto un “modello ideale, ma un processo storico antagonistico”[17]. Non, quindi, un modello statico e dato una volta per tutte, ma, al contrario, un processo dinamico e conflittuale, e ancor più nello specifico, il “processo di conquista della capacità di autogoverno da parte dei corpi sociali, segnato da una tensione perenne tra inclusione ed esclusione, espansione e restrizione dell’area della cittadinanza”[18].

Conseguentemente a questo approccio – evidentemente debitore nei confronti dell’opera di uno studioso come Pietro Barcellona – attento agli “impasti” e alle contaminazioni tra politica ed economia, è possibile individuare in tre aspetti quelli che a nostro parere rappresentano i pilastri fondamentali della costruzione dello Stato sociale. Ferma restando, ovviamente, la varietà delle differenti declinazioni nazionali, così come degli intrecci, degli equilibri e delle proporzioni che fra questi tre “pilastri” verranno a stabilirsi in ciascun caso nazionale. I “pilastri” in questione sono: 1) l’affermarsi di un compiuto sistema di governo dell’economia, intendendo con questo termine tutte quelle forme di planismo e di programmazione sorte in seguito alla fine del tradizionale astensionismo dello Stato liberale rispetto agli affari economici e sociali, e volte al governo e al controllo del ciclo economico, così come del volume e della composizione interna degli investimenti; 2) la definizione di un sistema di relazioni industriali tendente a stabilire un “dialogo tripartito” tra lo Stato e le grandi organizzazioni di rappresentanza degli interessi (principalmente, quelle di natura datoriale/imprenditoriale e quelle afferenti invece al mondo del lavoro dipendente e subordinato) e proprio per questo tale da dar vita ad un circuito dei processi decisionali e di formazione della volontà collettiva sovrapposto e alternativo a quello, tradizionale e di natura individualistica e atomistica, incentrato sulla sequenza cittadino-Parlamento-Governo; 3) la centralità progressivamente conquistata dai partiti di massa all’interno dei sistemi politici, e che negli anni in oggetto ha generato la definizione di parteienStaat, “Stato dei partiti”, proprio per rimarcare la novità e la discontinuità prodotte dalla sempre maggiore rilevanza, in termini di organizzazione e articolazione degli interessi, assunta dai corpi intermedi – e in particolar modo degli apparati partitici – rispetto alla rappresentanza politica di stampo ottocentesco, tutta incentrata sugli elementi notabilari e sul rapporto individuale tra cittadini e singoli deputati.

Le “democrazia sociale” appare perciò ai nostri occhi come quella forma politica che nel mondo occidentale ha caratterizzato il periodo divenuto successivamente noto nella storiografia come il “trentennio glorioso”, ovvero come quei trenta o quarantanni che intercorrono tra la fine della Seconda guerra mondiale ed il dispiegamento dei processi di ristrutturazione e di ridefinizione dei “patti sociali” che attraverseranno i sistemi politici in seguito alle simultanee crisi di stagflazione e di governabilità degli anni Settanta. Nel corso del saggio si tenterà dunque di ricostruire, in primo luogo, l’evoluzione che sul piano dottrinario conosce il pensiero giuridico nella transizione che conduce dal costituzionalismo liberale – identificabile con le teorie ottocentesche dello “Stato di diritto” – al costituzionalismo democratico-sociale che ispira e sostanzia gli “Stati sociali”. Secondariamente si cercherà di inquadrare alcuni degli snodi principali che segnano la formazione e dell’evoluzione storica delle forme di governo dell’economia e del conflitto sociale, analizzando da un lato quelle forme di planismo e di programmazione economica delineatesi nell’ambito delle diverse esperienze di democrazia sociale, forme dentro cui troveranno concreta attuazione alcuni dei principi strutturanti il nuovo costituzionalismo e che di esso, per via del particolare rapporto che viene a definirsi al loro interno tra politica ed economia, rappresenteranno il portato principale (seppur non il solo). Dall’altro, invece, si affronterà il tema della rappresentanza funzionale degli interessi, un elemento che, come vedremo, non solo è il portato del nuovo atteggiamento con cui le democrazie di massa guardano al ruolo dei corpi collettivi intermedi, ma che è al tempo stesso complementare a questo inedito interventismo statale in materia economica, e che in virtù delle innovazioni che produrrà sul terreno dei processi decisionali, farà parlare taluni di forme di “corporatismo democratico”.

Per inquadrare meglio la valenza del nuovo costituzionalismo che struttura e plasma le democrazie sociali, va infine sottolineato come esso – richiamando con ciò la celebre categorizzazione mortatiana –, se sul piano formale trova la sua consacrazione nella redazione e promulgazione della costituzione weimariana e delle costituzioni post-’45, su quello materiale vedrà invece quelli che ci paiono essere i suoi principi fondamentali (la sovranità popolare, la centralità del principio lavoristico e la “cattura dell’economico” da parte della dimensione politica) radicarsi, caratterizzandoli profondamente, anche in altri ordinamenti politici. Ordinamenti che, pur conoscendo le trasformazioni degli apparati statali e dei rapporti sociali connaturate a quel governo della complessità e del pluralismo sociale che dei regimi di Welfare State rappresenta la più intima caratteristica, dal punto di vista formale non saranno però interessati in quegli stessi anni da alcuna innovazione o mutamento delle loro carte fondamentali, ma non per questo vanno esclusi dal novero dei sistemi politico-sociali influenzati dai principi del costituzionalismo democratico-sociale nel loro processo di adattamento alle necessità poste dall’avvento della società di massa. Continuando a ragionare attraverso le categorie concettuali forniteci da Mortati, se dunque, da un lato, il costituzionalismo democratico-sociale rappresenta nei fatti la cornice teorico-costituzionale e la positivizzazione dello Stato sociale e dei regimi di Welfare State, dall’altro esso non può essere relegato al piano della pura dottrina, ma deve essere considerato, sul piano materiale, come l’insieme dei principi e degli orientamenti emersi a partire dalla crisi degli anni Trenta e anticipati dalla pioneristica esperienza weimariana. Il nucleo fondamentale, insomma, del patto sociale attraverso cui la civiltà europea e occidentale riuscirà a fornire un’alternativa democratica a quella disintegrazione degli Stati liberali di cui – tranne rarissimi casi – in un primo momento avevano beneficiato i differenti fascismi europei con le loro ricette autoritarie, totalitarie e organicistiche. Del resto, è proprio grazie ai principi impliciti e sottesi ai nuovi compromessi sociali e ai modelli politico-costituzionali dentro cui questi si dispiegheranno, se, come ha scritto Luciano Canfora, “la nozione di antifascismo viene dilatata”: non più semplice “concetto negativo”, restauratore di un passato semplicemente offuscato dalla parentesi totalitaria, ma “concetto propositivo” dotato di capacità progettuale e proprio per questo finalmente in grado di risolvere le contraddizioni connaturate alla società di massa e su cui erano germogliate le esperienze fasciste[19].

 

* Il testo che segue è un breve estratto del saggio “Democrazie sociali, nuovo costituzionalismo e governo dell’economia: quale rapporto?”, capitolo del volume collettaneo “Progettare l’uguaglianza. Momenti e percorsi della democrazia sociale” (a cura di Mattia Gambilonghi e Alessandro Tedde), pubblicato recentemente presso Mimesis.

Per maggiori info e per scaricare un ampio estratto del volume: www.progettareluguaglianza.it.

[1]      G. Marramao, Introduzione, in E. Fano, S. Rodotà, G. Marramao (a cura di), Trasformazione e crisi del Welfare State, De Donato-Regione Piemonte, Bari, 1983, p. 340

[2]      G. Marramao, Problemi e modelli interpretativi del Welfare State, in E. Fano, S. Rodotà, G. Marramao (a cura di), Trasformazione e crisi del Welfare, cit., p. 505

[3]              A. Rapini, Lo Stato sociale, Archetipolibri, 2010; F, Conti, G. Silei, Breve storia dello Stato sociale, Carocci, Roma 2013.

[4]              P. Barcellona, A. Cantaro, La sinistra e lo Stato sociale, Editori Riuniti, Roma 1984.

[5]              F. De Felice, La storiografia delle élites nel secondo dopoguerra, in Italia contemporanea, 153, 1983.

[6]              P. Barcellona, Stato e mercato, De Donato, Bari 1976

[7]              F. De Felice, I tre volti del fascismo maturo, in G. Marramao, M. Tronti, L. Villari, F. De Felice, Stato e capitalismo negli anni Trenta, Editori riuniti, Roma 1979.

[8]              G. Ritter, Storia dello Stato sociale, Laterza, Bari 1996;, F. De Felice, La formazione del regime repubblicano, in L. Graziano, S. Tarrow, La crisi italiana, Einaudi, Torino 1976; G. Marramao, Dopo il Leviatano. Individuo e comunità, Bollati boringhieri, Torino 1995.

[9]              C. S. Maier, La rifondazione dell'Europa borghese, Il Mulino, Bologna 1999; S. D'Albergo, Dalla democrazia sociale alla democrazia costituzionale, Costituzionalismo.it, 3/2005.

[10]            C. Mortati, Costituzione, dottrina generale, in Enciclopedia del diritto, XI, Giuffrè, Milano 1962.

[11]            G. M. Bravo, La democrazia sociale. Un’invenzione forse imperfetta – ma che avrebbe potuto vincere, Rivista di Storia delle idee, 2012.

[12]            L. Cafagna, Contro la visione ottriativa del Welfare State, in Trasformazioni e crisi del Welfare State, cit., p. 182.

[13]    A. Supiot, Grandeur et misère de l’État social, Leçon inaugurale prononcée le jeudi 29 novembre 2012, Collège de France, p. 19, https://books.openedition.org/cdf/2249.

[14]    A. Baldassarre, Lo Stato sociale: una formula in evoluzione, in Id. (a cura di), Critica dello Stato sociale, Laterza, Bari 1982, p. 27.

[15]    Cafagna descrive in questi termini la dinamica che a suo parere informa il circolo proprio di quello che definisce il “modello completo del Welfare State”: “È del tutto evidente come dal pieno impiego derivi il rafforzamento del potere negoziale dei sindacati. Ed è del tutto evidente come il rafforzamento del potere negoziale dei sindacati e della funzione dei sindacati si ponga in reciprocità con uno spostamento a sinistra del giuoco politico. E come da questo spostamento a sinistra derivi una propensione crescente all’aumento della sociale e come, poi, dalla maggior sicurezza che ne deriva ai lavoratori, consegua una maggiore disponibilità conflittuale di questi e quindi, ulteriormente, un rafforzamento sindacale.” (op. cit, p. 182)

[16]    P. Ingrao, Crisi e terza via, Editori riuniti, Roma 1978.

[17]    S. G. Azzarà, Democrazia cercasi. Dalla caduta del Muro a Renzi: sconfitta e mutazione della sinistra, bonapartismo postmoderno e impotenza della filosofia in Italia, Imprimatur, Reggio Emilia 2014, p. 44.

[18]    A. Burgio, Per Gramsci. Crisi e potenza del moderno, DeriveApprodi, Roma 2007, p. 7.

[19]    L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Laterza, Bari 2008, p. 255.

 

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