Alessandro Volpi, Piotr Zygulski*

 

In che situazione politica si trova il complesso fronte rivoluzionario che si pone alla guida della Rivoluzione del ’17, e che ruolo hanno i vari soggetti politici, eterogenei ideologicamente e fortemente legati alla peculiare realtà politica e storica russa?

Le tradizioni politiche con cui la Russia si affaccia al 1917 sono in effetti molto peculiari. C'è, ad esempio, il carattere “trino” del movimento socialista: i neo-narodniki del Partito Socialista Rivoluzionario (Sr, esèry) che vedono nei contadini e nelle loro tradizioni comunitarie il principale soggetto rivoluzionario in Russia; i marxisti di rito menscevico, gradualisti, secondo cui il nucleo operaio doveva aggregare un partito d'opinione di tipo europeo; i marxisti bolscevichi, fautori di una militanza totalizzante e inclini a “bruciare le tappe” verso il socialismo.

Tutte queste formazioni attraversano una grave crisi dopo il fallimento della prima rivoluzione del 1905: lo stallo del sistema politico e il calo della militanza “blindano” le forme-partito di esèry, menscevichi e bolscevichi (ma anche i liberaldemocratici, o “cadetti”), mentre all'interno di ogni formazione le posizioni si diversificano.

Giunti all'inaspettato appuntamento col febbraio 1917 e gettati di punto in bianco in un processo politico dal dinamismo esasperato, i partiti tradizionali si trovano lacerati fra opzioni inconciliabili: nei partiti Sr e menscevico, ad esempio, convivono fautori di una “normale” repubblica democratica con quelli di un immediato passaggio al socialismo. Anche i bolscevichi sono divisi sulla strategia da seguire: c'è una frangia massimalista, ma la maggioranza dei dirigenti è disposta a offrire un appoggio condizionato al Governo provvisorio. Il ritorno di Lenin dall'esilio a fine marzo imprime una svolta decisa alla strategia bolscevica, secondo quelle “Tesi d'aprile” che sono troppo note perché sia necessario riassumerle in questa sede.

Benché inizialmente maggioritari nel Soviet, i partiti socialisti “moderati” scoprirono che ogni tentativo di realizzare le proprie istanze politiche di sempre genera contraddizioni inestricabili che la teoria non aveva previsto: il pacifismo internazionalista si scontra con l'impossibilità di uscire dal conflitto bellico in modo “morbido”, e lo slogan della “terra ai contadini” è irrealizzabile mentre I contadini stessi si trovano in armi al fronte. Apparentemente estremistici e velleitari, gli slogan leniniani erano invece capaci di troncare questo nodo gordiano: trasformare la guerra imperialista in guerra civile, rivolgere le baionette contro lo sfruttatore interno, istigare i contadini in armi a una redistribuzione fondiaria radicale e violenta.

 

In che modo la Rivoluzione ha mutato l’immaginario collettivo in Russia? Cosa rappresenterà questo evento nella narrazione storica nazionale russa?

Il ruolo di frattura epocale della Rivoluzione per la Russia è evidente: nel 1921, il Paese esce dalla guerra civile con nuovi confini, con nuove strutture politiche, sociali, economiche, culturali, una nuova narrazione collettiva, un nuovo calendario, un nuovo alfabeto, e addirittura con un nuovo nome.

Impressionante è anche il ricambio della classe dirigente, specie nella generazione nata – grosso modo – negli anni Novanta: la generazione, per intenderci, degli Hemingway, dei Remarque, del Cèline, dei Lussu. I giovani “borghesi” sbattono contro guerra, rivoluzione e guerra civile ancora troppo immaturi per poter fronteggiare l'immensa tragedia in modo pienamente autonomo, ma già formati nella società e nella cultura tradizionale, e quindi rigettati dalla realtà nuova come “alieni”: non a caso saranno loro a formare il nerbo della cultura emigrè fra le due guerre. A sostituirli in patria, sono coetanei di origine plebea, provinciale, spesso etnicamente non russa, che acquistano consapevolezza (e spesso imparano a leggere e a scrivere) nel fuoco della guerra civile: una generazione che, se la rivoluzione non ci fosse stata, non sarebbe mai uscita dalla marginalità. Paradossalmente, per quanto immenso sia stato l'impatto della Rivoluzione sulla storia russa, nell'anno del centenario la cultura ufficiale tende a mettere in sordina l'anniversario. Il fatto è che la politica culturale putiniana valorizza ciò che può fungere da collante unanimistico e “organico” per la nazione: è una cultura in sommo grado eclettica, dove possono coesistere la canonizzazione di Solženicyn e la riabilitazione di Stalin (come artefice di potenza militare), il clericalismo ostentato e il machismo condito da riferimenti alla subcultura mafiosa, l'antiamericanismo e la mutuazione di tutte le feste commerciali d'Oltreoceano, lo zar e il Kgb, et cetera. Lo stesso utilizzo degli stereotipi sovietici (ormai percepiti come stile elevato) avviene in modo disorganizzato e ibridato: i tentativi di resuscitare il volgare illustre sovietico si accompagnano alla perdita di una percezione viva e organica della sua unità stilistica, un po' come l'ingenua “romanità” dei regni barbarici. L'unico ingrediente che non può entrare a far parte di questo amalgama è proprio la rivoluzione, momento divisivo, traumatico per eccellenza.

 

Lei è autore di un importante lavoro di Storia della letteratura russa in due volumi (Carocci, 2016), e nel suo libro sulla Rivoluzione del ’17 mostra molto bene il clima intellettuale che attraversa le città russe (Mosca e Pietrogrado in particolare) prima e durante l’evento. Ci parla di come hanno accolto la Rivoluzione gli intellettuali russi e che ruolo hanno svolto?

Inizialmente, gli intellettuali salutano la Rivoluzione di febbraio come grande festa liberatoria: basti ricordare come Pasternak rievocherà quei giorni nel Dottor Živago. Di fronte al precipitare della situazione nel corso dell'anno, le posizioni si differenziano nettamente: alcuni fra i massimi poeti dell'epoca, di tendenza moderata, come Cvetaeva, Mandel'štam, lo stesso Pasternak, si rifugiano in un'idealizzazione dell'“uomo forte” del momento, il capo del governo Aleksandr Kerenskij. Rimanendo agli intellettuali che sostengono una radicalizzazione del processo rivoluzionario, essi si dividono in due aree molto diverse: i cosiddetti “sciti”, vicini all'ala sinistra degli esèry, vedono nella rivoluzione l'azzeramento di duecento anni di impero occidentalizzato, un ritorno alle radici ancestrali della cultura russa. Di qui la caratteristica poetizzazione della barbarie di opere come I Dodici di Blok, Inonija di Esenin, L'anno nudo di Boris Pil'njak. Al contrario, gli intellettuali vicini alla rivista di Maksim Gor'kij “Novaja žizn'” hanno del processo rivoluzionario una concezione radicalmente razionalistica e “occidentalizzante”: la parte più consapevole e matura del proletariato avrebbe dovuto coagulare attorno a sé l'intelligencija tecnico-manageriale in un progetto di modernizzazione collettivistica. Decenni dopo, Antonio Gramsci trarrà spunto da questa corrente per le proprie teorie sull'“egemonia”: suo tramite era il Commissario sovietico alla cultura Anatolij Lunačarskij, ex sodale di Gor'kij ai tempi di “Novaja žizn”.

 

Qual è, a Suo avviso, il significato storico universale della Rivoluzione d’Ottobre?

La rivoluzione d'Ottobre è stata l'esperienza antropologica fondamentale dell'umanità nei dodicimila anni trascorsi dalla rivoluzione neolitica: il primo tentativo di edificare uno Stato, compiuto da masse popolari che da ogni ruolo politico attivo erano sempre state sistematicamente escluse. Edificare uno Stato, certo, ma anche un tessuto sociale e produttivo e una cultura nuova, che sappia esprimere la visione del mondo e le aspirazioni delle masse appena liberatesi: ora in violenta contrapposizione alla cultura tradizionale delle classi dominanti spodestate, ora utilizzandone gli sparsi frantumi, in guisa non dissimile a quanto facevano colle pietre dei templi romani gli edificatori di basiliche nel Medioevo barbarico.

 

Qual è stato il motivo principale per cui l’esperimento sovietico è crollato?

Il motivo principale che ha portato questo primo tentativo di rivoluzione antropologica a un fallimento che io voglio pensare solo temporaneo, sta nel suo essere nato sotto il segno esclusivo della violenza. Non è, beninteso, colpa dei soli bolscevichi: Lenin, al contrario, in Stato e rivoluzione preconizzava un'evoluzione libertaria di una “dittatura del proletariato” necessaria solo in una prima fase. Il fatto è che la Rivoluzione russa germina e si compie in piena Guerra mondiale, come tentativo di trasferire sul terreno delle lotte sociali la violenza di massa organizzata, e di tale origine la società sovietica e la sua cultura recheranno l'impronta lungo tutta la propria parabola storica. Di qui anche il “peccato originale” di questa esperienza: l'identificazione del Partito con lo Stato (identificazione assurda già terminologicamente), la rinuncia a governare le contraddizioni come dialettica fra esigenze diverse e complesse, a favore di un ricorso alla mera coercizione dato sempre più per scontato.

Beninteso, anche lo stalinismo – di cui si può pensare tutto il male possibile – va storicizzato e compreso nella sua logica intrinseca. L'intento di Stalin era radicalmente modernizzatore, la creazione di una società di massa evoluta da quei ceti subalterni, dalla mentalità ancora profondamente arcaica, che a suo parere erano la naturale base sociale del sistema: «A me ora interessa la nuova intelligencija sia dagli operai che dai contadini», – si appunta Stalin nel 1938 al margine del testo definitivo di quel Breve corso che costituirà il “testo sacro” del suo regime. – «Essa guarda al passato<.> È essa che deve governare <...> Senza la nostra intelligencija periremo».

Di qui, l'utilizzo di codici culturali allo stesso tempo mobilitanti e arcaici: l'enfasi sul “capo” dispensatore di giustizia e guida degli eserciti, la “partiticità” come “grazia” laica, il pathos verticale e gerarchico, l'esaltazione della fertilità, il culto degli eroi, la ricerca ossessiva di un “nemico” diabolico. Man mano che quel complesso di ritualità arcaica, sistema di potere autoritario e pathos modernizzatore indirizza masse ancora prepolitiche e premoderne verso gli standard di una società industriale e urbanizzata, iniziano a svilupparsi segmenti sociali e pratiche culturali che sempre più percepiscono come inadeguati e anacronistici gli stessi meccanismi staliniani di orientamento ideologico. Tanto lo ždanovismo dei tardi anni Quaranta che le ondivaghe politiche culturali successive alla morte di Stalin (il cosiddetto «disgelo») costituiscono tentativi falliti di superare tale impasse. Ma era solo questione di tempo: una volta spezzata la magia nera del Breve corso, non c'era una magia bianca alla quale tornare.

 

Cosa ha da insegnare per noi oggi, a livello pratico e teorico, l’esperienza rivoluzionaria russa?

Oggi, mi pare, è innanzitutto necessario contrastare la tendenza dilagante a equiparare fascismo e comunismo nel segno di un “totalitarismo” liberticida. Tale tendenza è strumentale, finalizzata a un'assolutizzazione apologetica dello stato di cose attuale, ed è antistorica per almeno per due motivi.

a) I due sostantivi vanno usati al plurale, dato che diversissime sono state le esperienze storiche che si sono rifatte alle due ideologie “di base”. Quanto al comunismo, ciò include anche il riverbero che esso ebbe su formidabili lotte di liberazione di impianto non marxista: la decolonizzazione, esperienze contemporanee come il chavismo, i Sem terras, etc.

b) I fascismi (soprattutto italiano e tedesco, ma non solo), nei loro momenti peggiori hanno effettivamente realizzato quanto avevano promesso: nel Mein Kampf c'è già tutto quanto attuato in seguito dal regime nazista. I comunismi invece, nei loro momenti peggiori hanno tradito gli ideali di liberazione e di eguaglianza formulati nei loro testi “sacri” (Marx, ma anche il Lenin di Stato e rivoluzione).

Come poi tutto ciò debba tradursi in un'ottica di riattualizzazione del grande messaggio di riscatto contenuto in quei testi, è compito del politico, non dello storico. C'è bisogno di un nuovo Lenin.

 

* Guido Carpi, docente di Letteratura russa all’Università L’Orientale di Napoli, è autore del volume Russia 1917: Un anno rivoluzionario, Roma, Carocci, 2017.

 

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