Jacques Pauwels *

 

Riflessioni ispirate da un nuovo libro di Annie Lacroix-Riz, Le origini del piano Marshall, Arman Colin, Malakoff, 2023.

L'estate scorsa, viaggiando in auto da Parigi a Nizza e attraversando quella che i parigini chiamano “la France profonde” (la Francia profonda), non ho potuto fare a meno di notare quanto la Francia sia ormai stata quasi del tutto americanizzata. Il paesaggio in Borgogna e in Provenza è bello come sempre e le città vecchie sono tuttora estremamente pittoresche, ma nell'entrarci, se non in tutte, ma di sicuro nella grandissima parte, si percorre un vialone sul quale sono allineati distributori di carburante, furgonati che offrono hamburgher e altro “cibo spazzatura”, concessionari d'auto, ipermercati nei quali all'interno si contano esattamente gli stessi negozi, degli stessi brand, che si trovano nei centri commerciali dall'altra parte dell'Atlantico mentre musica e canzoni vengono diffuse, non di Edith Piaf ma di Taylor Swift. Ho cercato di capire di più sul perché, sul quando e su come questa “Coca-Colonizzazione” della Francia sia iniziata ed è capitato che ho trovato la risposta in un libro che da poco aveva fatto la sua comparsa in libreria. Era stato scritto dalla storica anticonformista francese Annie Lacroix-Riz, autrice di alcune altre notevoli opere, e il suo titolo prometteva di fare chiarezza sulle origini del famoso Piano Marshall del 1947.

La storia degli Stati Uniti è piena di miti, come quello secondo cui la conquista del Selvaggio West fu un'impresa eroica oppure che il paese entrò nella Prima Guerra Mondiale per la difesa della democrazia o che la Bomba di Oppenheimer annichilì 100.000 persone ad Hiroshima solamente per costringere Tokio alla resa, salvando in questo modo un numero verosimilmente sterminato di vite sia di civili giapponesi che di soldati americani. Un altro di questi miti riguarda “l'aiuto” americano all'Europa negli anni successivi la Seconda Guerra Mondiale, designato con il termine European Recovery Program (Programma per la Ripresa Europea), ma più noto come Piano Marshall, perché era stato George C. Marshall, l'ex capo di stato maggiore dell'esercito e Segretario di Stato dell'amministrazione Truman, ad avere formalmente lanciato il progetto in un discorso tenuto all'Università di Harvard il 5 giugno 1947.

Il mito, sorto quasi istantaneamente, sul Piano Marshall afferma che, dopo avere sconfitto i nazisti cattivi, presumibilmente più o meno con una mano sola, mentre gli americani si preparavano a ritornare in patria per farsi i propri affari, lo Zio Sam improvvisamente comprese che gli sfortunati europei, esausti per i sei anni di guerra, per rimettersi in piedi avevano bisogno del suo aiuto. E così, disinteressatamente e generosamente, decise di far piovere su di loro grandi quantità di denaro che Gran Bretagna, Francia e altri paesi dell'Europa occidentale accettarono con entusiasmo e usarono per ritornare non solo alla prosperità, ma anche alla democrazia.

Gli “aiuti” dispensati sotto gli auspici del Piano Marshall, pertanto, risultavano essere al pari di una libera elargizione di denaro. Per un certo periodo trapelò anche che le cose non erano del tutto così semplici e che il Piano ambiva tra l'altro a conquistare il mercato europeo per esportarvi prodotti e capitali d'investimento americani e che si poneva pure degli obiettivi politici, ad esempio quello di impedire le nazionalizzazioni e quello di contrastare l'influenza sovietica.[1] Nonostante ciò, il mito originale sul Piano Marshall venne tenuto ben vivo da autorità politiche, da accademici e dai più importanti mezzi di comunicazione di massa su entrambe le sponde dell'Atlantico. Vediamo tuttora il riflesso di questo nei consigli che si avanzano da più parti secondo cui l'Ucraina e altri paesi che sono in drammatiche situazioni economiche hanno bisogno di un nuovo Piano Marshall.[2]

Indagini storiche critiche svelano, piuttosto, la natura illusoria del mito che venne intessuto attorno al Piano Marshall. Proprio l'anno scorso, la storica francese Annie Lacroix-Riz ha presentato il risultato di una sua ricerca, che si concentra su fatti antecedenti il Piano ma, benché il suo libro sia comprensibilmente focalizzato sul caso francese, si dimostra assai utile per la comprensione del modo in cui altri paesi europei, dalla Gran Bretagna al Belgio, alla Germania (occidentale), siano diventati destinatari di questo tipo di “aiuto americano”.

Il libro della Lacroix-Riz ha il merito di far vedere lo schema su cui si basa il Piano Marshall in una prospettiva di longue durée, ossia di spiegarlo non come un evento specifico e singolare associato al secondo dopoguerra, ma come parte di uno sviluppo storico di lungo termine, in altre parole, quello dell'espansione mondiale dell'industria e della finanza americana ossia quello dell'emergere e dell'espandersi dell'imperialismo americano. Si può dire che questo sviluppo è partito proprio alla fine del diciannovesimo e precisamente quando lo Zio Sam ha conquistato le Hawaii nel 1893 e poi, con una “splendida piccola guerra” combattuta contro la Spagna nel 1898, si intascò Cuba, Porto Rico e le Filippine. La finanza, l'industria e il commercio, in altri termini, il capitalismo americano poté così allargarsi con attività vantaggiose nei Caraibi, nel Pacifico e nell'Estremo Oriente. L'accesso privilegiato alle risorse e ai mercati di regioni lontanissime, in aggiunta al già gigantesco mercato interno, trasformò gli Stati Uniti in una delle più grandi potenze industriali, in grado di sfidare persino Gran Bretagna, Germania e Francia. Ma contemporaneamente stava succedendo che anche le grandi potenze europee si stavano espandendo su scala mondiale, diventavano “imperialiste”, in primo luogo soprattutto aggiungendo nuovi territori al loro carnet, già molto nutrito, di possedimenti coloniali.

Le potenze imperialiste diventarono via via sempre più dei competitori, dei rivali, a volte antagoniste altre volte alleate, nella corsa spietata per la supremazia capitalista, ideologicamente alimentata dalle prevalenti idee del darwinismo-sociale e dalla sua “lotta per la sopravvivenza”.

La situazione portò alla Grande Guerra del 1914-1918. Gli Stati Uniti intervennero in questo conflitto, ma piuttosto tardi, nel 1917, e lo fecero per due importanti ragioni: primo, per impedire che la Gran Bretagna fosse sconfitta e quindi le fosse reso impossibile ripagare le grandi somme di denaro che aveva preso a prestito dalle banche americane per acquistare forniture ed equipaggiamenti dagli industriali statunitensi, e secondo, perchè essere tra le potenze imperialiste vincitrici voleva dire essere in grado di reclamare una quota del bottino da dividere tra i vincitori, compreso ad esempio l'accesso al gigantesco mercato e alle vaste risorse della Cina.[3]

La Grande Guerra fu una manna del cielo per l'economia USA perché il commercio con gli alleati aveva prodotto grandi profitti. La guerra, inoltre, aveva provocato il ritiro di molti investimenti britannici dall'America Latina; questo favoriva la penetrazione economica e il dominio politico dello Zio Sam in questi paesi, realizzando l'aspirazione formulata all'incirca un secolo prima nella Dottrina Monroe del 1823. Gli Stati Uniti avevano fame di nuovi mercati per i loro prodotti - e per la crescente riserva di capitali d'investimento che si era formata - perché la sua industria era diventata super-produttiva grazie all'introduzione delle cosiddette tecniche fordiste, ossia, del sistema di produzione di massa avviato da Henry Ford nelle sue fabbriche d'automobili e compendiata dall'adozione della linea di montaggio. Il capitalismo americano poteva godere ora dell'enorme vantaggio dato dall' “economia di scala”, ossia dalla drastica diminuzione dei costi di produzione dovuta alla fabbricazione in grandissime quantità,[4] cosa che significava che gli industriali americani erano d'ora in avanti in grado di superare ogni concorrente sul libero mercato. È per questa ragione che il governo americano, il quale nel corso del XIX secolo - quando l'industria del paese era ancora in stato infantile - si era sempre affidato a politiche protezionistiche, si trasformò nel più appassionato apostolo del libero mercato, sistematicamente e con grande energia sempre alla ricerca di “porte aperte” all'esportazione dei suoi prodotti nel mondo.

Negli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale, tuttavia, la produttività industriale era cresciuta dovunque e questo aveva dato origine alla sovrapproduzione che, alla fine, aveva dato il via a una crisi economica mondiale, negli Stati Uniti nota come Grande Depressione. Tutte le grandi potenze industriali cercarono di proteggere le loro industrie creando delle barriere doganali che imponevano dazi sui prodotti importati, creando in questo modo proprio quello che gli uomini d'affari americani detestavano, ossia delle “economie chiuse”, che non si limitavano solo alle “madrepatrie” ma anche ai loro possessi coloniali, i cui mercati e ricchezze minerali sarebbero stati disponibili - con il libero mercato - anche per lo Zio Sam. Con gran dispetto dell'America, la Gran Bretagna introdusse nel suo impero un sistema altamente protezionista, indicato come il meccanismo delle “preferenze imperiali”. Anche gli Usa con la Legge sulle Tariffe Smoot-Hawley del 1930 cercarono di proteggere le proprie industrie con dazi all'importazione.

Nella notte buia della Grande Depressione, lo Zio Sam poteva scorgere un unico raggio di luce. Era quello che proveniva dalla Germania. Nel corso degli anni Venti, i profitti senza precedenti generati dalla Grande Guerra avevano consentito a numerose banche statunitensi e a grandi gruppi industriali come Ford di dare il via ad importanti investimenti in quel paese.[5] Questa “offensiva degli investimenti” è raramente citata nei libri di storia ma risulta di grande importanza per due ragioni storiche: da un lato segnava l'inizio dell'espansione transatlantica del capitalismo Usa e dall'altro individuava nella Germania “la testa di ponte” dell'imperialismo americano in Europa. I capitalisti divennero euforici nello scoprire che, anche negli anni della Grande Depressione, le loro sussidiarie nel “Terzo Reich” potevano realizzare affari eccellenti grazie al programma di riarmo di Hitler e in seguito con le sue successive guerre di conquista alle quali ditte come Ford e Standard Oil fornirono gran parte dell'equipaggiamento - compresi camion, mezzi corazzati, motori d'aereo, mitragliatrici - ed anche carburante.[6] Sotto il regime di Hitler, la Germania era e rimase un paese capitalista, come studiosi, ad esempio Alan S. Milward, un grande esperto inglese di storia economica del Terzo Reich, hanno sottolineato.[7]

Gli Stati Uniti non avevano alcun desiderio di mettersi a fare la guerra contro Hitler, che aveva dimostrato di “andare così bene per gli affari”. Fino alla fine del 1941 gli Usa non avevano mai predisposto alcun piano per un'eventuale azione militare contro la Germania e si sarebbero solo “trovati” in guerra contro il Terzo Reich, come dice uno storico americano, quasi per caso a causa dell'attacco giapponese a Pearl Harbor.[8] Il conflitto scatenato da Hitler, comunque, creò per gli Stati Uniti favolose opportunità per scassare le serrature delle “economie chiuse” e installare al loro posto delle “porte aperte”. Contemporaneamente, la guerra permise allo Zio Sam di assoggettare economicamente, e perfino politicamente, alcuni dei suoi maggiori concorrenti nella grande gara delle maggiori potenze per la supremazia, una competizione che, aveva dato il via alla Prima Guerra Mondiale, ma che aveva lasciata irrisolta, alla fine di quel conflitto, nel 1918, la questione del vincitore di quella corsa, tanto da poter dire che fu proprio quello il motivo che accese le polveri di un'altra guerra nel 1939.

Il primo paese ad essere trasformato in stato vassallo dello Zio Sam fu la Gran Bretagna. Dopo la caduta della Francia, nell'estate del 1940, rimasta sola ad affrontare la terrificante potenza del Reich di Hitler, l'ex Numero Uno delle potenze industriali dovette andare con il cappello in mano negli Usa per farsi prestare dalle banche americane ingenti somme di denaro da usarsi per comprare forniture belliche e carburante dai grandi gruppi industriali Usa. Washington consentì di estendere tali “aiuti” alla Gran Bretagna secondo uno schema che divenne noto con il nome di Lend-Lease (Affitto-Prestito). I prestiti che venivano concessi, comunque, dovevano essere ripagati e con l'aggiunta degli interessi, ma furono anche soggetti a delle condizioni, come quella della promessa abolizione del sistema delle “preferenze imperiali”, che assicuravano che la Gran Bretagna e il suo impero avrebbero cessato di essere delle “economie chiuse” e avrebbero invece aperto le loro porte ai prodotti industriali e ai capitali d'investimento americani. Come risultato del Lend-Lease, la Gran Bretagna si sarebbe trasformata in quello che in una impresa si chiama socio di minoranza, in questo caso dello Zio Sam, non solo economicamente, ma anche politicamente e militarmente. O, come sostiene Annie Lacroix-Riz nel suo nuovo libro, i prestiti Lend-Lease alla Gran Bretagna furono l'annuncio dell'inizio della fine dell'Impero Britannico.[9]

Zio Sam era comunque determinato ad usare il libero mercato per proiettare la sua potenza economica, ed anche politica non solo sulla Gran Bretagna, ma sul maggior numero di paesi possibili.[10] Nel luglio 1944, ad una conferenza tenuta nella città di Bretton-Woods nel New Hampshire, quarantaquattro stati, tra cui tutti quelli che a causa della guerra si trovavano in precarie condizioni economiche e pertanto dipendevano dall'aiuto americano, vennero indotti ad adottare i principi di un nuovo ordine economico basato sul libero scambio. Gli Accordi di Bretton-Woods elevarono il dollaro al rango di “moneta internazionale di riserva” e crearono il meccanismo istituzionale che doveva mettere in pratica i principi della nuova politica economica, soprattutto il Fondo Monetario Internazionale (IMF - International Monetary Fund) e la Banca Mondiale (World Bank), le cosiddette organizzazioni internazionali che sono sempre state dominate dagli Stati Uniti.

Nel suo nuovo libro, Lacroix-Riz fa frequenti cenni all'ostinazione con cui nel dopoguerra gli americani cercarono di imporre il principio del libero commercio in generale, ma poi naturalmente la sua attenzione si concentra soprattutto sul caso della Francia, diverso da quello di Gran Bretagna o del Belgio. Perché? Dopo la sua disfatta nel 1940, la Francia e il suo impero coloniale sarebbero rimasti a lungo sotto l'autorità del governo presieduto dal generale Pétain, insediatosi nella città di Vichy e in stretta collaborazione con la Germania nazista. L'amministrazione Roosevelt riconobbe formalmente questo regime come governo legittimo della Francia e continuò a farlo persino dopo che gli Usa, nel dicembre del 1941, entrarono in guerra contro la Germania e, di conseguenza, Washington rifiutò il suo riconoscimento al governo dei “Liberi Francesi” di De Gaulle che era in esilio a Londra.

Fu soltanto dopo lo sbarco delle truppe anglo-americane in Africa e l'occupazione di colonie francesi nell'autunno del 1942, che le relazioni tra Washington e Vichy vennero interrotte, non dagli Usa ma da Pétain. Sotto gli auspici degli americani, ora de facto padroni delle colonie francesi nel Nord Africa, un governo provvisorio francese, il Comitato di Liberazione Nazionale (Comité français de Libération nationale, CFLN) venne costituito ad Algeri nel giugno 1943. Questo nuovo governo rifletteva una difficile fusione tra esponenti dei Liberi Francesi di De Gaulle e le autorità civili e militari già presenti ad Algeri, in precedenza fedeli a Pétain, ma ora schierati dalla parte degli Alleati. Gli americani, comunque, fecero in modo che fosse diretto non da De Gaulle ma dal generale François Darlan, un ex pétainista.

Darlan fu uno dei numerosi generali e alti funzionari di Vichy riciclati che, a partire dall'estate del 1941 o al più tardi dalla fine della battaglia di Stalingrado, intuirono che la Germania avrebbe perso la guerra. Costoro speravano che una liberazione della Francia da parte degli americani avrebbe impedito alla Resistenza, diretta dai comunisti, di arrivare al potere e mettere in atto riforme politiche ed economiche anti-capitaliste radicali o persino anche rivoluzionarie. Questi ex sostenitori di Vichy, rappresentanti di una borghesia francese che aveva prosperato sotto Pétain, temeva che “una rivoluzione avrebbe potuto scoppiare non appena i tedeschi si fossero ritirati dal territorio francese” e ambivano alla sostituzione della Germania nazista con gli Usa come nuovo “tutore” della Francia e protettore dei loro interessi di classe.[11] Di contro, gli americani, che avevano capito come questi ex pétainisti sarebbero stati soci assai ben disponibili nei loro confronti, ignorarono o dimenticarono i peccati che questi ultimi avevano compiuto in quanto collaborazionisti e li etichettarono come dei rispettabili di “conservatori” o “liberali” e decisero che fossero loro, e non i gollisti o altri leader della Resistenza, a ricoprire le posizioni di potere.

La “nomina” americana di Darlan fruttò virtualmente subito, per la precisione il 25 settembre 1943, quando il governo provvisorio francese firmò un accordo Lend-Lease con gli Stati Uniti. Le condizioni di questa intesa erano simili a quelle stipulate nel Lend-Lease con la Gran Bretagna e quelli che sarebbero stati sanciti l'anno seguente a Bretton-Woods, per la precisione “porte aperte” per i mercati e le risorse della Francia e del suo impero coloniale ai gruppi industriali e alle banche Usa. Questi accordi, eufemisticamente detti di “reciproco aiuto” non erano in realtà che il primo passo in una successiva serie di patti che sarebbe culminata con la firma di adesione da parte della Francia al Piano Marshall e con l'imposizione alla Francia di quello che Lacroix-Riz descrive come “una dipendenza di tipo coloniale.”[12]

L'amministrazione Roosevelt avrebbe preferito continuare a trattare con gli ex collaborazionisti francesi, ma quella scelta suscitò critiche serie sia negli Stati Uniti che nella stessa Francia. Nell'ottobre 1944, dopo lo sbarco in Normandia e la liberazione di Parigi, de Gaulle venne alla fine riconosciuto da Washington come capo del governo provvisorio francese, perché due cose erano diventate chiare. Primo, dalla prospettiva del popolo francese, gli veniva riconosciuto il merito di poter fare parte del nuovo governo sia per la reputazione che, diversamente da quella dei pétainisti, non era macchiata dal collaborazionismo ma anche soprattutto per il grande prestigio che gli derivava dall'essere stato uno dei capi della Resistenza. Secondo, dal punto di vista americano De Gaulle era accettabile in quanto personalità conservatrice e perché era deciso a non procedere con la nazionalizzazione di banche e imprese e altre riforme socio-economiche radicali, potenzialmente rivoluzionarie, messe in cantiere dai comunisti. D'altro canto gli americani continuarono ad avere frizioni con il Generale. Sapevano molto bene, infatti che, in quanto nazionalista francese, si sarebbe opposto ai loro piani di apertura delle porte della Francia e del suo impero alla penetrazione economica e, inevitabilmente, politica dell'America. Avevano anche compreso che, una volta terminato il conflitto, avrebbe reclamato delle riparazioni finanziarie ed industriali e persino concessioni territoriali dalla Germania sconfitta, rivendicazioni che andavano contro quelli che lo zio Sam percepiva come interessi vitali dell'America. Diamo una rapida occhiata a questo aspetto.

Sappiamo che nella Germania nazista molti stabilimenti industriali erano delle filiali di grandi imprese americane e che non erano stati espropriati neppure quando gli Stati Uniti erano entrati in guerra contro la Germania. I grandi profitti che avevano accumulato erano stati in gran parte reinvestiti in Germania, mentre i danni di guerra sofferti dagli impianti industriali di questi gruppi erano relativamente modesti, principalmente perché erano stati in gran parte intenzionalmente risparmiati dalle bombe alleate.[13] E così, al termine del conflitto, gli investimenti americani in Germania risultavano quasi intatti, anzi spesso accresciuti e comunque potenzialmente pronti a macinare maggiori profitti che in precedenza. Questo voleva dire che, in quanto testa di ponte dell'imperialismo Usa in Europa, la Germania era più importante che mai. Lo Zio Sam era deciso a sfruttare a pieno i vantaggi di questa situazione, che richiedeva due cose: primo, prevenire cambiamenti sociali ed economici di tipo anti-capitalista non solo in Germania, ma in tutti gli altri paesi europei compresa la Francia, i cui mercati e risorse - sia interne che coloniali - ci si aspettava venissero aperti ai prodotti e agli investimenti americani. Secondo: assicurarsi che la Germania non dovesse pagare riparazioni significative, meglio ancora sarebbe stato che non dovesse ripagare nulla, ai paesi vittime del furor teutonicus, dal momento che questo avrebbe rovinato le prospettive di profitto di tutte le imprese tedesche, comprese quelle di proprietà americana.[14]

Per raggiungere il primo di questi obiettivi in Francia, gli americani potevano contare sulla collaborazione del governo del conservatore De Gaulle, tanto più da quando, come condizione per venire alla fine “benedetto” da Washington nell'autunno del 1944, era stato costretto a riciclare innumerevoli ex generali pétainisti, politici, funzionari d'alto rango, banchieri ed industriali importanti, e accettare molti di loro come membri del suo governo. Dopo anni di occupazione tedesca e il governo del regime di Vichy, di vera destra, i francesi, non la borghesia benestante, ma la massa della popolazione normale viveva più o meno in un'atmosfera di diffuso sentimento anti-capitalista. De Gaulle non era in grado di resistere alle concomitanti intense richieste di riforme, che chiedevano la nazionalizzazione delle fabbriche di automobili del signor Renault, notorio collaborazionista, e l'introduzione di misure e servizi sociali simili a quelli che erano stati concessi in Gran Bretagna dopo l'avvento al potere del partito laburista nell'estate del 1945, diventate note come il Welfare State. Dalla prospettiva degli americani, la situazione diventò persino peggiore dopo le elezioni del 21 ottobre 1945, quando il Partito Comunista conquistò un gran numero di seggi e de Gaulle dovette far posto nel suo governo ad alcuni ministri comunisti. Un altro motivo dell'avversione americana per de Gaulle fu che era un nazionalista francese, determinato a fare della Francia di nuovo una grande nation, a ripristinare il pieno controllo sui suoi possedimenti coloniali, e, da ultimo ma non per importanza, a reclamare riparazioni finanziarie ma presumibilmente anche territoriali dalla Germania. Queste aspirazioni erano conflittuali rispetto alle attese degli americani di “porte aperte” anche nelle colonie delle grandi potenze e, ancor di più, con i loro piani nei confronti della Germania.

Possiamo così comprendere il trattamento da matrigna che Washington riservò nel 1944-1945 a una Francia che era economicamente in grandissime difficoltà dopo anni di guerra e occupazione. Fin dall'autunno del 1944, Parigi venne informata che non ci sarebbero state riparazioni tedesche e fu invano che de Gaulle rispondesse flirtando brevemente con l'Unione Sovietica, persino concludendo un “patto” con Mosca che si sarebbe dimostrato “nato morto”, secondo Lacroix-Riz.[15] Quanto all'urgente richiesta francese di crediti americani per un altrettanto impellente necessità di prodotti alimentari, industriali e forniture per l'agricoltura, non produsse nessuna specie di “regali spontanei”, come di solito si ritiene, per motivi che saranno chiariti in seguito, ma solo consegne di prodotti di cui c'era eccesso negli Stati Uniti e prestiti, ma tutti da pagarsi in dollari e a prezzi inflazionati. Lacroix-Riz sottolinea che “la consegna gratuita di mercanzie alla Francia da parte dell'esercito americano o di qualsiasi altra organizzazione civile, non ebbe mai luogo”.[16]

Gli americani erano chiaramente motivati dal desiderio di dimostrare a de Gaulle e ai francesi in generale chi era a comandare nel paese, ora che i tedeschi se ne erano andati. (De Gaulle di sicuro capì la situazione in questo modo: spesso riferendosi agli sbarchi in Normandia ne parlava come una seconda occupazione e non fu mai presente ad alcuna commemorazione del D-Day che si teneva ogni anno.) Non è una coincidenza che il diplomatico americano nominato inviato in Francia nell'autunno del 1944 sia stato Jefferson Caffery, che aveva grande esperienza nel signoreggiare sulle “repubbliche delle banane” latino-americane dall'ambasciata Usa presente in ciascuna loro capitale.[17]

De Gaulle presiedette una coalizione di governo che comprendeva tre partiti, i gollisti cristiano-democratici (MRP - Movimento Popolare Repubblicano), il Partito Socialista, allora ancora noto come Sezione Francese dell'Internazionale Operaia (SFIO), e il Partito Comunista (PCF). Il generale si dimise da capo di governo il 20 gennaio 1946, ma il “tripartito” continuò con una serie di governi presieduti da socialisti come Félix Gouin o esponenti dell'MRP come Georges Bidault. Un altro socialista, Paul Ramadier, avrebbe guidato l'ultimo governo tripartito dal gennaio fino all'ottobre 1947. Il 4 maggio di quell'anno pose fine al tripartito con l'espulsione dei comunisti dal suo governo.

Con il fastidioso de Gaulle fuori dai piedi, gli americani trovarono molto più facile procedere con il loro piano di “aprire le porte” della Francia e penetrare l'ex grande nation economicamente, ma anche politicamente. E riuscirono in questo intento utilizzando a pieno il vantaggio offerto dai problemi economici post-bellici del paese e dalla sua urgente necessità di crediti per acquistare ogni sorta di prodotti agricoli e industriali, compresi alimentari e carburanti, e per la sua ricostruzione finanziaria. Gli Stati Uniti, che erano emersi dal conflitto come la superpotenza economica e finanziaria mondiale e il paese di gran lunga più ricco, era in grado e disponibile a fornire aiuto, ma solo alle condizioni già applicate negli accordi Lend-Lease, delineati e sanciti nella Convenzione di Bretton-Woods, condizioni che assicuravano di trasformare il beneficiario, in questo caso la Francia, in un vassallo dello Zio Sam - e un alleato nella sua nuova guerra “fredda” contro l'Unione Sovietica.

Agli inizi del 1946, Léon Blum, un leader socialista di alto profilo che aveva guidato il famoso governo di Fronte Popolare nel 1936, venne inviato negli Usa per negoziare un accordo con il Segretario di Stato di Truman, James F. Byrnes. Blum fu accompagnato da un seguito di importanti politici, diplomatici e alti funzionari. Tra di loro Jean Monnet, l'agente del CFLN incaricato delle forniture (ravitaillement), che era stato il supervisore per l'acquisto di armi e altri equipaggiamenti negli Stati Uniti, dove aveva sviluppato una grande ammirazione per quel paese e per le cose americane in genere. Questi negoziati si trascinarono per mesi, ma alla fine produssero un accordo che venne firmato il 28 maggio 1946 e subito ratificato dal governo francese. L'accordo Blum-Byrnes venne diffusamente percepito come una splendida intesa che comprendeva il dono di milioni di dollari, prestiti a basso tasso d'intersse, forniture a costi bassi di ogni sorta di alimenti essenziali, apparecchiature industriali e fu proclamato dallo stesso Blum come “un'immensa concessione” da parte degli americani.[18]

Lacroix-Riz dissente e dimostra che negli incontri tra Byrnes e Blum non ci furono veri negoziati, ma si trattò di un diktat americano, riflesso del fatto che la parte francese “capitolò” e accettò docilmente tutte le condizioni accluse dagli americani al loro pacco di “aiuti”. Queste condizioni comprendevano l'acquisto da parte francese, e a prezzi inflazionati, di ogni sorta di inutili “surplus” militari che l'esercito statunitense aveva in Europa quando la guerra era giunta al termine, spregiativamente indicato da Lacroix-Riz come “invendibile ferraglia”.[19] Centinaia di mercantili di bassa qualità noti come Liberty Ships (navi della libertà) vennero imposti allo stesso modo ai francesi. Le forniture inviate in Francia comprendevano ben poco di quello che il paese realmente necessitava, ma quasi esclusivamente merci dei quali c'era sovrabbondanza negli Stati Uniti. Infatti, a causa del declino della domanda dovuta al fatto che la guerra era terminata, economisti, uomini d'affari e politici temevano che l'America potesse di nuovo scivolare nella depressione, che portava disoccupazione, problemi sociali e persino richieste di cambiamenti radicali, come era stato nei “rossi anni Trenta” cavalcati dalla Depressione.[20] La sovrapproduzione post-bellica costituiva un importante problema per gli Usa e, come scrive Lacroix-Riz, continuò ad essere “estremamente preoccupante nel 1947”, ma le esportazioni verso l'Europa sembravano offrire una soluzione al problema e aggiunge “lo stadio finale della frenetica ricerca di una soluzione al problema della sovrapproduzione postbellica” sarebbe risultato essere il Piano Marshall, ma è chiaro che gli Accordi Blum-Byrnes erano già stati il primo passo in quella direzione.[21]

Inoltre, i pagamenti per i prodotti americani dovevano essere fatti in dollari, che la Francia era costretta a procurarsi esportando negli Usa a prezzi il più possibile bassi dato che gli americani non avevano alcuna urgenza di importazioni francesi e pertanto godevano del vantaggio del “mercato dell'acquirente” ossia del prezzo dei beni stabilito da chi comprava. La Francia doveva anche aprire le porte alle produzioni di Hollywood, che costituiva un grave danno per la sua industria cinematografica. Virtualmente l'unica concessione dell'accordo fu che la roduzione francese avrebbe ricevuto pubblica attenzione e questo è quello che si ricorda oggi. (La voce di Wikipedia sull'Accordo Blum-Byrnes tratta quasi esclusivamente solo questo tema.)[22] Un'altra condizione fu che la Francia avrebbe compensato i grandi gruppi industriali Usa come Ford per i danni subiti dalle loro filiali francesi, anche se i danneggiamenti in gran parte erano stati dovuti ai bombardamenti dell'Aviazione militare americana. (Per inciso, durante la guerra, Ford France aveva prodotto equipaggiamenti per Vichy e per la Germania nazista ed ottenuto per questa via grandi profitti.)[23]

Per quanto riguarda la parte finanziaria, la voce di Wikipedia riecheggia una credenza ampiamente diffusa quando suggerisce che l'accordo comportava “l'eradicazione” dei debiti che la Francia aveva accumulato in precedenza, ossia secondo le condizioni dell'accordo di Lend-Lease firmato ad Algeri. A un attento esame, risulta però che Wikipedia scrive semplicemente che l'accordo “ambiva a (corsivo aggiunto) eradicare” quei debiti, ma non dice mai se quell'obiettivo venne veramente raggiunto.[24] Secondo Lacroix-Riz, non lo fu e chiama la “cancellazione” (effacement) del debito della Francia un frutto dell'immaginario americano, oltre a sottolineare come la nozione che favolosi nuovi crediti sarebbero stati pianificati risultò solamente un pio desiderio. La sua categorica conclusione è che oltre ai prestiti con le onerose condizioni accluse, “le ‘negoziazioni’ non aveva portato nessun altro credito” (Les négotiations ne débouchèrent sur aucun crédit).[25]

Ne segue che la ricostruzione economica della Francia, tanto rapida in confronto alla ripresa industriale del paese successiva al 1918, non fu dovuta alla generosità di un benefattore straniero, lo Zio Sam, ma fu in gran parte il risultato finale degli sforzi “stakhanovisti” dei lavoratori francesi, che miravano a ripristinare in generale le industrie del paese, con la cosiddetta “Battaglia della Produzione” (bataille de la production) che ebbe successo specialmente nel campo, allora cruciale, della produzione di carbone nelle miniere nazionalizzate. Anche se questa “battaglia” andò certamente a vantaggio dei proprietari capitalisti delle fabbriche, venne orchestrata dal Partito Comunista, un membro del governo “tripartito”, perché i suoi leader erano del tutto convinti che “l'indipendenza politica di un paese richiede la sua indipendenza economica”, e che affidarsi agli “aiuti” americani significava subordinare la Francia agli Usa.[26] (Per inciso, gran parte se non la totalità del denaro preso a prestito dagli Stati Uniti non venne investito nella ricostruzione della Francia, ma nel tentativo costoso, sanguinoso e alla fine destinato al fallimento di tenersi ben stretto il “gioiello della corona” tra i suoi estesi possedimenti coloniali, ossia l'Indocina.)

Che la ricostruzione economica postbellica della Francia non sia stata dovuta agli “aiuti” americani è del tutto logico. Dalla prospettiva di Washington, l'obiettivo degli Accordi Blum-Byrnes e, successivamente, il Piano Marshall, non riguardava in alcun modo la cancellazione del debito o l'aiuto alla Francia in un qualche altro modo perché si potesse riprendere dal trauma della guerra, ma quello di aprire i mercati del paese (e naturalmente quelli delle sue colonie) e integrarli nell'Europa post-bellica - per ora certo solo l'Europa occidentale - che doveva essere capitalista, come gli Stati Uniti, e controllata dagli Usa dalla loro testa di ponte in Germania. Con la firma degli Accordi Blum-Byrnes, che comprendevano l'approvazione da parte della Francia sul fatto che non ci sarebbero state riparazioni tedesche, quell'obiettivo era virtualmente acquisito. Le condizioni annesse agli accordi infatti contenevano una garanzia dei negoziatori francesi che d'ora in avanti la Francia avrebbe praticato una politica di libero scambio e che non ci sarebbero state ulteriori nazionalizzazioni come quelle che, quasi immediatamente dopo la liberazione del paese, avevano interessato il costruttore d'auto Renault come pure i privati proprietari delle miniere di carbone e i produttori di gas ed elettricità. Le condizioni allegate, inoltre, mettevano al bando ogni altra misura che lo zio Sam percepiva come anti-capitalista, indipendentemente dalle intenzioni e dalle preferenze del popolo francese, noto all'epoca per una forte propensione a favore di riforme sia socio-economiche che politiche.[27]

Come riuscì Blum e il suo seguito a coprire la sua “capitolazione” e presentarla all'opinione pubblica francese come una vittoria, “un evento felice” (un évènement heureux) per il paese?[28] E perché si mentì tanto sfacciatamente sui suoi risultati e sulle condizioni allegate? Anche a queste due domande il libro della Lacroix-Riz dà una risposta.

In primo luogo, le informazioni sugli Accordi Blum-Byrnes fornite dalla parte francese, riecheggiate in tono entusiasta sulla maggior parte della stampa, escluse le pubblicazioni comuniste, contenevano esagerazioni, sottovalutazioni, omissioni di ogni tipo, persino palesi falsità, in altri termini, era il risultato del trattamento dell'informazione ora noto come spin. I maghi della finanza e altri “esperti” tra gli alti funzionari della burocrazia presenti nel seguito di Blum si dimostrarono eccellenti maestri di “spin” e riuscirono a richiamarsi ad ogni specie di artificio per ingannare l'opinione pubblica e l'elettorato”, compreso quello di rendere opachi dettagli cruciali dell'accordo.[29] I francesi vennero rassicurati con un linguaggio vago ma eufemistico che il loro paese sarebbe stato regalmente beneficiato dalla generosità Zio Sam. Si fece riferimento ai molti milioni di dollari di crediti futuri, senza condizioni , ma non venne detto che quel flusso di dollari non era assolutamente garantito e che realisticamente non ci si poteva attendere che stesse per arrivare. Allo stesso modo alle riparazioni tedesche, sotto forma di consegne di carbone, si accennò in termini vaghi, anche se i negoziatori erano al corrente che non si trattava altro che di un pio desiderio.[30]

Sulle altre condizioni imposte ed allegate all'accordo, d'altro canto, l'opinione pubblica francese non venne affatto informata, in modo tale che non ebbe alcuna idea del fatto che il loro grande e potente paese stava per essere retrocesso alla stato di vassallo dello Zio Sam. Il testo portato alla ratifica - nella sua integrità o per niente![31] -all'Assemblea Nazionale era lungo, vago, contorto, scritto in un modo come per confondere i non-esperti, e con le informazioni più importanti sepolte nelle note, nelle appendici e negli allegati segreti. Leggendolo nessuno si sarebbe accorto che tutte le più dure condizioni imposte dagli americani erano state accettate, anche quelle che risalivano all'accordo concluso con Darlan nel novembre 1942.[32]

Dato che Blum e i suoi colleghi sapevano sin dall'inizio che non avrebbero avuto altra scelta se non accettare il diktat americano nella sua interezza, il loro soggiorno transatlantico avrebbe potuto essere più breve, ma venne tirato per le lunghe per molte settimane per creare l'impressione di un negoziato duro e minuzioso. Le trattative vennero rappresentate con larghezza di “fumo e specchi”, comprese visite (con foto dei negoziatori) a Truman, interviste che davano origine ad articoli che esaltavano Blum come “figura emblematica della Resistenza francese” e “una delle più potenti personalità del momento”, e un viaggio collaterale di Blum in Canada, fotogenico ma del tutto inutile se non in termini di pubbliche relazioni.[33]

La conclusione di Lacroix-Riz è spietata. Blum, scrive, si rese colpevole della “massima disonestà” e fu responsabile di un “gigantesco inganno”.[34] La farsa, comunque, funzionò meravigliosamente, anche beneficiando della collaborazione degli americani, che cinicamente pretendevano di essere stati persuasi a fare importanti concessioni dai loro interlocutori francesi brillanti ed esperti. Lo fecero perché in Francia si stavano avvicinando le elezioni e una veritiera descrizione del risultato dei negoziati avrebbe portato grano al mulino dei comunisti e potrebbe anche avere messo a rischio la ratifica dell'accordo.[35]

Lacroix-Riz sottolinea come gli storici in Francia, negli Stati Uniti e nel resto del mondo occidentale, con l'eccezione dei “revisionisti” propri dell'America, come Kolko, abbiano in modo simile distorto la storia degli Accordi Blum-Byrnes e li abbiano glorificati come strumenti meravigliosamente utili per la ricostruzione post-bellica della Francia e la modernizzazione della sua autonomia. Lacroix-Riz descrive come questo fu principalmente dovuto al fatto che la stessa storiografia francese venne “atlanticizzata”, ovvero americanizzata, con il supporto finanziario della CIA e delle sue presunte ancelle private, tra cui la Fondazione Ford.[36]

Anche gli inglesi non erano riusciti a respingere le stringenti condizioni annesse al contratto di Lend-Lease del 1941, ma questo era avvenuto durante la guerra, quando Londra combatteva per la sopravvivenza e non aveva altra scelta che accettare. Ma, nel 1946, la Francia non poteva invocare questa scusa. E così ci si chiede cosa motivò Blum, Monnet e i suoi colleghi a “capitolare” e accettare tutte le condizioni americane? Lacroix-Riz fornisce una risposta persuasiva: perché condividevano la primaria preoccupazione dello Zio Sam sulla Francia e precisamente l'impazienza di preservare lo status-quo sociale-economico capitalista del paese, in una situazione post-bellica in cui la popolazione francese manifestava ancora in gran parte umori e tendenze se non rivoluzionarie certamente riformiste, con i comunisti estremamente popolari e influenti. “Nient'altro - sottolinea - può spiegare l'accettazione sistematica delle draconiane condizioni [americane]”.[37]

La preoccupazione di preservare l'ordine socio-economico in essere è comprensibile nel caso provenga dai colleghi conservatori di Bloch, rappresentanti della parte MRP nel governo tripartito, il “gollista” MRP, che annoverava parecchi pétainisti riciclati. É allo stesso modo pare comprensibile nel caso dei diplomatici d'alto rango e altri funzionari presenti al seguito di Blum. Questi burocrati erano tradizionalmente difensori dell'ordine stabilito e molti se non la maggior parte di loro erano stati lieti di fornire i loro servizi a Pétain. Dopo Stalingrado al più tardi, tuttavia, avevano trasferito la loro lealtà allo Zio Sam e così erano diventati gli “araldi europei del libero mercato di stile americano” (hérauts européens du libre commerce américan) e, più in generale, “atlantisti” pro-americani, una specie da cui Jean Monnet è emerso come esempio per eccellenza.[38]

Il Partito Comunista era un membro del governo tripartito ma, scrive Lacroix-Riz, “era sistematicamente escluso dalle sue “strutture decisionali”[39] e non aveva rappresentanti nel seguito dei negoziatori, ma la sinistra vi era rappresentata dai socialisti guidati da Blum. Perché anche loro non esercitarono alcuna significativa resistenza alle richieste americane? Sulla scia della Rivoluzione russa, il socialismo europeo aveva sperimentato un “grande scisma”, con i socialisti rivoluzionari, amici dell'Unione Sovietica, subito diventati noti con il nome di comunisti, da un lato, e i riformisti o socialisti progressisti (o “social- democratici”), antagonisti rispetto a Mosca, dall'altro. Le due parti occasionalmente collaboravano, come nel governo di Fronte Popolare negli anni Trenta, ma nella maggior parte delle occasioni la loro relazione era caratterizzata da competizione, conflitti e persino palese ostilità. Alla fine della Seconda Guerra mondiale, i comunisti erano decisamente in ascesa, non solo per il loro ruolo preponderante nella Resistenza, ma anche per il grande prestigio di cui godeva l'Unione Sovietica, diffusamente vista come il vincitore contro la Germania nazista. Per tenere il passo con i comunisti, e possibilmente eclissarli, i socialisti francesi, come gli ex-Pétainisti, optarono anch'essi per giocare la carta americana e si dimostrarono disponibili ad accettare qualsivoglia condizione questi ultimi imponevano loro, e alla Francia in generale, in cambio di un appoggio ai socialisti fornito tramite le loro grandi risorse anche finanziarie. Specularmente, gli americani in Francia avevano bisogno proprio dei socialisti - ovvero di “persone di sinistra non-comuniste” in generale - per riuscire nel loro sforzo di erodere il sostegno popolare ai comunisti. È in questo contesto che Blum e molte altre personalità socialiste ebbero frequenti incontri con l'ambasciatore americano Caffery dopo il suo arrivo a Parigi nell'autunno del 1944.[40]

I socialisti dimostrarono così di essere persino più utili per l'anti-comunismo (e l'anti-sovietismo) dei gollisti e per di più, rispetto a questi, offrivano allo Zio Sam un altro considerevole vantaggio: diversamente dai gollisti, non cercavano di ottenere “riparazioni” territoriali o finanziarie dalla Germania che gli americani intendevano ricostruire e trasformare nella loro testa di ponte per la conquista economica e anche politica dell'Europa.

Nel dopoguerra, pertanto, i socialisti giocarono la carta americana mentre gli americani giocarono quella socialista. Anche negli altri paesi europei, allo stesso modo, lo zio Sam usò i servizi di dirigenti socialisti (o social-democratici) anti-comunisti desiderosi di collaborare con loro e a tempo debito questi personaggi vennero riccamente compensati per i loro servizi. Viene in mente il capo socialista belga Paul-Henri Spaak, che venne nominato da Washington segretario generale della NATO, un'alleanza, presunta tra contraenti di pari potere, in realtà una sussidiaria del Pentagono e un pilastro della supremazia americana in Europa, che lui aveva collaborato ad edificare.[41]

L'integrazione della Francia nell'Europa (occidentale) post-bellica dominata dallo Zio Sam sarebbe stata completata nel 1948 con la sua accettazione degli “aiuti” del Piano Marshall e nel 1949 con la sua adesione alla NATO. È, tuttavia, sbagliato ritenere che questi due eventi, molto propagandati, siano avvenuti in risposta allo scoppio della Guerra Fredda di cui, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, viene convenzionalmente incolpata l'Unione Sovietica. In realtà, gli americani si erano molto impegnati per estendere la loro influenza oltre Atlantico e la Francia era stata messa a fuoco dal loro mirino almeno da quando le truppe anglo-americane erano sbarcate nel Nord Africa, nell'autunno del 1942. Zio Sam approfittò della debolezza della Francia reduce dalla guerra per offrire “aiuti” con condizioni, come quelle del Lend-Lease alla Gran Bretagna, che assicuravano che il paese “beneficiato” sarebbe diventato un socio di minoranza degli Stati Uniti. Ciò divenne una realtà, come Lacroix-Riz dimostra nel suo libro, non quando la Francia sottoscrisse il piano Marshall, ma quando i suoi rappresentanti firmarono gli accordi che risultarono dagli opachi negoziati Blum-Byrnes. Fu allora, nella primavera del 1946, che la Francia, all'insaputa della maggioranza dei suoi cittadini, disse adieu al suo stato di grande potenza e si unì ai ranghi dei vassalli europei dello Zio Sam.

Riferimenti bibliografici:

Ambrose, Stephen E., Americans at War, New york, 1998.

“Blum-Byrnes agreement” https://en.wikipedia.org/wiki/Blum%E2%80%93Byrnes_agreement.

Cohen, Paul, Lessons from Nationalization Nation: State-Owned Enterprises in France”, Dissent, winter 2010, https://dissentmagazine.org/article/lessons-from-the-nationalizatio-nation-state-owned-enterprises-in-france .

“Economies of scale”, https://en.wikipedia.org/wiki/Economies_of_scale .

Eisenberg, Carolyn Woods, Drawing the Line: The American Decision to divide Germany 1944-19049, Cambridge, 1996.

Kierkegard, Jacob Funk, “Lessons from the past for Ukrainian recovery: A Marshall Plan for Ukraine“, PIIE Peterson Institute for International Economics, April 26, 2023.

Kolko, Gabriel, Main Currents in Modern American History, New York, 1976.

Kuklick, Bruce, American Policy and the Division of Germany: The Clash with Russia over Reparations, Ithaca and London, 1972.

Pauwels, Jacques, The Myth of Good War: America in the Second World War, revised edition, Toronto, 2015. Edizione italiana: Il Mito della Guerra Buona. Gli Usa e la Seconda Guerra Mondiale, Datanews, Roma, 2003.

- The Great Class War 1914-1918, Toronto, 2016. Edizione italiana: La Grande Guerra di Classe, Zambon Editore, maggio 2017.

- Big Business and Hitler, Toronto, 2017. Edizione italiana: Profit Über Alles. Le corporations americane e Hitler, La Città del Sole, Napoli, giugno 2008.

Zinn, Howard, A People's History of the United States, s.l., 1980.

 

    

Note

 

* Questo articolo è apparso in lingua sul magazine web Counterpunch il 4 marzo 2024: https://www.counterpunch.org/2024/03/04/americanizing-france-the-marshall-plan-reconsidered/. Traduzione dall’inglese di Silvio Calzavarini.

 

[1] Eisenberg, p. 322.

[2] Vedi l'articolo di Kierkegaard.

[3] Vedi Pauwels (2016), pp. 447-449 (ed. italiana: pp. 428-431).

[4] “Economie di scala”

[5] Vedi Pauwels (2017), pp. 144-154. (ed. italiana: pp. 14-17)

[6] Pauwels (2017), p. 168. Il valore totale degli investimenti americani nella Germania nazista e che riguardava almeno 533 gruppi industriali e bancari, risultava pari a 450 milioni di dollari nel momento della dichiarazione di guerra agli Stati Uniti da parte di Hitler. (ed. italiana: p. 36-38)

[7] Pauwels (2017), pp. 63-65. (ed. italiana: pp. 66-67))

[8] Citazione da Ambrose, p. 66.

[9] Lacroix-Riz, p. 13.

[10] Zinn, p. 404: “Silenziosamente dietro le prime linee delle battaglie e i bombardamenti, diplomatici e uomini di affari americani lavoravano duro per assicurarsi che quando la guerra sarebbe finita, il potere economico americano non sarebbe stato secondo a nessuno nel mondo ... La politica delle Porte Aperte di uguale accesso sarebbe stata estesa dall'Asia all'Europa”.

[11] Lacroix-Riz, pp. 116-117.

[12] Lacroix-Riz, p. 9.

[13] Per i dettagli, vedi Pauwels (2017), pp. 199-217. (ed. italiana: pp. 55-62 e 77-78)

[14] Lacroix-Riz si riferisce al lavoro pionieristico di Bruce Kuklick che si concentra su questo tema. Ulteriormente sull'importanza per gli Stati Uniti della Germania post-bellica, vedi Pauwels (2015), p. 249 e seg.

[15] Lacroix-Riz, p. 198.

[16] Lacroix-Riz, pp. 203, 206-208.

[17] Lacroix-Riz, pp. 170-172, 174-183.

[18] Lacroix-Riz, p. 409.

[19] Lacroix-Riz, p. 331.

[20] Kolko, p. 235.

[21] Lacroix-Riz, pp. 413-414.

[22] “accordo Blum-Byrnes”

[23] Lacroix-Riz, pp. 326 e seg. Lacroix-Riz ha esaminato il caso della collaborazione con la Germania nazista di Ford France nel periodo bellico in un precedente libro sugli industriali e banchieri francesi durante l'occupazione tedesca.

[24] “accordo Blum-Byrnes”

[25] Lacroix-Riz, pp. 336-337, 342-343.

[26] Lacroix-Riz, pp. 199-202. La “Battaglia della produzione” è un argomento sul quale Lacroix-Riz si è concentrata per la sua dissertazione dottorale del 1981 ed anche in altri suoi scritti. Sui benefici delle nazionalizzazioni storiche in Francia, vedi anche l'articolo di Paul Cohen.

[27] Lacroix-Riz, pp. 277, 329-330, 363.

[28] Lacroix-Riz, p. 338.

[29] Lacroix-Riz, pp. 416-417.

[30] Lacroix-Riz, pp. 342-343, 345-346.

[31] Lacroix-Riz, p. 408: “L'Assemblée national devrait donc adopter en bloc tout ce qui figurait dans la plus grosse pièce du millefuille officiel des accords Blum-Byrnes

[32] Lacroix-Riz, pp. 334-337, 354-355.

[33] Lacroix-Riz, pp. 323-326.

[34] Lacroix-Riz, pp. 271, 340.

[35] Lacroix-Riz, pp. 342-343, 345-346.

[36] Lacroix-Riz, pp. 376 e seg.

[37] Lacroix-Riz, pp. 114-115, 122, 386, 415.

[38] Lacroix-Riz, p. 273.

[39] Lacroix-Riz, p. 418.

[40] Lacroix-Riz, pp. 170-172, 174-183.

[41] Lacroix-Riz, pp. 57-58, 417.

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