Manfredi Alberti

 

Il percorso istituzionale che portò, tra la fine dell’Ottocento e il primo dopoguerra, alla nascita di organismi statali specificamente preposti allo studio e alla rappresentanza istituzionale del lavoro fu il prodotto di una nuova attenzione delle classi dirigenti europee nei confronti del mondo del lavoro, divenuto soggetto politico con la nascita e il rafforzamento del movimento operaio. In Italia questo percorso politico e istituzionale, segnato da un confronto con le esperienze degli altri paesi occidentali, ebbe un primo importante punto di arrivo cento anni fa, con la nascita del Ministero per il lavoro e la previdenza sociale.

Con un decreto-legge del 3 giugno 1920, infatti, il secondo governo Nitti creò per la prima volta in Italia un ministero finalizzato a rafforzare l’intervento dello Stato a tutela delle classi lavoratrici, duramente colpite dalla crisi del dopoguerra e protagoniste di quella stagione di proteste passata alla storia come “biennio rosso”. Il nuovo dicastero, inizialmente guidato dal senatore liberaldemocratico Mario Abbiate, cercò di riunire e riorganizzare gli enti operanti nel settore, collegandosi alle iniziative nel campo della legislazione sociale del primo Novecento e garantendo il progressivo coinvolgimento dello Stato nel settore previdenziale.

Per fare fronte a una situazione economica che rimaneva instabile e per venire incontro al malcontento diffuso, i governi che si succedettero fra il 1919 e il 1920 tentarono di portare avanti un ampio programma riformista volto alla costruzione di un embrione di Stato sociale. Dopo l’introduzione dell’indennità di licenziamento per gli impiegati, dell’obbligo di assicurazione contro l’invalidità e la vecchiaia e la creazione della Cassa nazionale per le assicurazioni sociali (antenato diretto dell’Inps), l’altra novità importante fu il varo della prima assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione, introdotta durante il primo governo Nitti con un decreto-legge dell’ottobre 1919. La scelta della decretazione d’urgenza, usata sia in questo caso sia per l’istituzione del nuovo ministero, esprimeva la necessità di intervenire con rapidità, per testimoniare la riconoscenza dello Stato verso le classi popolari che più di altre avevano sofferto le conseguenze della guerra, e per arginare le tensioni dello scontro sociale in atto.

Per molti versi, sul terreno degli strumenti contro la disoccupazione, l’Italia stava giocando un ruolo pionieristico. Se si prescinde dalla legge inglese del 1911 che aveva già avviato in via sperimentale una prima forma di assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione (limitata tuttavia ad alcune categorie di lavoratori) e dalla legislazione sovietica del 1917, si può affermare che fu l’Italia la prima nazione ad avere introdotto un meccanismo assicurativo obbligatorio contro la disoccupazione di ampia portata. La nuova assicurazione, infatti, si rivolgeva agli operai (industriali e agricoli) e agli impiegati di entrambi i sessi, di età compresa fra i 15 e i 65 anni, e si reggeva su fondi provenienti dai lavoratori e dagli imprenditori, con un contributo annuale dello Stato.

Nell’Italia del primo dopoguerra il tentativo di dare vita a un sistema istituzionalizzato di relazioni di lavoro, all’interno di una cornice di tipo democratico, andò incontro tuttavia a un sostanziale fallimento. La nuova normativa previdenziale, anche nel campo della tutela contro la disoccupazione, rimase largamente inapplicata, soprattutto nelle campagne. Tale esito può essere ricondotto all’accresciuta conflittualità sociale prodotta dal “biennio rosso”, al clima di instabilità economica e anche allo scarso sviluppo economico del paese: nel 1921 l’industria occupava un quarto della popolazione attiva, mentre l’agricoltura ne impiegava più della metà.

Le forze più retrive della grande borghesia italiana, in sinergia con una parte dei ceti medi insoddisfatti, posero fine al fragile esperimento riformista degli ultimi governi liberali, favorendo l’ascesa del fascismo. Quasi a voler risarcire quelle forze sociali che lo avevano sostenuto, quando giunse al potere, nel 1922, le prime decisioni di Mussolini nel campo della politica economica furono improntate al ridimensionamento della spesa pubblica e alla riduzione del ruolo dello Stato. Sul terreno delle politiche del lavoro, non a caso, la prima mossa del governo fu lo smantellamento della normativa esistente. Nel 1923 venne abolita la disciplina sul collocamento nata nel dopoguerra, e venne al contempo soppresso il Ministero del lavoro (e con esso il Consiglio superiore nato nel 1902), le cui competenze furono trasferite prima al Ministero dell’economia nazionale e poi a quello delle Corporazioni. Il Ministero del lavoro e della previdenza sociale sarebbe risorto solo nel 1945, al termine di un altro devastante conflitto mondiale.

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