Marco Paciotti

 

Le opere di Domenico Losurdo hanno conosciuto una notevole diffusione lungo i quattro angoli del globo, essendo state tradotte in inglese, tedesco, cinese e portoghese. Eppure, proprio nella patria d’origine, in Italia, il suo pensiero non solo è andato incontro a una certa ostracizzazione da parte della cultura dominante, ma è stato talvolta mal interpretato, anche all’interno di gruppi politici o intellettuali – che pure si presumevano simpatetici con il suo punto di vista – i quali hanno isolato e forzato alcuni aspetti della sua originale rilettura della filosofia della storia hegelo-marxista finendo per eludere il punto di vista della totalità.

La comune umanità, pubblicato da Stefano G. Azzarà (con sostanziose integrazioni ad opera di Emiliano Alessandroni) per la casa editrice La scuola di Pitagora, ripercorre con estrema chiarezza e notevole capacità di sintesi l’opera di Losurdo, proponendone una lettura che pone l’analisi interpretativa del suo pensiero sui binari realmente percorsi da quest’ultimo nel corso della sua instancabile ricerca teorico-filosofico-politica.

Il libro si struttura in tre parti. La prima mette a fuoco la “resa dei conti” di Losurdo con il pensiero liberale. Ben lungi dal negarne in maniera assoluta e unilaterale la funzione da esso ricoperta nella storia della modernità, Losurdo ne mette in discussione i capisaldi narrativi, scendendo – per così dire – dal mito alla storia (la quale diviene piuttosto una controstoria, proprio a causa della forte componente mitologica sedimentatasi intorno al liberalismo).

La critica principale che Losurdo muove al pensiero liberale risiede nel fatto che le acquisizioni storiche ascritte a questa scuola, dalle libertà individuali alle istituzioni rappresentative, vengono in realtà sistematicamente negate nei confronti della grande maggioranza della popolazione mondiale: i popoli sottoposti allo sfruttamento coloniale. Tanto più che, a uno sguardo complessivo, quest’ultimo, ben lungi dal costituire un incidente di percorso o un epifenomeno occasionale dello sviluppo delle società capitalistiche rette da forme di governo liberali, è in realtà ad esso connaturato. E del resto esso non esaurisce le gigantesche clausole d’esclusione che accompagnano per lungo tempo la vita politica dell’area liberale: basti pensare alle forme di esclusione dal godimento dei diritti fatte valere contro la cittadinanza attiva delle classi subalterne attraverso sistemi elettorali a lungo fondati su basi rigidamente censitarie, o all’esclusione tout court del suffragio femminile. Ciò detto, rimarrebbe deluso chi intendesse rintracciare in Losurdo una sottovalutazione o una banalizzazione delle libertà formali: è piuttosto la loro mancata universalizzazione che viene sottoposta a una vigorosa denuncia. Tale approccio, che trova un precedente nobile nella figura di Palmiro Togliatti[1], fa tesoro della lezione storica di un sistema politico con cui Losurdo ha intrattenuto uno stretto rapporto teorico (i cui punti salienti sono approfonditi da Alessandroni in una delle integrazioni al testo, cfr. pp. 266-81): il socialismo dalle caratteristiche cinesi. Negli ultimi anni, infatti, proprio la Repubblica Popolare Cinese non ha nascosto a sé stessa l’esigenza di sviluppare e implementare le istituzioni tipiche dello stato di diritto nel quadro della sua visione strategica[2].

La seconda parte del libro traccia un bilancio del rapporto di Losurdo con la filosofia classica tedesca. Se con Kant e Fichte i rapporti tra l’elaborazione teorica e i processi reali attinenti alla sfera politica si infittiscono, è con Hegel che si giunge alla forma più compiuta di autocoscienza della modernità, che si rivela strettamente legata alla realizzazione universale della comune appartenenza al genere umano. Il sistema hegeliano, ponendo al centro il tema della contraddizione, libera il pensiero dalle ipoteche illuministe che concepiscono il processo di liberazione come un lineare e incontrastato cammino verso forme più perfette di organizzazione della vita pubblica, astrattamente corrispondenti ai dettami della ragione. Individuando la centralità e inaggirabilità della sfera del conflitto nelle relazioni sociali, Hegel sgombera il campo da ogni ingenuo ottimismo progressista, il quale non è altro che un ostacolo alla comprensione razionale dei processi storico-politici. Allo stesso tempo, il filosofo di Stoccarda è il primo grande pensatore a mettere in luce il rischio di pensare l’universale come immediata negazione degli interessi e delle istanze della particolarità. La lotta per il riconoscimento della comune appartenenza all’umanità, dell’uomo come Gattungswesen, come ente generico universale, non deve sfociare nell’omologazione e nell’appiattimento. L’universalità che inghiotte le peculiarità singolari non trascende la sfera dell’astrattezza, bensì dà vita a nuove forme di subordinazione e di assoggettamento. Essa assume concretezza solo se si mostra capace di mediarsi con la particolarità. L’elaborazione di Hegel fa tesoro della lezione della Rivoluzione francese, che innesca un epocale processo di emancipazione nel nome della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà e si spinge fino a far valere tali valori anche per i popoli neri delle colonie – si pensi all’abrogazione della schiavitù in seguito alla sollevazione guidata dal giacobino Toissant-Louverture a Santo Domingo (l’attuale Haiti) – ma che pure sfocia nelle guerre di conquista napoleoniche giustificate dall’esigenza di espandere l’applicazione di tali principi a tutto il continente europeo. Tale esito non spinge Hegel a un ripiegamento contro-rivoluzionario, bensì – come si è detto – a riformulare il concetto di universalità in termini dialettici.

Dal terreno dell’universalità concreta dissodato da Hegel non si discosta la tradizione filosofica che prende le mosse da Marx ed Engels, come traspare chiaramente dalla ricostruzione della critica losurdiana al marxismo esposta da Azzarà nella terza parte del volume. Losurdo, pur mettendo in luce i notevoli passi avanti compiuti nel senso della comprensione del divenire storico da parte dei fondatori del socialismo scientifico, non si risparmia dall’intraprendere un serrato confronto critico con tale elaborazione teorica, rintracciandone alcuni punti deboli. In particolare, la critica losurdiana si concentra su alcuni aspetti “messianici” del marxismo, individuati in alcuni passaggi nei quali è prefigurata la sparizione di molte istituzioni sociali definite come “sovrastrutture” – quali il denaro, la famiglia, lo Stato – seguenti allo sconvolgimento apportato alla struttura economica capitalistica dalla rivoluzione proletaria. Ne sarebbero conseguite delle pesanti ricadute pratiche sull’esperienza del comunismo storico novecentesco: l’Unione Sovietica, nell’attesa del crollo delle istituzioni statali, ha di fatto ignorato l’importanza della costruzione di uno Stato di diritto socialista attento ai diritti civili e individuali oltre che ai diritti sociali, e ne sarebbe risultata indebolita sul piano del consenso. Va anche detto che tale deficit è dovuto anche all’oggettivo stato d’accerchiamento di cui l’Urss sarebbe stata fatta oggetto, dalla guerra civile contro le armate bianche alla guerra fredda sotto la minaccia dell’annichilimento nucleare. Nonostante l’attenzione a non ignorare i limiti di tale «processo d’apprendimento», Losurdo non cede mai, tuttavia, alla tentazione di liquidare tout court l’esperienza sovietica come «fallimento», distinguendosi in ciò da una vasta parte dell’intellighenzia di sinistra. Merito innegabile della rivoluzione bolscevica – oltre a quello d’imporre all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale il tema del superamento delle disuguaglianze economiche – è individuato nell’impulso da essa impresso al processo di liberazione dei popoli coloniali, mediante il quale la grande maggioranza della popolazione mondiale ha imposto il riconoscimento della propria appartenenza alla «comune umanità». È una conquista che passa attraverso l’istanza di indipendenza nazionale: si realizza così la dialettica universale-particolare descritta da Hegel.

I pregi del libro di Azzarà non si limitano al piano della correttezza filologica. Il confronto con il pensiero di Losurdo si riverbera proficuamente all'interno del dibattito politico attuale, perché mina alle fondamenta alcune tendenze – invalse presso alcuni gruppi e gruppuscoli che pure si richiamano alla storia del comunismo – a presentare Marx come un autore tutto ripiegato su un’impostazione economicista, incapace di rendere conto della pluralità di contraddizioni che lacerano la modernità capitalistica, critico sprezzante delle conquiste sul piano dei diritti civili – come se questi ultimi fossero contrapposti alla sfera dei diritti sociali e collettivi, in un rapporto di somma algebrica – o peggio come un avversario implacabile dei flussi migratori, cui andrebbe attribuito l’indebolimento della posizione delle classi lavoratrici nei confronti del capitale attraverso l’estensione dell’«esercito industriale di riserva», categoria troppo spesso abusata e isolata dalla complessità della critica marxiana all’economia politica. Si tratta di distorsioni che camminano in parallelo a posizioni apertamente eurofobe che tradiscono un sostanziale disinteresse per la nozione gramsciana di rapporti di forze[3]. Essi ignorano che individuare nell’Unione Europea il nemico principale significa prestare il fianco ai sempre più invadenti tentativi americani di ingerenza, i quali risulterebbero ancor più efficaci in un contesto europeo di frammentazione territoriale. In questo senso, confrontarsi con Losurdo, valorizzarne la lezione, equivale a porre un baluardo a difesa dell’autonomia di pensiero da tali resistibili degenerazioni riduzionistiche e social-scioviniste.

 

[1]Nel suo ultimo libro pubblicato in vita (D. Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma-Bari 2017), Losurdo sottolinea proprio come Togliatti avesse compreso tale mancata universalizzazione nell’ambito delle società capitalistiche. Egli intervenne nel dibattito Bobbio-Della Volpe superando la contrapposizione netta e unilaterale tra le coppie concettuali liberalismo-libertà e socialismo-uguaglianza che i due autori instauravano, evidenziando come l’esistenza e il consolidamento di un blocco di paesi retti da partiti di ispirazione marxista avesse impresso una forte spinta al processo di liberazione dei popoli coloniali dal giogo dei paesi imperialisti.

[2]Cfr. Xi Jinping, Governare la Cina, Giunti, Firenze-Milano 2016-ed.or. 2014 (in particolare il Cap. V: Rendere la Cina uno Stato di diritto, pp.169-94); AA.VV., Marx in Cina. Appunti sulla Repubblica popolare cinese oggi, MarxVentuno Edizioni, Bari 2015 (in particolare i saggi rispettivamente di Ma Xueke, Dieci questioni ideologiche spinose del 2014, pp.71-93: 71-73 e di F. Maringiò, Cinque punti sul dibattito politico cinese, pp. 95-107: 102-04); F. Giannini-F. Maringiò (a cura di), La Cina della nuova era. Viaggio nel 19° Congresso del Partito Comunista Cinese, La città del sole, Napoli 2018 (in particolare i saggi di G. Cadoppi, La politica interna della Cina, pp.101-63: 136-38 e di F. Maringiò, Il Partito Comunista con la guida di Xi, pp. 185-216: 202-06)

[3]Tale concetto, non a caso, è centrale in Gramsci, ossia nell’autore che forse più di ogni altro si è impegnato nella battaglia contro le tendenze economiciste presenti nell’ambito della Terza Internazionale.

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