Vincenzo Bello

 

La questione dei vaccini, dalla loro produzione esigua ai ritardi nella distribuzione da parte delle multinazionali e, prima ancora, la pandemia del Covid-19 con la sua gestione, politica ed economica, hanno messo in evidenza le contraddizioni del mondo capitalistico, in particolare quella tra profitto e diritto alla salute, ovvero tra interessi del capitale e democrazia. D’altronde non ci si può aspettare nulla di diverso da un sistema basato sulla pura logica di mercato in cui la determinazione delle quote di vaccini e il loro prezzo viene regolato sulla base della concorrenza e delle forze di mercato. In questo solco si inserisce anche l’affermazione di Letizia Moratti, che vorrebbe distribuire il vaccino in proporzione al PIL. È la ricchezza il criterio che stabilisce la distribuzione dei vaccini.

Non sarebbe possibile e necessaria una produzione pubblica del vaccino? Il diritto alla salute è o non è più importante del profitto privato? Esiste davvero un trade off tra salute e produzione, il cosiddetto trade off pandemico? E se sì, come può essere superato[1]?

Sono domande tutt’altro che retoriche, perché ci costringono a prendere atto della fase attuale del capitalismo storico e ci pongono dinanzi alla necessità di uscirne.

Il capitalismo costituisce l’oggetto di studio dell’economista Emiliano Brancaccio, marxista, quindi eretico secondo l'orizzonte del pensiero dominante. I suoi scritti rispondono all’urgente bisogno di analizzare le contraddizioni delle teorie mainstream dell’economia e, a partire dalla critica a queste ultime, elaborare visioni alternative. Anche il suo manuale, l’Anti-Blanchard[2], si pone esattamente questo obiettivo: mettere in mostra la fallacia della sintesi neoclassica elaborata da Blanchard, con la sua concezione di un sistema che auto-regolandosi perviene sempre ad un solo ed unico equilibrio possibile, quello naturale.

Oltre ai testi accademici, la penna del prof. Brancaccio ha prodotto anche testi divulgativi, con l’obiettivo di render chiaro a tutti che un’altra economia è possibile.

È ancora fumante la pistola delle crisi degli anni Novanta nel Sud-Est Asiatico, in Russa e in Sud America, quando Brancaccio, in collaborazione con Riccardo Bellofiore, pubblica un testo che pone al centro del dibattito italiano la questione della Tobin Tax[3]. Si tratta della proposta elaborata dall’economista James Tobin di porre un freno, un granello di sabbia, alla libera movimentazione dei capitali, attraverso l’applicazione di una tassa, la Tobin Tax appunto, dal nome dell’economista che osò proporla già agli inizi degli anni '70. L’obiettivo di una tale misura è quello di colpire e penalizzare le transazioni a breve sui capitali e sulle valute, quelle, insomma, di natura meramente speculativa. Una misura come questa, seppur apparentemente piccola, è tutt’altro che marginale, perché potrebbe contribuire a ridurre il divario nella distribuzione della ricchezza all’interno dei singoli Paesi e tra i vari Paesi. I testi inclusi in questa raccolta gettano luce sugli stretti legami che intercorrono tra crisi valutarie e politiche restrittive, tra movimenti dei capitali e distribuzione dei redditi, tra salari, profitti e rendite, tra mercati finanziari e le condizioni di vita di milioni di persone.

L’onda lunga della crisi del Sud-Est Asiatico scoppiata nel 1997 arriverà, dieci anni dopo, con tutta la sua violenza, in Occidente: negli Usa dapprima e in Europa poi. Abbiamo ancora vive nelle memoria le immagini della gente in piazza in Grecia e le politiche della Troika imposte a quest'ultima, ma anche all’Italia, per fronteggiarla.

Proprio sulla severità di tali imposizioni[4] si concentra ancora l’analisi del Prof. Brancaccio. Ancora una volta vengono messe in discussione non solo le teorie dominanti con i loro postulati e le loro spiegazioni della crisi, ma anche le politiche che, proprio basandosi su quelle teorie, sono state poste in essere da numerosi governi in quegli anni.

Scrive Brancaccio:

A seguito delle politiche di austerity il sistema economico rimane in condizioni di prolungato sottoutilizzo delle capacità produttive e addirittura, nella crisi, finisce per distruggere quelle stesse capacità. La rinuncia delle imprese a investire in nuovi mezzi di produzione, infatti, non solo riduce la domanda e la produzione correnti e lascia inutilizzate le forze produttive già esistenti, ma abbatte anche il potenziale produttivo futuro della società.

Quali possono essere le cause del fascino discreto che essa tuttora esercita tra le masse popolari, e soprattutto tra gli eredi del movimento operaio? Una parziale risposta risiede probabilmente in alcuni tipici luoghi comuni diffusi tra le macerie di quella che un tempo veniva orgogliosamente definita la cultura di sinistra, e che oggi pare essersi ridotta a una zavorra ideologica, un intralcio alla comprensione della realtà. Tra di essi vi è ad esempio l’illusione che una politica di restrizioni finanziarie possa indurre i cambiamenti strutturali indispensabili per rendere collettivamente fruibili i benefici del progresso tecnico, e possa addirittura contribuire al trapasso verso una società maggiormente rispettosa dell’ambiente, magari persino fondata sulla “decrescita”. E vi è pure l’idea naive secondo cui l’arma dell’austerità potrebbe essere finalmente rivolta non sui lavoratori ma contro i dissipatori, i corrotti, i membri della “casta”. La realtà, tuttavia, è un’altra[5].

A distanza di più di tredici anni dall’inizio di quella crisi con un’Europa sempre più in crisi e piegata dagli effetti della pandemia Covid-19, risulta più che mai necessario spezzare l’ineluttabilità delle teorie mainstream e delle loro politiche divenute dominanti già a partire dagli anni 80 ad opera della Thatcher e di Reagan e poi divenute le uniche considerate vere dagli anni 90 in poi, dopo il crollo dell’URSS.

L’ultimo libro di Emiliano Brancaccio, Non sarà un pranzo di gala (Meltemi, 2020), è fondamentale perché, oltre a rappresentare una giusta sintesi del percorso dell’autore, costituisce un vero e proprio tentativo di elaborazione di una teoria di politica economica critica che abbia un fondamento scientifico, che parta dalla considerazione che l’economia debba essere scienza “dura”.

Se è così, tale scienza identifica una legge, La legge di riproduzione e tendenza del capitale.

Tale legge postula che la totale libertà del capitale e la sua tendenza a centralizzarsi in sempre meno mani costituiscono una vera e propria minaccia alle altre libertà e alle stesse istituzioni democratiche liberali. È questa la tesi che pervade tutti gli scritti e le interviste raccolte in questo libro e trova efficace sintesi ed elaborazione nel saggio finale “catastrofe o rivoluzione”.

Catastrofe e rivoluzione sono i due rami di una biforcazione individuati dallo stesso Blanchard, ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale. Blanchard riconosce, ben prima dello scoppio della crisi pandemica, che le politiche economiche sin qui adottate stanno conducendo il sistema verso una catastrofe, a cui si deve porre rimedio con una rivoluzione, intesa, dal suo punto di vista, come una rinnovata politica keynesiana.

Il testo del prof. Brancaccio parte proprio da questa biforcazione per mostrare, innanzitutto, la fallacia e la inadeguatezza del pensiero economico neoclassico nell’affrontare la catastrofe in atto e la necessità di una nuova elaborazione, di un sentiero di ricerca diverso. E che non coincide nemmeno con la rivoluzione invocata da Blanchard. Il punto di partenza deve, invece, essere la riunificazione di due percorsi che, fino ad oggi, hanno viaggiato separati: la teoria della riproduzione e della crisi capitalistica, da un lato, e le leggi di tendenza del capitale dall’altro. La Legge di riproduzione e tendenza, appunto.

Il capitale tende a crescere più velocemente del reddito, generando un sempre maggiore divario tra chi vive di ricchezza e chi vive di lavoro (quella che viene definita disuguaglianza fondamentale) e in un sistema in cui predomina la disuguaglianza fondamentale, sarà più difficile onorare i debiti accumulati, con conseguente aumento delle insolvenze, delle bancarotte, dei fallimenti dei capitali più piccoli e fragili. Questo favorisce l’incorporazione dei capitali più deboli ad opera dei capitali più forti.

La legge di tendenza e di riproduzione ci dice, allora, che in un sistema in cui il capitale cresce più velocemente del reddito, il primo tende anche a concentrarsi in sempre meno mani. Marxianamente, si dà vita ad una lotta di classe tutta interna alla classe capitalistica, tra capitali deboli che resistono ai capitali più forti. È in questa tendenza che va ricercato il germe della catastrofe.

La concentrazione del potere economico ha ricadute anche politiche, perché erode il sistema dei diritti, la democrazia e lo stesso sistema liberaldemocratico. Così si spiega anche l’allarme lanciato da Blanchard.

È questa una delle contraddizioni del capitalismo e dell’ideologia neoliberista basata sulla idea che le forze del mercato, se lasciate libere di agire, producono non solo ricchezza diffusa, ma anche pace. Niente di più falso.

In un sistema in cui ciò che conta è il privato accumulo di capitale, si produce un fenomeno speculativo in cui la libertà finanziaria schiaccia tutte le altre libertà.

Secondo Blanchard, solo una rivoluzione potrà scacciare la catastrofe. Ma quale rivoluzione?

E qui si arriva al secondo ramo della biforcazione. La rivoluzione che ha in mente Blanchard non ha nulla a che vedere con una rivoluzione di stampo socialista; è, piuttosto, una tiepida rievocazione del keynesismo tipico dell’età dell’oro del secolo breve. Una rievocazione di politiche monetarie e fiscali più espansive e, se necessario, l’applicazione di controlli sui movimenti dei capitali. Quello che però può succedere nell’attuale fase storica del capitalismo è che un tale keynesismo, oltre ad essere vano, possa assumere una natura reazionaria e non rivoluzionaria.

Innanzitutto perché quella sintesi keynesiana fu l’esito, la sintesi dialettica potremmo dire, del forte conflitto tra lavoro e capitale, tra socialismo sovietico e capitalismo occidentale. E una sintesi keynesiana può assumere un senso progressivo soltanto sotto il pungolo del pericolo socialista. In caso contrario, si tratterebbe di un keynesismo ad uso e consumo dei capitali più deboli, che lo userebbero come strumento per reagire alla bulimia dei capitali più forti e si tradurrebbe in politiche dal carattere fortemente reazionario, xenofobo, nazionalistico. È quello che succede in Italia, in cui Lega e FdI si ergono a paladini della piccola e media borghesia contro le grandi multinazionali e i grandi capitali internazionali.

L’esito sarebbe, quindi, non più Keynes a braccetto con Marx, ma Keynes contro Marx.

Ancora una volta si produrrebbe una catastrofe: un circolo vizioso generato da un conflitto interno alle classi capitalistiche in cui le classi subalterne sono destinate a rivestire il ruolo di spettatori. Ma anche di vittime, in quanto, l’altra tendenza individuata da Brancaccio è quella di una polarizzazione delle classi e di un livellamento delle classi subalterne, sempre più uguali nello sfruttamento. Come evitare la catastrofe, attestato che la rivoluzione blanchardiana non farebbe altro che alimentare la catastrofe stessa?

Se è vero che le semplici politiche di reddito sono insufficienti e possono assumere il segno della reazione e se è vero che le politiche comuniste emergono con forza nel momento in cui più forte si fa la tragedia, è allora necessario, secondo Brancaccio, ripensare e attuare, attraverso lo sviluppo di un’intelligenza comune, una moderna pianificazione collettiva, intesa come sintesi tra pianificazione collettiva e libertà individuale: piano è libertà.

Questa di Brancaccio costituisce una suggestione che necessita certamente di ulteriori elaborazioni e approfondimenti, ma che ha il pregio, basandosi su una solida teoria della scienza economica (dura), di minare sia le fondamenta delle teorie dominanti, sia le convinzioni di quanti, seppur critici, ritengono sufficiente opporre una moneta nazionale alla moneta unica europea per risolvere i problemi di un capitalismo nazionale in perenne crisi. Ma ha anche il merito, a ben vedere, di indicare una via che, a trent’anni dalla fine del socialismo sovietico e dopo decenni di asfissiante dominio neoliberista, sia in grado di far tesoro delle esperienze passate e di liberarci dall'influenza ideologica che gli attuali rapporti di forza economico/sociali esercitano sulle nostre formae mentis. Un seme che, naturalmente, sta a noi tutti rendere fecondo.

 

[1]Rimando allo studio di E. Brancaccio e R. Giammetti, Sul trade-off pandemico tra salute e produzione, in Idd., Anti-Blanchard, FrancoAngeli, 2020 quinta edizione. In questo studio, gli autori sostengono che il trade-off pandemico non è ineluttabile ma dipende da precise scelte politiche che, modificando quello che definiscono il vincolo economico-scientifico, potrebbero condurre ad una situazione in cui si abbia una contemporanea riduzione della disoccupazione e della percentuale delle potenziali vittime del Covid-19.

[2]E. Brancaccio, Anti-Blanchard, uno studio comparato alla macroeconomia, FrancoAngeli 2021.

[3]E. Brancaccio, R. Bellofiore, Il Granello di Sabbia, Feltrinelli, Milano 2012.

[4]Nel 2010, diversi economisti, tra questi anche Emiliano Brancaccio, pubblicheranno una lettera di critica alle politiche restrittive e di austerità, http://www.letteradeglieconomisti.it

[5]E. Brancaccio e M. Passarella, L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa, Il Saggiatore, Milano 2012.

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