Orsola Goisis*

 

Vi sono luoghi dove la vita non lascia alcun segno, dove non sono eretti monumenti, né memorie, dove  non vi è più traccia del tempo, come nella friabile e cangiante Alessandria d’Egitto descritta da Giuseppe Ungaretti[1]; talvolta accade ancor più che lo spazio ci appaia devastato, si direbbe “annullato attraverso il tempo”, volendo recuperare una nota predizione marxiana contenuta nei Grundrisse[2].

Così si mostra la nostra epoca: un territorio arido e in mutamento incessante, così velocemente travolto dalla “novità”, al punto che nulla riesce realmente a depositarvisi, a conservarsi.

La scrittura di Ravizza, che da parecchio scruta il disagio di questo nostro “secolo fragile”[3],  ci costringe, fin dal primo componimento,  a liberarci dalla disinvolta distrazione che accompagna certe letture poetiche. Perché la poesia è, in alcuni casi, una cosa serissima; all’arte è, infatti, consegnato il potere di pensare i possibili, di pensare al di fuori del tempo, al di là di questa coscienza del tempo.

In fondo, non è certo la coscienza che manca alla nostra epoca, anzi. Ci abita una coscienza così allignata e indiscutibile, così assoluta e ipostatizzata, che anche il nostro sguardo pare colmato di detriti e rovine, indurito e serrato nella sua serena rassegnazione. Una coscienza che, però, è superficiale apparenza, una coscienza che non conosce geologia né storia, né critica, né salvezza.

Per “fare storia”, infatti, “gli uomini devono essere in grado di vivere. Ma il vivere indica prima di tutto il mangiare e il bere, l’abitazione, il vestire e altro ancora”[4], e finché il denaro, “la forza incessante del dividere”[5], le disuguaglianze, la privazione, attraverseranno il nostro pianeta stravolgendolo senza lasciare traccia, in nome del “progresso”, “riaprire la storia” non sarà che un’utopia da stanchi poeti.

Riaprire la storia significa, innanzitutto, riconnettere passato, presente e futuro, e significa, ancor più specificamente, riconnettere questi tre momenti nell’“attimo della lotta”.

Non casualmente, io credo, tre sono le figure che nelle pagine di Ravizza si riaffacciano spesso: il padre, la donna amata, la figlia. I versi dedicati al padre sono numerosi. Adombrato da toccante rammarico, il ricordo del tempo manchevole e chimerico, dietro la carezza umana dell’autobiografia, cela il richiamo rigoroso all’appuntamento segreto con le generazioni che ci hanno preceduto, con le loro sconfitte, le loro speranze, le loro morti obliate.

“Ti verrò incontro padre”, è la promessa di un figlio che desidera udire ancora i passi di chi non c’è più, udirne i racconti, prestare ascolto alle angustiate esortazioni, ma è anche la promessa di un uomo, che vuole che le lotte di chi l’ha preceduto non vengano trascinate via dalla furia cieca del tempo lineare.

“Io ti raccolgo ti guardo/ mi chino, io nella sera, sotto la/ lampada, io ti ricordo ancora vivo”[6]. Lo sguardo vivo dei defunti, il loro “sguardo lampeggiante”[7], fissa senza sosta  il presente, ci sprona con forza ad agire, ci invita a non deporre definitivamente le armi: “è adesso il tuo destino!”[8] paiono dire le generazioni di vinti; ma un senso di profonda inadeguatezza paralizza, avviluppa.

Cos’è accaduto al mondo? La storia è divenuta un paese di calcare, in cui la realizzazione di qualcosa di diverso appare non solo preclusa, ma anche ridicola. L’indifferenza allora, la serena sudditanza, la placida arrendevolezza con le quali è stata accettata questa lugubre narrazione e si è rinunciato ad un qualsiasi destino, divengono il più doloroso rammarico del poeta. Il tormento che spinge alla scrittura è il tedio di assistere inerme alla “tranquilla mattanza/ delle classi e delle nazioni”[9].

E quali erano, invece, le speranze? La memoria condivisa con i compagni, con la compagna, è carica di rimpianto: vi era, infatti, il sogno di una “città socialista”, di più, il sogno di una “patria socialista”[10]. Nel ripetersi del sempre uguale, nell’anonimato che regna in questa nostra “Alessandria d’Egitto”, solo i legami sembrano resistere, così come testimoniano gli energici versi dedicati a un amore robusto e duraturo: “eppure quasi senza/ volerlo ci siamo cercati, tenuti/ quasi senza volerlo ci siamo voluti/ nello stare insieme dentro al tempo/ così abbiamo trovato quel tanto di/ quiete che all’essere è data.../  “me e mia moglie” dicevo una volta/ lo dico ancora”[11].

Nonostante il frenetico ritmo del nuovo che tutto travolge e cancella, i rapporti umani, i legami, non cambiano né il loro nome, né la loro maniera di essere nel tempo. I rapporti come base di un’etica socialista che però non ha saputo difendersi e reagire, che forse, in qualche modo, non ha saputo essere abbastanza coraggiosa: “andiamo? Tutti insieme andiamo?/ uguali sì, veramente uguali.../ avessi amato ancora di più/ l’essere tutti...”[12].

Un sogno, quello di un’etica socialista, che in fondo Ravizza non trova nemmeno oggi così assurdo. Assurdo non pare il “voler costruire un/ uomo nuovo persona felice di/ essere comunità...”[13].

Malgrado la speranza bisbigliata, però, i sogni e le battaglie giovanili, tutta quest’ingiustizia “nessuno l’ha fermata”; ora sembra essere troppo tardi, e nell’eco spaventevole della città di calcare tuona “l’atroce sentenza”. Le cose, nella loro demoniaca fatticità, appaiono veramente spietate, quasi “solide”[14], opache, impenetrabili.

La nostra generazione ha fallito, ha consegnato un mondo sconvolto, senza monumenti, senza memoria, dove i posti vuoti delle ideologie, dei valori si susseguono come paesaggi desertificati: crucci che Ravizza affida alla figlia con dispiacere carico di dolcezza.

Noi però lo sappiamo, questo è un secolo fragile, una scintillante armatura di cristallo, non così impenetrabile, forse, null’affatto inscalfibile: sotto la “dolorosa esperienza del fallire”, sotto l’incerto cammino reso impervio da trappole di ogni specie, si nasconde la possibilità repentina che tutto cambi. Nel mutamento delle condizioni geopolitiche, nella trasformazione rapida di quel che chiamiamo Europa.

A questo punto, però, una riflessione s’impone: quella che Ravizza sembra cercare, attraverso le sue pagine, non è tanto una “coscienza del tempo”, quanto, primariamente, una nuova “esperienza del tempo”. Proprio in quanto una storia malintesa provoca una malacoscienza, la pensabilità di una dialettica della storia (“due le strade le parole due/ come due i volti che rimandano/ allo specchio ritornare è sempre/ desiderare di più, desiderare”[15])presuppone la riattivazione di una capacità  di fare esperienza, “sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui  niente è rimasto immutato tranne le nuvole, e nel centro- in un campo di forza di esplosioni e di correnti distruttrici-  il minuto e fragile corpo umano”[16].

La coscienza, infatti, non esiste di per sé: essa deriva dai rapporti e dai legami reali, ed è dunque da questi che occorre partire. Una nuova esperienza del tempo passa certamente per un nuovo linguaggio, inteso come legame materiale fra gli uomini e prima arma di demolizione dell’esistente. Scrivevo, in apertura di questo breve resoconto, quanto la poesia divenga una cosa serissima se osservata e considerata dal punto di vista dell’“ambiguo tempo dell’arte”, un tempo “che assomiglia a quello della speranza o a quello dell’oblio”. Quello che, nell’arte in generale, nella poesia più in particolare, si realizza, non è fantasia, apparizione, spettacolo. Non è restituzione eterodiretta di un artificio rappresentativo. O, certamente, non lo è più nella modernità. Ma nella poesia, nella parola pura, è contenuta invece una capacità d’imitazione capace di spingersi fino alla perfetta coincidenza.

Un esempio letterario fra i molti possibili: il conte Ugolino della Gherardesca, nel Canto XXXIII dell’Inferno, è in fine vinto dalla fame o dal dolore? Egli divora o non divora i suoi figli? Jorge Luis Borges definiva quello contenuto nel poema dantesco, un “falso problema storico”, falso, in quanto incardinato su di un’idea di storia che non ammette altri ritmi, né inversioni di rotta[17].

Dante non desiderava ci convincessimo di un epilogo, ma che sospettassimo, potremmo dire, l’esistenza di tante trame possibili. La poesia serve anche a questo, a far sospettare l’esistenza di bivî, di tentativi interrotti, di “strade e canali”, e in questo stesso tentativo il testo di Ravizza s’inserisce, scuotendo una generazione che “sta passando come un fiume/ che va che scorre lontano lontano/ verso un estuario che nessuno/ vede che inghiotte la terra il mondo”[18]. Ravizza indica invece una foce a delta il cui percorso è costellato di parole “che vedemmo diverse un giorno”. Parole che oggi fanno “sgranare gli occhi” e scuotere la testa, ma che rappresentano, tuttavia, l’unica possibilità di tornare, infine, a rivedere le parole intere, a picco sull’abisso, un abisso dialettico, appunto.

Sul linguaggio scelto dall’autore è stato scritto in maniera esaustiva da Gianmarco Gaspari nella corposa introduzione[19], in special modo in riferimento all’uso dell’ “infinito atemporale”; si tratta indubitabilmente di un linguaggio che ha in sé una valenza politica: esso, nello snodarsi paratattico, già, in qualche modo, ripensa e riposiziona la temporalità. Vi è, infatti, un implicito azzeramento, una volontaria indefinizione che riconduce le parole alle circostanze reali.

Ravizza sceglie di inserire la sua poesia all’interno di “rapporti sociali vivi”, e lo fa sottolineando l’importanza dell’ “atto”. Perché non è dalla coscienza che si parte per operare un reale cambiamento, e nemmeno dal pensiero; quest’ultimo, infatti, giunge in un secondo momento, in quanto, piuttosto, “sono i dati di fatto che diventano idee”[20].

“Se manca l’atto”, anche l’esistere appare come una menzogna, solo l’azione, “il fare, il muovere le gambe e braccia/ il costruire il lottare il distruggere/ gli ostacoli amare e odiare” soli ci danno la prova dell’essere vivi, ma, soprattutto, dell’esserci ancora vita. Ogni gesto di resistenza a ogni movimento automatico, a ogni scatto meccanico, ci parla ancora della nostra umanità.

Eppure all’autore rimane l’impressione che “avremmo potuto agire di più/ essere essere di più...cambiarle/ le cose con le mani, le braccia,/ le forze”[21].

Per quanto Ravizza si esprima esplicitamente circa la direzione squisitamente politica che attraversa le sue aspirazioni e che anima i suoi versi, è davvero dal linguaggio scelto che è possibile scorgere l’impegno civile della sua opera. Perché personalmente credo, sulla scorta di Walter Benjamin, che oggi, come forse non mai, piuttosto che interrogarsi su quale posizione occupi un’opera rispetto ai mezzi di produzione dell’epoca, sia necessario prima chiedersi: “qual è la sua posizione in essi?”[22]. Occorre cioè interrogarsi su quale sia la funzione di un atto letterario così strutturato, quale sia, detto altrimenti, la sua “struttura materiale”. La missione non è quella demagogica e refrattaria dell’intellettuale che si limita a osservare, ma, piuttosto, quella di prendere ancora, attraverso la scrittura, parte attiva ad una sotterranea lotta.

Ogni cosa la parola sovverte del suo senso originario, la matita del poeta scava, dissotterra conflitti, dissesta. L’opera del poeta lavora a una nuova esperienza del tempo attraverso tentativi, mediante gesti quasi impercettibili. Qualcosa che somiglia alla descrizione che Trockij regalava del lavoro del padre: il poeta scardina, non si accontenta del reale, cerca la verità. Nell’aridità mortifera del presente, egli veglia con cura il “grano invernale” e, come quest’ultimo, resiste:

“Mio padre si muove con semplicità e in modo ordinario; non si direbbe che sta lavorando; i suoi passi sono regolari, sono passi di prova, come se cercasse il luogo dove può finalmente iniziare per davvero. La sua falce percorre la propria traiettoria con modestia, senza alcuna disinvoltura artificiosa; si potrebbe anzi pensare che non sia del tutto sicura; eppure taglia netto e a filo del terreno, e getta a destra e a sinistra in nastri regolari quello che ha falciato”[23].

Una prova, un tentativo, un attimo, senza alcuna certezza di riuscita. Ma, sembra suggerire Ravizza, solo il tentativo, solo l’esserci, solo l’atto, solo la fiducia in “un ponte intravisto nella notte”, possono contribuire alla costruzione di una rinnovata  coscienza del tempo, nuovamente aritmica, nuovamente rivoluzionaria.

 

* Recensione al libro di poesie di Filippo Ravizza, La coscienza del tempo, La Vita Felice, Milano 2017.

 

[1]“Alessandria è nel deserto, in un deserto dove la vita è forse intensissima dai tempi della sua fondazione, ma dove la vita non lascia alcun segno di permanenza nel tempo. Alessandria è una città senza un monumento, o meglio senza quasi un monumento che ricordi il suo antico passato. Muta incessantemente. Il tempo la porta sempre via, in ogni tempo”. (G. Ungaretti, Nota introduttiva in Id., Vita d’un uomo, tutte le poesie, Mondadori 2009, p.497).

[2] K. Marx, (Grundrisse), trad. it. di E. Grillo, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze 1997 (III ed.), 2 voll., p.181.

[3] Nel secolo fragile è, infatti, il titolo del precedente lavoro di Ravizza, La Vita Felice, Milano 2014.

[4] K. Marx, F. Engels, La concezione materialistica della storia, Editori Riuniti; Roma 1966, p. 46.

[5] F. Ravizza, La coscienza del tempo, op.cit., p. 26.

[6] Ivi, p.25.

[7] Ivi, p.55.

[8] Ibidem.

[9] Ivi, p.26.

[10] Ivi, p.32.

[11] Ivi, p.54.

[12] Ivi, p.32.

[13] Ivi, p.42.

[14] Ivi, p.66.

[15] Ivi, p.50.

[16] W. Benjamin, Esperienza e povertà, ora in Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, Einaudi Torino 2012, p.365.

[17] J. L. Borges, “Il falso problema di Ugolino” in J. L. Borges, Nove saggi danteschi, Adelphi, Milano 2001, pp.31-39.

[18] Ravizza, La coscienza del tempo, op.cit., p.77.

[19] Ivi, p.5-13.

[20] Ivi, p.49.

[21] Ivi, p.73.

[22] W. Benjamin, L’autore come produttore (Discorso tenuto presso l’istituto per lo studio del fascismo di Parigi il 27 aprile 1934) ora in Aurea e choc, op.cit., p.149.

[23] L. Trotsky, La mia vita: tentativo di autobiografia, trad. it. di E. Pocar, Mondadori, Milano 1930, Capitolo 5, “Città e campagna”.

 

 

 

 

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