Alessio Frau                          

Ad Alessandro

Un amico, un compagno, un fratello

 

Marcello Mustè nel libro intitolato Marxismo e filosofia della praxis. Da Labriola a Gramsci[1] ricostruisce con acume e rigore le vicende del marxismo teorico in Italia, concentrando in particolare l’analisi sullo sviluppo della filosofia implicita al materialismo storico e sulla sua declinazione come filosofia della praxis.

Il libro è diviso in due sezioni. Nella prima, Da Labriola a Mondolfo, viene ricostruita la genesi dell’espressione e del concetto di filosofia della praxis in Italia, che risale ad Antonio Labriola, e le sue vicende nella filosofia di Benedetto Croce, Giovanni Gentile e Rodolfo Mondolfo. La secondo sezione è interamente dedicata ad Antonio Gramsci e alle modalità attraverso le quali il comunista sardo ha ereditato e inserito la formula e il concetto di filosofia della praxis all’interno del quadro filosofico dei Quaderni del carcere. Una delle virtù principali del testo risiede nella capacità dell’autore di esporre in maniera rigorosa e unitaria la storia del concetto di filosofia della praxis, cogliendolo all’interno di sistemi filosofici differenti fra loro, senza con ciò perdere le specificità proprie di questi ultimi. Anzi, il testo si contraddistingue proprio per la capacità di cogliere, in maniera sintetica ed efficace, le aporie che popolano i diversi sistemi di pensiero analizzati e il modo in cui il materialismo storico, inteso gramscianamente come ‹‹momento della cultura moderna››[2], abbia influenzato in misura significativa alcune moderne correnti di pensiero.

Antonio Labriola e la genesi della filosofia della praxis

L’espressione, com’è noto, venne introdotta per la prima volta nel dibattito da Antonio Labriola, allorché nel terzo saggio sul marxismo, scritto nella forma di dieci lettere indirizzate a Georges Sorel, uscito nel 1898 con titolo Discorrendo di socialismo e filosofia, definì la filosofia della praxis come ‹‹il midollo del materialismo storico››[3]. Questa definizione individua chiaramente il compito che il filosofo cassinate attribuiva al terzo seggio e alla propria riflessione, ossia quello di ricercare una filosofia, una ‹‹Lebens- und Weltanshaung››[4], una ‹‹concezione generale della vita e del mondo››[5] propria del materialismo storico. La metafora del ‹‹midollo›› o, come altrove afferma Labriola, del ‹‹nocciolo››[6] indicava la duplice finalità del discorso labriolano. Da una parte, si affermava la necessità di esplicitare la filosofia implicita al materialismo storico in controtendenza rispetto ai vari tentativi di legare la dottrina del materialismo storico con le più svariate filosofie del tempo[7]; dall’altra, il tentativo di sviluppare un marxismo che si innestasse organicamente sulla cultura e la storia italiana pur conservando appunto il nocciolo filosofico fondamentale, che ne garantisse un respiro universale. In questa duplice dialettica, la prima orizzontale, entro la quale si decideva dell’autonomia filosofico-politica del marxismo, e la seconda verticale, entro la quale si tentava una mediazione fra la dimensione nazionale e quella internazionale, si fondava la peculiarità del marxismo teorico italiano. Il quale fin dal principio pone i termini essenziali della questione, cogliendo i limiti e le contraddizioni del marxismo teorico tardo-ottocentesco. Il primo di questi limiti risiedeva nel difetto di elaborazione filosofica del materialismo storico. Marx, analogamente a quanto accadeva per la teoria del comunismo, si limitò a svolgere il ruolo di ostetrico. I tre aspetti che compongono il materialismo storico, ossia l’aspetto politico, di critica dell’economia e l’aspetto filosofico riguardante una visione del mondo generale, come ebbe a dire lo stesso Labriola, ‹‹faceano uno nella mente di Marx››[8], ma non in tutte le opere riuscivano ad amalgamarsi a sufficienza per poi distinguersi e venire elaborati autonomamente. Una delle eccezioni riguardava il primo libro de Il Capitale dove la filosofia risultava essere tanto insita nella esposizione scientifica del libro da configurarsi come una funzione stessa della scienza empirica. Però, d’altra parte, Mustè nota come immediatamente Labriola correggesse il tiro, sostenendo, con Herbart, che la filosofia rappresentasse l’ultimo gradino dell’elaborazione scientifica, ossia il momento sintetico, della consapevolezza e dell’autocritica, grazie al quale le cognizioni scientifiche venivano sistemate e metabolizzate. Questo contrasto si rifletteva naturalmente sulla definizione della filosofia della praxis. Il principio della praxis doveva essere inteso come il tentativo di superare l’opposizione di teoria e pratica, senza tuttavia perdere la distinzione e la relativa autonomia fra i due termini. Esso assumeva i caratteri del lavoro, ossia i caratteri di un’attività che, implicando lo sviluppo di attitudini mentali e operative, riuscisse a superare la opposizione (non la distinzione) fra teoria e prassi e che assumeva una precisa forma sociale solamente se colto nel suo divenire, ossia come storia del lavoro. Ma lavoro non indicava solamente quello sforzo atto alla produzione di beni materiali, bensì anche atto e sforzo di pensiero, riuscendo in questa guisa a fondare il momento della novità, del salto qualitativo. Infatti, affinché si dia il pensiero è necessario un ‹‹atto di attenzione volontaria››[9], è necessario che si dia, oltre all’atto del lavoro e al pensiero oggettivato, il momento della volizione, che si innalzi al di sopra del passato per superarlo, conservandone ed ereditandone i punti più alti dello sviluppo. In altre parole, era il peculiare sforzo volitivo dell’atto di pensiero a fondare il progresso. Mustè sottolinea come sia stata la filosofia di Bertrando Spaventa, di cui Labriola fu allievo in gioventù, a influenzare in questo caso il pensiero del filosofo cassinate. Ma quella spaventiana non fu l’unica fonte filosofica alla quale Labriola si rifece. Accanto ad essa agivano tematiche tipiche del materialismo storico (in particolare di Engels) e della filosofia di Herbart. Per quanto riguardava la prima, essa agiva allorché veniva chiarito il senso della dialettica nel materialismo storico. Se da un lato, in ciò riecheggiando la riforma della dialettica hegeliana promossa dallo Spaventa, il fulcro del divenire dialettico riposava sul ruolo della negazione che il pensiero operava sulla stabilità dell’essere, dall’altra, riecheggiando in questa maniera l’Engels del capitolo sulla Negazione della negazione dell’Antidüring, era pur vero che la dialettica riproduceva il ritmo generale della realtà che diviene. Nel tentativo portato avanti da Labriola di esplicitare la filosofia del materialismo storico agivano, nel medesimo tempo, due istanze contraddittorie: la dialettica che riproduce nel pensiero il ritmo semovente del reale e la dialettica intesa come l’azione prevaricatrice e portatrice di progresso dell’atto di pensiero che squarcia le resistenze dell’essere immettendo nel circolo della storia la novità, il progresso logico. In definitiva, in Labriola si sovrapponevano l’istanza dell’analisi critica che, attraverso un processo di scomposizione dell’astratto o pensiero prodotto, generava il significato dei concetti e l’istanza della sintesi che ricomponeva questi concetti, riportandoli alla loro genesi storica e sociale concreta.

 

Benedetto Croce e la categoria dell’utile

Mustè mostra come, sullo sfondo di complessi intrecci di natura personale, filosofica, politica e storica, fu Benedetto Croce ad individuare l’elemento di instabilità della riflessione labrioliana. Egli rifletté sul marxismo in una serie di saggi che raccolse infine nel volume intitolato Materialismo storico ed economia marxistica pubblicato nel 1900. La critica del determinismo e del materialismo meccanicistico operata da Labriola doveva essere salvata da alcune affermazioni dello stesso Labriola che contraddicevano le intenzioni della sua stessa filosofia. Il materialismo storico doveva essere concepito non come una filosofia della storia, che ‹‹significava, per Croce, determinismo, materialismo, necessità storica, falsa idea di progresso››[10], bensì esso doveva essere interpretato come un semplice canone di interpretazione storica, il quale doveva servire da punto di riferimento per una più realistica comprensione della storia attraverso la considerazione del momento o del fatto economico. Tramite l’idea del canone, Croce ridimensionava la portata filosofica del materialismo storico e lo rendeva autonomo dal socialismo come dottrina politica. La distinzione fra la sfera della comprensione storica e quella della prassi politica permetteva a Croce di introdurre il tema, rimasto latente in Labriola, della soggettività politica, rappresentando così un passaggio fondamentale nella vicenda del marxismo italiano. Frutto della medesima impostazione fu la metafora del paragone ellittico attraverso la quale il nostro filosofo intendeva illustrare ‹‹il carattere etico e politico della teoria marxiana del valore››[11]. Marx, secondo questa prospettiva, avrebbe operato un paragone ellittico fra una società tipica e ipotetica ‹‹costituita dal solo lavoro umano››[12] e la società capitalistica, determinando così ‹‹il rapporto tra pluslavoro, plusvalore e profitto››[13]. In questo modo la posizione del rivoluzionario di Treviri perdeva la fisionomia di una teoria economica in senso stretto per guadagnare una posizione propriamente politica. Tuttavia, fu Labriola a scorgere nelle riflessioni crociane sul marxismo e il socialismo un principio speculativo estraneo, che avrebbe portato di lì a poco il filosofo partenopeo a sviluppare la filosofia dello spirito. Croce ‹‹congedava gli studi sul materialismo storico››[14] e sui suoi critici ritenendo di aver tratto da essi l’essenziale, individuandolo nella forma dell’utile, la quale, rappresentò, pur con sostanziali variazioni, il condensato di ‹‹una lezione duratura››[15] ereditata dall’insegnamento labriolano e dal marxismo. Nella storia della filosofia l’utilità era stata esclusa dal novero delle categorie fondamentali con la conseguenza di ristabilire un dualismo fra anima e corpo, spirito e natura. La categoria dell’utile o economico era da considerarsi, nella prospettiva crociana, una forma elementare e un concetto filosofico da porre accanto alla triade del bello, del vero e del bene elaborata dalla tradizione filosofica. L’utile tendeva in questa maniera a rappresentare una funzione generale dell’uomo e dunque una categoria sottratta alla storia e priva di genesi. Da qui l’accusa, mossa dall’anziano maestro Labriola, di essere ricascato in una forma di vieto idealismo. Eppure vi fu un aspetto che sfuggì alla considerazione del filosofo cassinate: la forma dell’utile o dell’economico, concepita come un elemento di natura volitiva, seppure fosse geneticamente indefinibile, fondava ogni ulteriore genesi, presentandosi nella forma della condizione di possibilità della genesi stessa. Da questo punto di vista, sostiene Mustè, ‹‹anche la categoria dell’utile poteva apparire come una filosofia della praxis, nel senso che Croce poneva l’attività del volere, che significava azione, alla radice dell’intero universo empirico››[16]. La categoria dell’utile impegnerà Croce durante l’intero arco della sua riflessione filosofica, rappresentando un elemento di instabilità ma anche, e forse proprio in ragione di ciò, un elemento dinamico che avrà un peso importante nello sviluppo della filosofia dello spirito.

 

Giovanni Gentile e la prima traduzione italiana delle Thesen über Feuerbach

 

La categoria dell’utile, come abbiamo visto, rappresenta ciò che Croce ha ereditato dal giovanile confronto con il marxismo. Essa fu il frutto di un’impostazione specifica che vedeva nel materialismo storico un canone d’interpretazione storica, escludendo la possibilità che, a partire dalle indicazioni fornite dalle opere di Marx ed Engels, si potesse estrapolare una filosofia autonoma. Un altro autore, che svolgerà un ruolo di primo piano nella cultura e nella politica italiane durante la prima metà del XX secolo, affermò il contrario: il riferimento è a Giovanni Gentile. Anch’egli, come Croce, si formò durante gli anni della sua gioventù sulle opere di Marx ed Engels e sull’opera di Antonio Labriola. Con maestria e acume, Mustè mostra concretamente come si articolò il dibattito fra i due giovani futuri fautori della fioritura del neoidealismo italiano e il più anziano maestro, attraverso scambi epistolari, incomprensioni, conflitti anche aspri. L’impostazione filosofica di Gentile fu chiara fin dal primo saggio concernente il marxismo edito nel 1897, ma assunse una fisionomia più chiara solamente con il secondo saggio intitolato La filosofia della prassi, che raccolse assieme al primo nel volume La filosofia di Marx nel 1899. Già dal titolo si può evincere la differenza di impostazione rispetto a Benedetto Croce. Il rivoluzionario di Treviri avrebbe, a parere di Gentile, fondato una filosofia, un’intuizione totale del mondo e della vita, individuandone il principio nel concetto di praxis. Per corroborare la sua tesi Gentile fornì la prima traduzione italiana delle marxiane Thesen über Feuerbach del 1895 nella versione, l’unica allora disponibile, pubblicata da Engels in appendice al suo volume edito nel 1888 e dal titolo Ludwig Feuerbach und der Ausgang der klassischen deutschen Philosophie. In esso le Thesen apparivano con delle modifiche rispetto all’originale marxiano. Quella più rilevante in relazione alla nostra trattazione risiede nella parte conclusiva della terza tesi, allorché Marx cercava di rendere filosoficamente intelligibile la natura del divenire e delle trasformazioni del mondo umano. Nella versione originale di Marx si poteva leggere:

Das Zusammenfallen des Ändern[s] der Umstände und der menschlichen Tätigkeit oder Selbstveränderung kann nur als revolutionäre Praxis gefaẞt und rationell verstanden werden.

[La coincidenza del variare delle circostanze e dell’attività umana, o autotrasformazione, può essere concepita e compresa razionalmente solo come prassi rivoluzionaria].

Nel testo di Engels si leggeva invece:

Das Zusammenfallen des Änderns der Umstände und der menslichen Tätigkeit kann nur als umwälzende Praxis gefaẞt und rationell verstanden werden.[17]

Come si può notare, nella versione engelsiana, a parte la caduta del riferimento alla Selbstveränderung, all’autotrasformazione umana, l’espressione revolutionäre Praxis veniva sostituita con quella più oscura umwälzende Praxis, che letteralmente significa prassi rovesciante o prassi che rovescia. Gentile, che lavorò sulla versione engelsiana, tradusse con un poco letterale ‹‹prassi rovesciata››[18] e altrove ‹‹prassi che si rovescia››[19]. Lungi dall’essere innocente dal punto di vista filosofico e politico, l’errore di traduzione metteva in evidenza l’interpretazione gentiliana della filosofia di Marx. Nella prospettiva di Gentile, il principio della praxis serviva al comunista di Treviri per costruire una filosofia critica nei confronti del realismo astratto, che concepisce l’oggetto come un fatto, un dato indipendente dal soggetto e non invece come un prodotto, risultato di un processo di sviluppo. La prassi, intesa come energia critica e pratica, si situava dunque all’origine della realtà. Contro Croce, secondo il quale l’influenza di Hegel su Marx doveva ridursi ad un semplice fatto estrinseco, Gentile affermava la derivazione diretta dell’intero materialismo storico, interpretato come filosofia della praxis, dall’hegelismo. Nell’interpretazione gentiliana, il marxismo affermerebbe a priori la forma dialettica della realtà, riconoscendola nel principio della prassi in quanto relazione necessaria di soggetto e oggetto. Tuttavia, la necessità della relazione non implicava né determinismo né fatalismo bensì un teleologismo interno, per cui il soggetto possiede in sé il fine di produrre l’oggetto come sua negazione. Dunque, il marxismo si configurava come una vera e propria filosofia della storia nel senso di una applicazione alla realtà empirica di uno schema a priori. Sennonché, argomentava Gentile, il principio idealistico della prassi veniva applicato da Marx in maniera errata, ossia non allo spirito e ai prodotti spirituali, bensì al fatto economico, inteso come materia inerte e, per principio, non dialettizzabile. Permaneva, dunque, in Gentile la netta distinzione fra l’attività spirituale e l’attività sensibile, che proprio l’idealismo aveva in realtà riunificato teorizzando l’unità di essere e pensiero e che Marx riassumeva nel concetto della menschliche sinnliche Tätigkeit, l’attività umana sensibile. Come nota acutamente Mustè, la critica a Marx ‹‹rischiava di apparire imbarazzante››[20], in quanto il futuro filosofo attualista, da una parte, opponeva al rivoluzionario di Treviri la spaventiana ‹‹capacità pratica del pensiero […] che il filosofo tedesco aveva confuso con la sinnliche tätigkeit››[21], dall’altra ne ‹‹confutava la sintesi […] riportandone il principio a Kant››[22]. Proprio quel dualismo che si voleva criticare attraverso l’idealismo hegeliano veniva, infine, riproposto. L’analisi di Mustè prosegue mostrando la genesi dell’attualismo come filosofia che nega radicalmente il dualismo affermando un rigoroso monismo del pensiero. Quest’ultimo non aveva alcun presupposto, neppure quello del puro essere che semmai, inteso come il nulla del pensiero, è posto dal pensiero stesso. La formula riassuntiva del processo dialettico caratteristico dell’attualismo è l’autoctisi, che, concepita come la forma del processo di autogenerazione della realtà e del pensiero, era, come nota Mustè, ‹‹la forma autentica che la filosofia della praxis (enucleata anni prima a partire da Marx) arrivava ora ad assumere››[23].

 

Rodolfo Mondolfo e la rivalutazione di Feuerbach

Colui che maggiormente subì l’influenza di Gentile fu Rodolfo Mondolfo. Il quale fece propria la declinazione del marxismo come filosofia della prassi, aderendo con ciò, per un verso, alle conclusioni del terzo saggio labriolano e, per un altro verso, alla riflessione gentiliana, non limitandosi per altro al solo testo La filosofia di Marx ma anche ai successivi sviluppi in senso attualista. Nel 1909 diede alle stampe un testo dal titolo Feuerbach e Marx nel quale individuò la criticità dell’interpretazione gentiliana della filosofia della prassi nell’interpretazione riduzionistica della filosofia di Feuerbach. Il quale fu considerato da Gentile, non meno che dagli stessi Marx ed Engels, come un esponente del vecchio materialismo, del ‹‹bisherigen Materialismus››[24] come recitano le Thesen über Feuerbach. In realtà, secondo Mondolfo, il materialismo feuerbachiano rappresentava una nuova sintesi filosofica che, sulla linea di Hegel, aveva superato materialismo e idealismo attraverso il principio della praxis, che rappresentava la sintesi dei termini opposti di soggetto e oggetto. La realtà si sviluppava e diveniva in virtù della molla dialettica rappresentata dal concetto del bisogno, che concretamente mediava il rapporto fra l’uomo e la natura, introducendo il progresso nel ritmo di sviluppo della storia.

Nel 1923, allorché per i tipi della Cappelli di Bologna fu stampata la terza riedizione del volume dal titolo Sulle orme di Marx. Studi di marxismo e di socialismo apparsa per la prima volta nel 1919, Mondolfo chiarì il ‹‹problema dell’elemento differenziale che, oltre l’analogia, distingue Marx da Feuerbach››[25]. La differenza fu rintracciata nel passaggio dal naturalismo allo storicismo, determinato dalla differente concezione della storia che il rivoluzionario di Treviri mise in campo rispetto a Feuerbach. Per quest’ultimo la storia assumeva le sembianze della lotta dell’uomo contro la natura, lotta determinata dal bisogno come molla dialettica fondamentale; il primo, invece, stando all’interpretazione di Mondolfo, superò questo modo naturalistico di concepire la storia. Il bisogno non era più concepito come derivante semplicemente ‹‹dall’esteriorità della natura, ma anche dalla interiorità stessa delle creazioni storiche, della società umana e delle sue forme, e dei rapporti e delle condizioni ond’ella si costituisce ed intesse››[26]. Il momento del passato come passato dello spirito andava sostituendosi al momento del bisogno come la molla dialettica, come il negativo che permetteva di sopravanzare l’essere determinando il divenire e il progresso. La dialettica e il conflitto fra il passato, ossia le condizioni reali della società, e il presente, ossia la volontà umana trasformatrice, determinava il futuro, ossia ‹‹il rovesciamento della prassi di cui parla Marx››[27]. Nonostante quest’ultimo concetto permettesse a Mondolfo di mettere in campo una proposta filosofica che superasse gli errori opposti del determinismo e del volontarismo, egli conservò un’avversione di fondo nei confronti del tema della soggettività politica e del partito, considerato alla stregua di un deus ex machina, che dall’esterno avrebbe imposto alla massa l’ambiente al quale essa avrebbe dovuto adattarsi. Fu a partire da queste considerazioni e da altre condotte nei confronti della cesura storica rappresentata dall’ottobre del 1917 e dall’opera di Lenin, che si consumò la rottura con Antonio Gramsci. A parere di Mondolfo i bolscevichi e Lenin avrebbero forzato la storia in maniera violenta, portando la modernità in una Russia ancora largamente semi-feudale attraverso una dittatura. Un’impostazione, quest’ultima, lontana in maniera siderale da quella di Gramsci, il quale nel maggio del 1924 dalle colonne dell’Avanti! scrisse il celebre articolo La rivoluzione contro il ‹‹Capitale››, intendendo per Capitale proprio il libro di Karl Marx, il quale era ‹‹in Russia il libro dei borghesi, più che dei proletari››[28]. Gramsci si scagliava contro un’interpretazione meccanica e deterministica del capolavoro del rivoluzionario di Treviri, secondo la quale il proletariato russo, dopo aver subito le vessazioni del regime feudale e poi semi-feudale degli Zar, avrebbe dovuto subire il dominio della borghesia, senza poter pensare alla propria rivoluzione e al proprio modo di sviluppare la modernità in Russia. In questo caso i ‹‹fatti hanno superato le ideologie […] hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico››[29]. Tuttavia, ciò non significava concepire la storia come un groviglio di avvenimenti senza senso e non significava neppure rinnegare l’opera di Marx rinunciando ad una sua comprensione razionale della storia e del mondo. Tutt’altro: esisteva ‹‹una fatalità anche in questi avvenimenti››[30] ed il Capitale, al di là delle ‹‹incrostazioni positivistiche e naturalistiche››, conteneva anche un ‹‹pensiero immanente e vivificatore››[31], in virtù del quale i bolscevichi hanno rivoluzionato il mondo.

 

La filosofia della praxis nei Quaderni del carcere

La seconda parte del libro di Mustè è dedicata interamente all’opera e alla figura di Antonio Gramsci. Con rigore e precisione viene ricostruito il tortuoso itinerario intellettuale, politico e umano attraverso il quale il comunista sardo, durante gli anni della prigionia nelle carceri fasciste, elabora l’idea di una filosofia della praxis intesa come lo sviluppo di una integrale e peculiare visione del mondo marxista. Attraverso le acquisizioni della nuova filologia gramsciana, Mustè individua le tappe cronologiche e concettuali di questo itinerario, riuscendo a far emergere e rendere intelligibile l’universo di concetti che popolano la visione gramsciana del mondo, cogliendone le varie articolazioni tematiche e i vari livelli di applicazione. Colti nel loro concreto divenire i concetti del marxismo di Gramsci assumono una fisionomia nuova, si mostrano nella loro vitalità. Mustè suddivide la seconda parte del volume in quattro grandi capitoli. I primi due, intitolati Gli Appunti di filosofia e Le note su Dante, sono dedicati alla ricostruzione concettuale e filologica del processo di elaborazione del marxismo gramsciano; gli ultimi due, L’Anti-Croce e Praxis, sono dedicati all’esposizione dei concetti del marxismo gramsciano come risultano dall’istituzione dei cosiddetti Quaderni ‹‹speciali››, che tuttavia, come mostra Mustè, sono da considerarsi anch’essi non come compiute monografie, bensì come ‹‹un genere intermedio tra la semplice raccolta miscellanea e la monografia, superando la rapsodicità della prima e non conseguendo l’armonia della seconda››[32]. I Quaderni rappresentano dunque un cantiere concettuale a cielo aperto, che Mustè ricostruisce cogliendone le articolazioni principali nel loro divenire. I capitoli dedicati a Gramsci sono una miniera d’oro di informazioni, spunti, intuizioni che offrono al lettore una panoramica completa della riflessione filosofico-politica dei Quaderni, mostrandone, da una parte, il legame e la filiazione con la peculiare riflessione italiana sul marxismo e, dall’altra, la propria specificità. Ciò che a nostro parere è importante sottolineare, è il modo filologicamente e concettualmente rigoroso in cui Mustè è riuscito a mostrare come il marxismo di Gramsci riesca a cogliere l’oggettività dell’essere sociale senza ricadere negli errori opposti del soggettivismo e del realismo ontologico. In altri termini, come, attraverso il concetto di egemonia e, dunque, attraverso il tema della soggettività politica, il comunista sardo sia riuscito a restituire un’immagine dinamica della realtà, concepita non alla stregua di un oggetto dato una volta per tutte, ma essenzialmente intesa come una oggettività prodotta dalla prassi degli uomini che non agiscono in un vuoto pneumatico, ma in un mondo di relazioni oggettive naturali e storiche.

Una delle acquisizioni più importanti della nuova filologia gramsciana risiede nella datazione delle tre serie degli Appunti di filosofia. Materialismo e Idealismo, che si trovano rispettivamente nel Quaderno 4 (§§ 1-48), 7 (§§1-48) e 8 (§§ 166-240). Seguendo in ciò gli studi di Francioni[33], Mustè articola così la successione cronologica del lavoro gramsciano. La prima serie fu cominciata nel maggio 1930, contemporaneamente alla stesura nello stesso Quaderno 4 degli appunti sul canto decimo dell’Inferno di Dante, e fu conclusa fra ottobre e novembre del medesimo anno. Nel novembre del 1930 fu cominciata la seconda serie, che fu conclusa nel novembre 1931, quando fu avviata la terza serie che fu portata a termine nel maggio 1932. Non a caso, osserva Mustè, fu solo tra l’aprile e il maggio 1932 che Gramsci cominciò ad utilizzare ‹‹in maniera costante e sistematica››[34] l’espressione filosofia della praxis in luogo del più comune materialismo storico. Questo mutamento, lungi dall’essere esclusivamente atto a prevenire la censura carceraria, come sostennero i curatori della prima edizione dei Quaderni Felice Platone e Palmiro Togliatti, fu invece il frutto e la manifestazione visibile di un mutamento teorico generale. Questa la tesi di Mustè, suffragata da un’analisi diacronica di alcune note, che dimostrano come l’espressione non comparve improvvisamente ma fu il frutto di una lunga elaborazione, al cui centro devono essere posti gli Appunti di filosofia, le note sul canto decimo dell’Inferno di Dante e le note miscellanee sugli intellettuali[35]. Gramsci, consapevole di inserirsi in una lunga e complessa tradizione, si ricollegò ad Antonio Labriola sostenendo la necessità ‹‹di far predominare la sua impostazione del problema filosofico››[36], rintracciandola nell’esigenza di sviluppare l’autonomia filosofica del marxismo, che determinò, come sostiene Mustè, ‹‹il punto di partenza di tutta l’indagine di Gramsci››[37]. La filosofia della praxis doveva superare, in questa prospettiva, le varie tendenze del marxismo corrente, sovietico e non, che combinavano il marxismo con altre correnti filosofiche. In questo difetto Gramsci intravide una insufficienza nello sviluppo del materialismo storico posteriore a Marx, che espresse attraverso le metafore del Rinascimento e della Riforma protestante. Il primo rappresentò un movimento culturale che stimolò una vasta e proficua produzione intellettuale e artistica ma che rimase appannaggio di ristretti gruppi intellettuali; il secondo, al contrario, rappresentò un vasto movimento popolare che si trasformò in fede diffusa ma risultò sterile negli studi. Attraverso l’immagine del Rinascimento Gramsci intendeva criticare l’idealismo, ritenuto colpevole di non mediare la propria filosofia con il popolo e il sentire comune producendo una forma di universalità astratta; mentre, attraverso l’immagine della Riforma il comunista sardo voleva indirizzare la propria vis polemica nei confronti del marxismo, che aveva avuto sì il merito di innalzare il livello culturale delle grandi masse stimolandone e dirigendone l’azione, ma al caro prezzo di un ritardo nell’elaborazione filosofica e culturale, appena superiore alla mentalità popolare ma ‹‹insufficiente per creare un vasto movimento culturale che abbracci tutto l’uomo, in tutte le sue età e in tutte le sue condizioni sociali, unificando moralmente la società››[38]. Il nodo cruciale da sciogliere risultava essere quello della conversione della teoria in prassi, ovvero quello del passaggio dal Rinascimento alla Riforma o, ancora, dalla struttura alle sovrastrutture. Questo era il problema dell’egemonia, il nodo teorico e politico principale della riflessione gramsciana. Che poi non era altro se non il problema che animava la terza delle Thesen über Feuerbach, secondo cui, riprendendo la traduzione operata da Gramsci nei Quaderni, il ‹‹convergere del mutarsi dell’ambiente e dell’attività umana può essere concepito e compreso razionalmente solo come rovesciamento della praxis››[39]. L’espressione umwälzende Praxis è tradotta con rovesciamento della praxis, che, nota Mustè, ‹‹era ancora più lontano dal testo originale di prassi rovesciata (Gentile)››[40], ma indicava chiaramente la direzione intrapresa da Gramsci, ossia quella di illustrare ‹‹il processo di formazione del soggetto politico››[41] in grado di articolare concretamente, ‹‹nel contesto di una modernità avanzata››[42], l’unità di teoria e prassi e dunque di restituire agli uomini ‹‹la capacità di formare la struttura stessa››[43]. Concepita la realtà come unità attraverso il concetto di blocco storico, inteso come il nesso circolare fra struttura e sovrastrutture, Gramsci tentò di salvare l’elemento sovrastrutturale dalle svalutazioni del materialismo volgare e deterministico e del Croce degli Elementi di politica del 1925. Quest’ultimo affermò che Marx ‹‹considerava sostanziale la vita economica e apparenza, illusione o soprastruttura, come la chiamava, la vita morale››[44]. Attraverso le traduzioni dei brani tratti dalla Prefazione a Per la critica dell’economia politica, Gramsci poteva argomentare contro Croce che per Marx le ideologie non erano mere illusioni, esse erano bensì necessarie in quanto rappresentavano il terreno entro il quale gli uomini prendono coscienza del conflitto sociale. Il vecchio mondo non perisce finché, nel suo stesso seno, non si siano formate le condizioni materiali necessarie al suo superamento, ma se non avviene un mutamento anche sul versante delle forme ideologiche, se la classe rivoluzionaria che, tramite il lavoro, oggettivamente opera per la trasformazione pratica non elabora anche una autonoma e organica visione del mondo nessun mutamento rivoluzionario è possibile. La classe oggettivamente rivoluzionaria ma politicamente e socialmente dominata possiede, infatti, una coscienza disorganica e confusa, partecipa contraddittoriamente alle forme di coscienza dei dominanti e del vecchio mondo. Il senso comune, definito come la filosofia dei non filosofi, rappresentava la filosofia spontanea delle classi subalterne che, partecipando delle concezioni dei dominanti ed ereditando dal passato idee e punti di vista sul mondo, restavano prigioniere del vecchio mondo. Compito della filosofia della praxis era quello di sollevare il senso comune al momento superiore della consapevolezza, sviluppando e rendendo esplicita la filosofia implicita alla prassi concreta dei subalterni, oggettivamente rivoluzionaria. Solo in questo modo sarebbe stato possibile superare il vecchio mondo. Infatti, lo sviluppo delle forze produttive è condizione necessaria ma non sufficiente per il superamento del vecchio, il quale, in determinate circostanze, riesce a conservare il potere, configurando così il fenomeno della rivoluzione passiva. La praxis non rovesciava, come nel caso di Mondolfo, le condizioni oggettive, che essa stessa ha prodotto; essa era bensì, come abbiamo visto, ‹‹il luogo di una contraddizione››[45], una struttura complessa che non possedeva, in quanto tale, l’energia per operare la trasformazione rivoluzionaria della realtà. Era necessaria una robusta mediazione ‹‹capace di innescare le condizioni del rovesciamento, ossia il processo di costituzione del soggetto politico››[46]. Il principio della mediazione era rappresentato dalla figura dell’intellettuale che non era da considerarsi come una figura separata dalla massa, bensì organica ad essa, e il cui compito era di ‹‹innalzare alla coerenza teorica il nucleo vitale della prassi, implicito nel senso comune››[47]. La teoria doveva dunque essere interna alla prassi e solo in questo modo, in termini hegeliani, il razionale sarebbe divenuto reale e viceversa. Siamo nuovamente in presenza del nodo teorico-pratico dell’egemonia, il quale rappresentava per Gramsci il punto più alto a cui è giunto il pensiero mondiale, il quale deve essere incarnato dal partito politico, dal Moderno Principe. E si stringe qua uno dei risultati a nostro parere più rilevanti della fatica di Mustè, ossia quello di aver mostrato in maniera filologicamente ineccepibile e concettualmente chiara come lo sforzo di Gramsci si concentrasse nel tentativo di sviluppare una filosofia in grado di rendere conto dell’oggettività del reale e del processo storico e, contemporaneamente, del ruolo attivo della soggettività umana. Gramsci negli Appunti di filosofia distinse chiaramente il problema della realtà oggettiva del mondo esterno dal problema dell’oggettività del mondo. Il primo problema era di matrice cristiana e implicava il concetto di una ‹‹realtà indipendente dall’uomo pensante››[48] e dunque il dualismo di pensiero ed essere come dato originario del conoscere e del reale, con annessa l’idea della verità come adaequatio del soggetto all’oggetto che Hegel aveva criticato nella Fenomenologia dello Spirito. Gramsci, complicando la critica hegeliana, riconduceva il realismo alla visione religiosa e ne derivava la categoria di senso comune. Il secondo problema, ossia quello dell’oggettività del mondo, riguardava ‹‹la costituzione, oltre qualsiasi forma di soggettivismo, di una realtà comune e condivisa››[49]. Il processo di costruzione dell’oggettività era ricondotto all’altra grande potenza della modernità, alle scienze empiriche. Le quali, tramite il metodo scientifico sperimentale, stabiliscono ciò che è comune a tutti gli uomini, l’essere permanente e non transeunte. La scienza si fa così portatrice di una visione del mondo che la filosofia della praxis avrebbe dovuto fare propria, opponendosi con ciò al senso comune, che, portatore di una visione realista ingenua, avrebbe dovuto essere innalzato al livello del pensiero mondiale più progredito. Questo è ‹‹il caso più largo e universale di lotta per l’egemonia››[50]. Infatti, afferma Gramsci nel Quaderno 4, la lotta per l’oggettività del mondo non è altro che ‹‹la lotta per l’unificazione del genere umano››[51], la lotta per l’oggettivazione del soggetto che ‹‹diventa sempre più un universale concreto, storicamente concreto››[52]. Il tema della costruzione dell’oggettività del mondo si connetteva così al problema del cosmopolitismo e al tema del moderno principe, ossia della soggettività politica come centro propulsore della lotta per l’egemonia. Un’egemonia non solo politica, economica o sociale ma civile, che consisteva nella capacità di individuare nella dimensione nazionale particolare gli elementi universali. Il mondo moderno risultava essere ormai un mondo sostanzialmente unificato in cui la vita e il destino dei popoli sono strettamente intrecciati fra loro, tant’è che sul piano dei rapporti internazionali non aveva più senso parlare di egemonia ma solo di imperialismo economico-finanziario. Ma l’egemonia risorgeva sul piano della società civile ormai unificata, in cui si manifestava come dialettica di visioni del mondo.

Sono queste le tematiche che, assieme alle tantissime altre contenute nel libro di Mustè, contribuiscono a rendere il testo un’opera stimolante e fondamentale sia per gli specialisti che per tutti coloro i quali vogliano comprendere non solo una pagina, seppure di per sé importante, della storia della filosofia, ma vogliano acquisire punti di riferimento fondamentali per orientarsi nel mondo attuale. Un mondo sempre più caratterizzato dal ritorno in auge del nazionalismo, che si fa portatore di una visione aristocratica del mondo, secondo cui soltanto i popoli e le nazioni elette avrebbero il diritto di godere dei frutti dello sviluppo e del progresso della modernità determinato dal lavoro umano, rinunciando così all’esercizio e alla pratica dell’egemonia. Le categorie del marxismo di Gramsci, così come emergono dal lavoro di Mustè, offrono una base dalla quale ripartire per mettere in atto un pensiero e una prassi che concretamente lavorino per la costruzione di un mondo comune e realmente condiviso, per lo sviluppo integrale e organico della modernità e delle sue premesse.

 

[1]Marcello Mustè, Marxismo e filosofia della prassi. Da Labriola a Gramsci, Viella, Roma, 2018, pp. 329.

[2]Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1975, p. 1854.                                    

[3]Antonio Labriola, Scritti filosofici e politici, a cura di Franco Sbarberi, Einaudi, Torino, 1973, p. 702.

[4]Ivi, p. 667.

[5]Ivi, p. 666.

[6]Ivi, p. 689.

[7]In primo luogo il positivismo in genere e, in particolare, le teorie di Spencer e Darwin.

[8]Ivi, p.713.

[9]Mustè, op. cit., p. 30.

[10]Ivi, p. 79.

[11]Ivi, p. 82.

[12]Ibidem.

[13]Ibidem.

[14]Ivi, p.77.

[15]Ibidem.

[16]Ivi, p. 90.

[17]Mustè, op. cit, p. 112. Si segnala inoltre che sulla vicenda delle Thesen è in corso di stampa M. Mustè, Umwälzende Praxis. La terza tesi su Feuerbach nel marxismo italiano, in Marx in Italia, a cura di C. Tozzuolo.

[18]G. Gentile, La filosofia di Marx, Edizioni della Normale, Pisa 2014, p. 118.

[19]Ivi, p. 139.                                                                                                     

[20]Mustè, op. cit. p. 121.

[21]Ivi, p. 124.

[22]Ibidem.

[23]Ivi, p.125.

[24]Karl Marx, Friedrich Engels, MEGA I/30, Akademie Verlag, Berlin, 2011, p. 794 .

[25]Mustè, op. cit., p. 144.

[26]Rodolfo Mondolfo, Sulle orme di Marx. Studi di marxismo e di socialismo, Cappelli, Bologna 1923, p. 60.

[27]Ivi, p. 61.

[28]Antonio Gramsci, La rivoluzione contro il ‹‹Capitale›› (1917), in Id., Scritti politici, a cura di Paolo Spriano, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 80.

[29]Ibidem.

[30]Ivi, p. 81.

[31]Ibidem

[32]Mustè, op. cit, p. 259.

[33]Francioni, L’officina gramsciana. Ipotesi sulla struttura dei Quaderni del carcere, Bibliopolis, 1984, 228 pp.

[34]Mustè, op. cit., p. 177.

[35]Cfr. Mustè, op. cit., pp. 177, 178, 179, 180.

[36]Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 1509

[37]Mustè, op. cit., p.182.

[38]Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 423.

[39]Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 2356.

[40]Mustè, op. cit., p. 189.

[41]Ivi, op. cit., pp. 290, 291.

[42]Ivi, p. 291.

[43]Ibidem.

[44]B. Croce, Elementi di politica, Laterza, Bari, 1925, pp. 91, 92.

[45]Mustè, op. cit., p. 300.

[46]Ivi, p. 301.

[47]Ivi, p. 300.

[48]A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 467.

[49]Mustè, op. cit., p. 206.

[50]Ivi, p. 208.

[51]A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 1048.

[52]Ivi, p. 1049.

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