Gian Luca Picconi

 

La pubblicazione nella collana bianca Einaudi delle Poesie giovanili di Paolo Volponi, a cura di Salvatore Ritrovato e Sara Serenelli (P. Volponi, Poesie giovanili, a cura di S. Serenelli e S. Ritrovato, Torino, Einaudi, 2020), apre uno squarcio sulle fasi più antiche dell’officina del poeta e sul suo apprendistato letterario contribuendo così a ridefinirne l’immagine e a ristoricizzarne la figura.


È quindi un’operazione di notevole importanza, condotta su uno degli autori più rilevanti del Secondo Novecento. Riemersi dall’archivio dell’autore, anche grazie all’attenta cura della figlia Caterina Volponi, che ha in questi anni (assieme a sua madre, la compianta Giovina Iannello) mostrato una generosità e attenzione rara da trovarsi, i tre fascicoli da cui sono stati estratti i testi che compongono questo volumetto risalgono agli anni tra il 1947-48 e il 1955. Questi fascicoli sono stati affidati agli Archivi Storici di Personalità di Urbino, afferenti alla Fondazione Carlo e Marise Bo dell’Università degli Studi di Urbino, per una digitalizzazione e trascrizione diplomatica iniziale da cui il lavoro è partito: un caso felice quindi, dovuto alla collaborazione illuminata tra eredi e istituzioni, di recupero di un materiale di primario interesse risalente alla preistoria dell’autore. Di questo materiale Sara Serenelli fornisce un apparato filologico fondamentale per capire come si sia pervenuti all’allestimento della raccolta. La confezione del libro, giova in effetti dirlo, non è autoriale, ma fornisce una chiara idea della consistenza dei fascicoli, documentando addirittura le varianti, informando debitamente sugli elementi paratestuali, e pervenendo al recupero di una serie di testi di notevole interesse. Di meglio non si poteva fare, stante la collana, che, com’è noto, è rivolta a un pubblico il più ampio possibile.
Si tratta, come si può evincere dalle date, di una serie di testi contemporanei in particolare rispetto a Il ramarro (che era uscito appunto nel 1948 grazie all’interesse di Carlo Bo) e L’antica moneta (uscita invece nel 1955 presso Vallecchi); i curatori hanno giustamente sottolineato questa sincronicità organizzando il volume in due sezioni, dal titolo Verso il ramarro e Verso l’antica moneta. È quindi un materiale che conduce i lettori nel pieno dell’officina elaborativa di queste due raccolte. L’apparato, giustamente, mette in luce la difformità delle tipologie testuali delle carte raccolte: testi manoscritti (soprattutto per quanto riguarda il primo fascicolo) e dattiloscritti (soprattutto gli altri due fascicoli, che compongono la sezione Verso l’antica moneta) che non confluirono poi nelle raccolte effettivamente edite; si tratta pertanto di un materiale avantestuale, a suo tempo scartato, evidentemente, perché non collimava con il progetto macrotestuale che caratterizzava i due libri; un materiale che fin dai supporti impiegati testimonia una evoluzione interna, ma anche costanti di breve e lungo periodo.
Ci si aspetterebbe, a fronte di questi dati, e della cronologia alta delle redazioni, di imbattersi in un libro utile soprattutto dal punto di vista documentario, ma dagli esiti estetici dubbi. La forza e l’unicità di questi testi, tuttavia, è tale da revocare l’urgenza di una valutazione estetica, per trasporre il discorso su un piano di raffronto con la produzione coeva degli altri autori, oltre che quella stessa di Volponi. Raffronto, per marcare convergenze e differenze, che emerge con pienissima chiarezza nella bella e utile introduzione di Salvatore Ritrovato, in cui vengono messe in luce e ricostruite con puntualità, sia pur nel breve spazio disponibile, occasioni intertestuali prossime rispetto alla formazione della scrittura giovanile di Volponi (con Bo e quindi tutto un progetto di letteratura a far da padrino), e la temperie culturale in cui questi muoveva i primi passi.
Ebbene, se l’ingresso in questo laboratorio autoriale mostra una testualità dalle componenti difformi rispetto alla selezione operata per le raccolte, gli esiti estetici dei testi confluiti in questo volume non sono di certo nemmeno pienamente riconducibili al clima ermetico e postermetico in cui si identificava buona parte della poesia dell’epoca, ed entro cui anche la poesia di Volponi, e da recensori tutt’altro che sprovveduti (su tutti, Caproni), era stata collocata. Il tutto sottolinea l’unicità del progetto di autorialità di Volponi, in confronto alle vie intraprese dagli intellettuali e poeti a lui coevi.
In particolare l’elemento caratteristico che spicca nei testi raccolti nel libro, e che fa da trait d’union tra i tre fascicoli autografi pure riconducibili a epoche diverse rispetto all’evoluzione letteraria di Volponi è certo la dimensione materica dei testi: un afflato materico di tale potenza da diventare in un certo senso letteralmente materialistico, e quindi ben riconducibile alla tradizione marchigiana di un certo Leopardi, ma anche ai tanto amati Bruno, Campanella, Vico, fa di queste poesie un frutto non comune per l’epoca, che si ricollega da un lato ben di più alla poesia neorealista, dall’altro, con maggior spicco, alla produzione di Volponi più tarda, persino quello posteriore alla stagione officinesca.
La donna, e una spiccata componente di sensualità sono certamente due degli aspetti che più connotano questo materialismo:

 

Il cesto largo
dei tuoi capelli smanati,
gli occhi affogati
da sposa di un anno.
La forza dei miei denti
sulle venine verdi del tuo collo.
Avrei mangiato
con rabbia tagliente
fra sabbia e mare
come un gitante.
Ma tu hai riso
per le mie gambe secche
da sanfrancesco
e il mio camminare
come un pinguino
dalla grossa ernia (11).

 

Certo la sensualità di Volponi trova un suo pendant nel lessico già caratterizzato da impennate espressionistiche («smanati») e nell’imagerie zoomorfica, non pienamente ricomponibile rispetto all’Erwartungshorizont dell’epoca. Anche l’istituto del tu lirico, qui continuamente richiamato, viene sottoposto da Volponi a torsioni inattese, fino all’invettiva e alla testualità maledittoria, tonalità in parte inusitate nella poesia post-ermetica:

 

Muoiano
l’un dietro l’altro
i figli tuoi.
Io rido
dietro pascendo
la mia maledizione.
Tu rimarrai
con il ventre
acido.
Tu che t’offristi
piena
a quell’uomo (14).

 

È certo il corpo e la corporalità la vera ossessione di questa stagione fantasma della poesia di Volponi, in modo ben più evidente rispetto a Il ramarro e L’antica moneta:

 

Quel peso di piombo
nel ventre
ti salda alla terra.
Il corpo ti cola tutto
e le gambe gonfie
sono incredibilmente aperte.
Ti slarghi come un frutto maturo,
ed io sento lo schifo
di vederti dentro (15).

 

Come si vede, una testualità di inusitata forza espressiva, certo più vicina al neorealismo in poesia, ma insieme marcata da una meglio orchestrata letterarietà, non immune a livello di lessico da influenze letterarie contemporanee (si sente un certo Quasimodo), ma del tutto originale nella rappresentazione della realtà in chiave grottesca e dismorfica: anzi, l’originalità è tale, appunto, che i testi non potranno poi confluire nella scelta realizzata per i propri libri. Un caso di autocensura?
A fronte di questo hapax (si tenga presente che si tratta di testi del 1947-8) letterario, la seconda parte del volume dimostra una evoluzione rispetto a quanto visto fin qui. Reminiscenze letterarie più varie e scoperte (persino un inequivocabilmente montaliano «canto di coturnice» [54], o una «dolorosa madre» [51] che rimanda probabilmente a Ungaretti) rispetto a prima, quando la cruda e inedita espressività si associava a un lessico spesso di chiara ascendenza pascoliana e dannunziana, probabilmente orecchiato a scuola, mostrano una vena però più assimilata e compatibile con la scrittura letteraria di quegli anni. Ci vorrà l’apprendistato in «Officina» perché Volponi torni a far fruttare l’assillo corporale e materialista della sua poesia in tutta la sua magniloquente potenza. Eppure il testo con cui si chiude la raccolta (Io so che le strade) apre a un’ulteriore riflessione:

 

S’alzano a volo gli uccelli
all’urlo nostro,
e allargano il cielo.
Corriamo,
io so che le strade
hanno crocicchi dove si canta,
dove le donne
vendono vino e lupini.
Là sono le croci
originali del Cristo,
con grossi chiodi
tenaglie e martello.
Là troveremo una lampada, una moneta,
un cavallo lasciato da un soldato,
forse la strada di antiche città,
le vigne e gli orti tranquilli del mare.
Una barca abbandonata sulla riva (58).

 

Più conforme al clima postermetico, il mannello di poesie della sezione Verso l’antica moneta ci mostra un Volponi capace di riscoprire in poesia il pronome noi, e quindi una dimensione collettiva (non solo nel senso della ricomposizione con il femminino), che richiama comunque a un ambiente rurale (probabilmente quello meridionale a cui si sarebbe avvicinato nei suoi lavori con l’UNRRA-CASAS a partire dal 1950). Se già si trovano tracce della sperimentazione incipiente del poemetto, è soprattutto da registrare una scrittura meno egocentrata e più addomesticata (senza dimettere dal materialismo e anzi, lasciando la corporalità sempre al centro di tutto), ma che prelude alle successive aperture politiche, e alla capacità di auscultazione dell’altro e dell’orizzonte politico che Volponi dimostrerà lungo la sua carriera di autore.
Ecco quindi che il materialismo così evidente nelle Poesie giovanili si rivela il terreno di germinazione perfetto per la successiva svolta comunista di Volponi, che a questa altezza cronologica, con ben testimonia l’utile libro di Maria Laura Ercolani (Paolo Volponi. Le sfide del Novecento, Milano, Franco Angeli, 2019) era ancora di orientamento repubblicano. In un certo senso, il comunismo di Volponi appare e si vede prima in poesia che nel suo discorso pubblico. In poesia: nell’unicità della sua postazione autoriale, che esibisce la volontà di non accontentarsi dello scimmiottamento di toni e movenze abusati, nell’originalità della sua scrittura terragna e materica, ruvida e corporale, emerge, in fin dei conti, come da un terreno di coltura, la sagoma, ancora in nuce, del sogno di una cosa, di cui mancava solo che Volponi prendesse, come in effetti successivamente alla morte di Olivetti, coscienza.

 

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