Marco Cerotto *

 

[…] l’«economia pianificata» è entrata nella coscienza almeno degli elementi progressisti della borghesia. Certo, anzitutto in strati ancora molto ristretti e, anche in questo caso, prima come esperimento teorico che come pratica via d’uscita dal vicolo cieco della crisi. Se tuttavia noi confrontiamo questo stato di coscienza in cui si cerca la compensazione economica tra una «economia pianificata» e gli interessi di classe della borghesia, con quello del capitalismo in ascesa che ha considerato ogni genere di organizzazione sociale come «intromissione negli inviolabili diritti della proprietà, nella libertà, e nella ‘genialità’ con cui il capitalista individuale si autodetermina», appare allora con chiarezza ai nostri occhi la capitolazione della coscienza di classe della borghesia di fronte a quella del proletariato.

Ovviamente, anche quella parte della borghesia che accetta l’economia pianificata, ne ha un’idea diversa da quella del proletariato: per essa, l’economia pianificata rappresenta appunto un ultimo tentativo di salvare il capitalismo mediante un estremo inasprimento della sua contraddizione interna. Ciononostante, la sua ultima posizione teorica è qui abbandonata (ed è una strana contropartita di ciò che proprio in questo momento alcuni settori del proletariato capitolino a loro volta di fronte alla borghesia, facendo loro propria questa sua forma organizzativa - che è la più problematica di tutte). Con ciò tuttavia l’intera esistenza della classe borghese e la cultura borghese come sua espressione cadono in una gravissima crisi. Da un lato, l’infecondità senza limiti di un’ideologia separata dalla vita, di un tentativo più o meno cosciente di falsificazione, dall’altro la desolazione altrettanto temibile di un cinismo che è già esso stesso convinto dell’intera nullità della propria esistenza dal punto di vista storico-universale e che difende la nuda esistenza, il nudo egoismo dei propri interessi. Questa crisi ideologica è un segno innegabile di decadenza. La classe è già spinta sulle difensive e, per quanto possano essere aggressivi i suoi mezzi di lotta, essa combatte già per la propria pura e semplice autoconservazione; essa ha irrevocabilmente perduto la forza di esercitare il potere.

György Lukács, Storia e coscienza di classe.

 

La scelta di privilegiare lo studio del percorso teorico-politico di Raniero Panzieri e di analizzare la sua riflessione teorica negli scritti maturi corrisponde al bisogno di comprendere l’evoluzione dei processi dialettici che hanno concorso a modellare la nostra società. Se infatti oggigiorno è necessaria un’osservazione esteriore per comprendere il grado di ipertrofia tecnologica che domina le nostre vite, è altrettanto indispensabile scavare alle radici per tentare di afferrare la genesi della nostra contemporaneità che non ha eguali rispetto ai precedenti storici.

A tal proposito la scelta dello studio degli anni Sessanta compensa da una parte il tentativo storiografico di individuare negli anni del boom economico l’antesignano della società tecnologica dominante al giorno d’oggi, da un’altra parte cerca di cogliere negli sviluppi del dibattito marxista italiano di quegli anni l’emergere di analisi che, concentrandosi sui mutamenti tecnologici avvenuti nella grande fabbrica industriale, proponevano delineare anticipatamente la pericolosità insita nell’uso capitalistico delle macchine da parte degli operai, e contemporaneamente indicare una prospettiva strategica decisamente alternativa a quella tracciata sino a quel momento dagli organismi di classe. La consapevolezza che le ristrutturazioni in atto nella produzione industriale sancivano che «il piccolo mondo antico della società civile di ottocentesca memoria, era arrivato fin lì»[1], condusse una generazione di «marxisti eretici» a porsi criticamente nei confronti delle analisi teoriche e delle conseguenti strategie di lotta delle organizzazioni storiche del movimento operaio.

Il percorso teorico-politico di Panzieri è contrassegnato da un’intensa attività da militante nel Partito socialista, cui aveva aderito nel 1944. A tal proposito, è unanimemente riconosciuto dalla maggior parte dei critici panzieriani l’enorme peso dell’eredità morandiana, e del socialismo rivoluzionario in generale, che influenzerà le riflessioni politiche negli anni del suo percorso teorico-politico. Dalla costruzione di un Partito socialista realmente legato alle esigenze delle masse, che chiedeva di emanciparsi così dai vecchi legami clientelari, alla continua ricerca di una prospettiva unitaria e classista, Panzieri mutuava da Rodolfo Morandi la lezione della democrazia diretta e la concezione del partito-strumento. Siffatta concezione si distaccava profondamente da quella comunista e terzinternazionalista che aveva invece elaborato negli anni successivi all’Ottobre ’17 la visione del partito-guida, la quale privilegiando una lettura concreta dei fatti politici, proponeva di importare la «verità» al proletariato orientandolo così verso la costruzione del socialismo. Panzieri privilegiava invece il momento della democrazia diretta, ovvero quella appartenente alla tradizione consiliarista, così come si era manifestato nella costruzione dei Soviet, dei Consigli e degli Arbeiträte spartachisti. L’idea che aveva maturato del partito si basava sulla considerazione della funzione unificante assunta dall’organizzazione nei confronti della classe e delle sue esigenze immediate, in cui la formazione di una «avanguardia interna» avrebbe determinato gli sviluppi di una linea politica seriamente anticapitalistica perché rispondente ai bisogni reali della classe. Ciononostante, Panzieri, così come Morandi, applicava alla situazione politica del dopoguerra un certo pragmatismo, che trovava giustificazione nel clima di «guerra civile fredda»[2] consolidatosi in Italia tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta.

Tra risentimenti e frustrazioni Panzieri resterà nel partito per gran parte della sua vita, svolgendo il ruolo di dirigente, prima politico e poi culturale, in maniera impeccabile, condividendo la linea strategica ma apportandovi, nei momenti assembleari e congressuali in special modo, il giusto contributo critico per adempiere coerentemente alla funzione storica dei partiti marxisti occidentali, ossia la ricerca affannosa di una prospettiva socialista nei paesi a capitalismo maturo. Certamente, il maggior impegno lo dimostrò durante la metà degli anni Cinquanta, quando la crisi del movimento operaio si radicalizzava e le prospettive di ripresa ritardavano a sopraggiungere. Il biennio 1955-56 rappresenta simbolicamente il periodo in assoluto più critico degli organismi classisti, i quali subirono - dai primi anni Cinquanta - l’offensiva in atto nelle grandi fabbriche che, allineandosi alle innovazioni provenienti d’oltreoceano, attuavano una ristrutturazione totale dell’organizzazione del lavoro, applicando così una spietata repressione sui sindacati comunisti e sugli stessi operai impegnati politicamente. Ad aggravare la situazione contribuiva l’impreparazione teorica delle organizzazioni marxiste, le quali consideravano ancora il capitalismo italiano come un sistema incapace a garantire lo sviluppo economico a larghi strati di popolazione, e quindi assegnando al movimento operaio la responsabilità di sopperire alle arretratezze sociali, promuovendo un vasto programma basato sull’interesse nazionale. L’utilizzo di macchinari tecnologici non svolgeva la funzione di liberare dal lavoro l’operaio, ma anzi svuotava completamente il contenuto del suo lavoro, proiettandolo in un processo drammaticamente alienante, per cui la sola funzione per l’operaio restava quella di sorvegliare il funzionamento di una macchina che regolava tempi e metodi lavorativi. Seppure apparentemente la condizione materiale della classe migliorava notevolmente, Panzieri denunciava lucidamente la pericolosità insita nella nuova fase capitalistica che necessitava di essere urgentemente demistificata, dal momento in cui una placida accettazione al piano capitalistico avrebbe comportato la complicità e la subordinazione dei partiti marxisti al processo d’integrazione della classe operaia all’interno dei rapporti di produzione capitalistici.

Il 1955, infatti, è l’anno della sconfitta operaia nel più grande stabilimento industriale d’Italia, cioè la Fiat, in cui per la prima volta il sindacato metalmeccanico di classe, la Fiom, perse la maggioranza nelle elezioni per rinnovare le commissioni interne. L’anno successivo, invece, il ciclone proveniente dall’Unione Sovietica acutizzava la crisi del Movimento, contribuendo ad accelerare un processo di profonda autocritica che condusse all’elaborazione di risposte differenti. Il Psi, infatti, si allontanava repentinamente dalla concezione del socialismo reale e, rappacificandosi col partito di Saragat, si avvicinava gradualmente alle posizioni politiche del socialismo occidentale, riconoscendo in seguito la Nato e il Patto Atlantico e coronando - comprensibilmente - questo percorso con la partecipazione attiva nella compagine governativa assieme alla Democrazia cristiana, dando vita a un governo di centro-sinistra che si proponeva di apportare nella sfera sociale i cambiamenti verificatisi nella grande industria.

Il capitalismo italiano entrava definitivamente in una fase tecnicamente moderna che lasciava presagire l’avvio di un percorso apparentemente progressista, intenzionato a superare il carattere reazionario di un capitalismo agricolo-industriale che, implicato fortemente con i residui fascisti, ripudiava aprioristicamente ogni rapporto sindacale e qualsiasi «moda americana» basata sull’ascesa dei manager, cioè dei tecnici. In questa nuova fase, il Partito comunista concentrava la sua battaglia ancora sulle arretratezze del paese, evadendo le novità tecnologiche che pervadevano la grande fabbrica, e definendo quindi i caratteri del capitalismo italiano come generalmente incapaci ad assicurare un certo livello di agiatezza sociale per le classi subalterne. Pertanto, la considerazione che andò maturando per la formazione del nuovo governo di centro-sinistra corrispose essenzialmente a un’accettazione di alcune proposte programmatiche, dal momento in cui si inserivano coerentemente nella linea strategica comunista - la «democrazia progressiva» -, ma opponendo tuttavia la propria programmazione, basata sulle «riforme di struttura», concepita come una reale alternativa a quella avanzata dal governo Dc-Psi.

L’ossessione di Panzieri verteva sulla necessità di elaborare una risposta «di sinistra» alla crisi dello stalinismo, che contrastasse risolutamente sia la deriva riformistica assunta dal Partito socialista, sia quella «settaria» e «dogmatica» intrapresa dal Partito comunista. La consapevolezza di intraprendere un percorso decisamente alternativo, lo condusse alla formazione della rivista «Quaderni rossi» nel 1961 a Torino, che potrebbe essere definito il risultato di un incontro con una generazione di militanti e intellettuali marxisti che si proponeva di recuperare la tematica della rivoluzione in Occidente, rifuggendo così alla socialdemocratizzazione dei partiti operai. Lavorando congiuntamente con la Cgil torinese, la rivista si proponeva di colmare quel vuoto teorico-politico creatosi tra l’organizzazione e la classe, fornendo una lettura adeguata del neocapitalismo e delle nuove contraddizioni a esso connaturate, analizzando una classe operaia dotata di «une force entièrement nouvelle», come scriveva lucidamente Danilo Montaldi sulla rivista francese «Socialisme ou Barbarie» dopo la rivolta di Genova ’60. Due anni più tardi, i fatti di Torino ’62, cioè la rivolta di piazza Statuto, provocarono contemporaneamente i primi contrasti e le prime divergenze teoriche all’interno della redazione dei «Quaderni rossi», facendo emergere la contrapposizione tra Panzieri e i «sociologi» da una parte e Tronti e i «politici» da un’altra. Questi ultimi, in particolare, cominciarono a prospettare un intervento immediato nelle lotte operaie, dal momento in cui nelle loro analisi prevaleva la considerazione che a un certo grado di sviluppo capitalistico fosse la classe a determinare l’andamento del capitale e non viceversa. Panzieri con il suo gruppo avversava severamente siffatta concezione, poiché tendeva a «idealizzare» e a «mitizzare» la condizione della classe operaia generalizzando il livello di combattività. Questo ragionamento, secondo Panzieri, discendeva da una concezione sul capitale che risentiva della tradizione terzinternazionalista, che aveva interpretato lo sviluppo capitalistico come destinato a un esito catastrofico, e quindi identificando la fase nuova con l’ultima fase, la quale avrebbe determinato l’avvento del socialismo perché concepito come storicamente necessario. Una lettura attenta dell’opera omnia marxiana, con particolare riferimento ai Grundrisse e al Capitale, comportava invece una demistificazione di siffatta concezione deterministica del socialismo, in quanto la scienza marxiana veniva identificata da Panzieri come una dialettica aperta e non chiusa e dogmatica. Il neocapitalismo degli anni Sessanta dimostrava senza esitazione la sua capacità ad autolimitare la produzione, poiché estendeva il piano capitalistico dalla sfera direttamente produttiva a quella distributiva, implicando al marxismo teorico un’urgente revisione delle categorie marxiane per comprendere scientificamente le tensioni da esso derivate. La ricerca dell’ultimo Panzieri, oltre a compiere una demistificazione delle ideologie «oggettivistiche», si concentrava sulla concezione del capitalismo come piano che, approdando alla fase finanziaria, riusciva a eliminare ogni traccia dell’origine del plusvalore, vale a dire dei rapporti privati di produzione, rendendo superabile la formula marxiana esplicata nel piano nella fabbrica-anarchia nella società.

Concependo il marxismo come sociologia della scienza politica, Panzieri asseriva che l’«uso socialista dell’inchiesta operaia» avrebbe determinato una conoscenza scientifica della classe, dal momento che il marxismo negli anni Sessanta esigeva un arricchimento dalle nuove scienze sociali che indagavano sui processi dialettici plasmanti la società neocapitalistica, la quale non necessitava di approfondire ulteriormente lo studio del proprio funzionamento, quanto di indagare sui fenomeni consensuali delle classi subalterne.

 

* Introduzione a M. Cerotto, Raniero Panzieri e i «Quaderni rossi». Alle radici del neomarxismo italiano, Roma, Deriveapprodi, 2021.

[1] M. Tronti, Noi operaisti, in G. Trotta - F. Milana, a cura di, L’operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «classe operaia», DeriveApprodi, Roma 2008, p. 21.

[2] A. Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, Il Mulino, Bologna (I ed. 1993) 2004, p. 119.

 

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