Vito Francesco Polcaro*

Già nel pensiero di Marx ed Engels l’uomo è visto come parte integrante della natura e Marx nella Critica al programma di Gotha afferma esplicitamente che la natura è la vera sorgente di ogni ricchezza. Non mancano numerosi altri passaggi delle opere di Marx nei quali questi concetti sono indicati con uguale chiarezza, tanto da portare alcuni studiosi (ad es. Barletta, 1975; Bagarolo, 1989; Bagarolo, 1993) a ritenere Marx il vero fondatore della moderna visione ecologica, avendo indicato nello sfruttamento capitalistico un rischio per la natura, oltre che per l’uomo.

Molti di questi autori però non vanno oltre Marx, come Barletta (1975) il quale sottovaluta le analisi su questo problema di Engels e soprattutto di Lenin, che accusa esplicitamente di avere sottovalutato la contraddizione tra uomo e natura a causa della sua visione del mondo positivista. Altri, come Bagarolo (1993) e Weiner (1988), assumono una discontinuità tra l’azione in difesa della natura intrapresa da Lenin (che è un fatto storicamente innegabile) e la successiva politica ecologica in URSS.
Prima di passare ad esporre quella che fu l’azione politica dello Stato sovietico per tentare di tradurre in pratica il pensiero di Marx anche in campo ecologico, conviene però analizzare il rapporto uomo-natura nel pensiero di Lenin.
Egli si sofferma in modo esplicito su questo punto in almeno due passaggi dei suoi Quaderni filosofici. È questa un’opera estremamente rivelatrice della visione del mondo di Lenin che però è immeritatamente poco approfondita, forse perché di lettura non semplice. Si tratta infatti di riassunti di opere di Marx, Hegel, Aristotele ed altri filosofi inframmezzati da brani dei testi originali (in tedesco, inglese, francese, latino e greco!) e da brevi commenti non pensati per la pubblicazione ma per proprio uso personale.
Ritornando al punto che ora ci interessa, Lenin, commentando un passo di Hegel sullo “scopo soggettivo”, afferma, a proposito della dialettica materialistica:

Le leggi del mondo esterno [...] sono il fondamento dell’attività finalistica umana. Nella sua attività pratica l’ uomo ha dinnanzi a sé il mondo oggettivo, dipende da esso, determina per suo tramite la propria attività.
[...]
Due forme del processo oggettivo. La natura meccanica e chimica e l’ attività umana ponentesi un fine. Correlazione di queste due forme. I fini dell’uomo sembrano dapprima estranei (“altri”) rispetto alla natura. La conoscenza dell’uomo, la scienza (“der Begriff”), rispecchia l’ essenza, la sostanza della natura, ma è al tempo stesso un che di esteriore alla natura (non coincide con essa implicitamente, semplicemente).
La tecnica meccanica e chimica serve ai fini dell’uomo appunto perché il suo carattere (essenza) consiste nella sua determinazione da parte delle condizioni esterne (leggi della natura).

Da queste ed altre considerazioni, Lenin più avanti conclude (e sottolinea nel manoscritto con grande evidenza):

In realtà, i fini dell’uomo sono generati dal mondo oggettivo e lo presuppongono, lo trovano come dato, come presente. Ma all’uomo sembra che i suoi fini siano fuori dal mondo e da esso indipendenti.
[...]
Mediante i suoi strumenti, l’uomo domina la natura  esterna, mentre  per  i suoi scopi le  rimane invece  subordinato.

Pare quindi evidente che Lenin ha ben compreso la lezione sul rapporto tra uomo e natura di Marx e chi afferma che a questo riguardo nel leninismo vi siano influssi positivisti o non ha letto i positivisti o (e questo è più probabile) non ha letto Lenin.
A determinare l’azione di Lenin per la difesa della natura contribuì anche il fatto che già dalla fine del secolo XIX esisteva  in Russia una attiva scuola di ecologia forestale e che alcuni di questi scienziati erano persone socialmente sensibili, che si schierarono più o meno attivamente in favore della Rivoluzione (Bagarolo, 1993).
Non è quindi affatto sorprendente che oltre 100 atti giuridici in difesa della natura, emanati dal Partito o dal Governo sovietico tra il 1917 ed il 1924, rechino la firma di Lenin. Nel Museo di Lenin a Mosca e nel Museo della Rivoluzione a Leningrado erano conservate le bozze di molti di questi atti, che dimostrano chiaramente come Lenin fosse intervenuto spesso direttamente nella loro stesura e come in tutti i casi li avesse esaminati con cura.
Il primo e più importante decreto a questo riguardo è certamente quello detto Sulla terra (1917), il quale, già nei primi giorni della Rivoluzione, mette nelle mani dello Stato tutte le risorse naturali, sottraendole così allo sfruttamento dei privati e ponendo le condizioni per una loro gestione razionale.
Nel 1918 viene riconosciuta l’autonomia dell’Accademia delle Scienze dal Governo sovietico e tra i compiti che vengono affidati all’ Accademia vi è anche quello di predisporre norme per la tutela delle risorse naturali. Sempre del 1918 è il decreto Sulle foreste del Comitato esecutivo centrale di tutte le Russie (VTSIK), il massimo organo legislativo, amministrativo e di controllo tra il 1917 e il 1937.
Nel 1919 Lenin, su richiesta di un agronomo bolscevico di Astrakan (N. Podiapolskij), che era stato indirizzato direttamente a lui dal Commissario all’Istruzione Lunačarskij, istituisce la prima area naturale protetta dello Stato sovietico, quella del Delta del Volga, alla quale se ne aggiungono poi continuamente altre. Nello stesso anno viene istituita una commissione provvisoria per la conservazione della natura e nel 1920 il Governo sovietico (“Consiglio dei commissari del popolo”) emana una legge per la regolamentazione della gestione delle risorse minerali che tiene conto del rispetto della natura.
Del 16 settembre 1921 è la legge Sulla protezione dei monumenti della natura, dei giardini e dei parchi che comportava, tra l’altro, il fatto che la conservazione della natura venisse affidata al Commissario del popolo all’Istruzione e non a quello per i Lavori pubblici o per l’Industria.
L’ultima (e più completa) legge in tutela della natura che viene emanata per diretto interessamento di Lenin è quella Sulla registrazione e la conservazione dei monumenti dell’arte, della storia e della natura, del 1924, nella quale viene addirittura garantita la protezione di monumenti artistici ed aree naturali che si trovano in territori che non erano, all’epoca dell’entrata in vigore della legge, ancora stati liberati dall’Armata Rossa (ad es. l’Oasi di Bukhara e la città di Samarcanda). Queste aree protette dovevano venire garantite anche in caso di operazioni belliche.
La strada segnata da Lenin era dunque chiarissima ed effettivamente, anche dopo la morte di Lenin, furono costantemente emanate disposizioni in tutela della natura, fino agli ultimi anni dell’URSS  (Arbatov et al., 1989). Il numero e l’estensione delle riserve naturali, sia completamente protette che “speciali” (destinate cioè alla protezione di alcune particolari specie animali o vegetali) si sono sempre mantenute superiori a quelle di qualsiasi altro paese europeo ed asiatico sia in assoluto che in percentuale. L’attenzione dell’opinione pubblica sovietica nei riguardi della natura e della sua difesa è sempre stata altissima e gli episodi di danneggiamento di riserve naturali piuttosto rari e severamente puniti.
È quindi completamente priva di fondamento l’affermazione di Bagarolo (1993) secondo la quale il degrado ecologico dell’URSS sarebbe da attribuirsi ad una scarsa attenzione al problema da parte dei dirigenti comunisti che si sono susseguiti alla guida del Partito dopo la morte di Lenin. A riprova  di questa affermazione, basta riportare gli articoli della Costituzione sovietica del 19771 che riguardano la tutela della natura:

La terra, i suoi minerali, acque e foreste sono esclusiva proprietà dello Stato (dall’Art. 11).
Le fattorie collettive, come gli altri utenti della terra, sono obbligati a farne un uso efficiente  e saggio (dall’Art. 12).
Nell’interesse delle presenti e future generazioni, l’URSS intraprende i passi necessari a proteggere e fare un uso scientifico e razionale della terra, delle sue risorse minerali, vegetali ed animali, a preservare la purezza dell’aria e dell’acqua, ad assicurare la riproduzione della vita naturale e a migliorare l’ambiente umano (Art. 18).
I cittadini dell’URSS hanno diritto alla protezione della salute. Questo diritto è assicurato [...] da misure per migliorare l’ambiente (dall’Art. 42).
I cittadini dell’URSS sono obbligati a proteggere la natura e conservare le sue ricchezze (Art. 67).
La giurisdizione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche come rappresentata dai suoi massimi organismi di autorità statale ed amministrativi riguarda [...] la  determinazione delle linee principali di progresso scientifico e tecnologico e le misure generali per lo sfruttamento razionale e la conservazione delle risorse naturali (dall’Art. 73).
Nell’ambito del loro potere, i Soviet dei Deputati del Popolo locali assicureranno il generale sviluppo economico e sociale della loro area; eserciteranno il controllo dell’osservanza delle leggi da parte delle imprese, istituzioni ed organizzazioni subordinate localizzate in quell’area; coordineranno e supervisioneranno la loro attività riguardo all’uso della terra, alla conservazione della natura, edificazione, impiego  di manodopera, produzione e consumo di beni  servizi sociali, culturali, comuni ed altre attività di pubblica utilità (Art. 147).

Queste norme costituzionali (che, ricordiamo, sono del 1977, quando in Occidente un movimento politico in favore dell’ ambiente appena cominciava ad assumere dimensioni non trascurabili) erano poi concretizzate in precise norme giuridiche a diversi livelli. Il rispetto delle leggi costituzionali, generali e locali a tutela della natura era garantito da pene notevolmente severe  (fino a anni di carcere o di “lavoro correttivo coercitivo senza perdita della libertà” nei casi più gravi ed ammende pesantissime) e risultano essere state comminate ammende di rimborso di diversi milioni di rubli ad imprese statali che si erano rese responsabili di seri danneggiamenti all’ambiente (Arbatov et al., 1989).

Possiamo allora chiederci che cosa non abbia funzionato, dato che un certo numero di seri danni ambientali in URSS è incontrovertibile. In primo luogo, è opportuno però tener distinta la realtà dalla propaganda, sia da quella messa in giro durante l’epoca dell’URSS dai suoi nemici che quella dei “nuovi russi” rispetto alla fase politica precedente. Infatti, se la scienza in generale non è neutrale, neppure l’ecologia può esserlo: quindi una volta che negli USA cominciò a ricostruirsi, per la prima volta dopo decenni di assenza, una opposizione al capitalismo che partiva dal riconoscimento della incompatibilità dell’“American style of life” con la conservazione delle risorse naturali, era essenziale che si cercasse di dimostrare che il modello socialista fosse ancora più incompatibile. Ed una certa “scienza ecologica” si assunse questo ruolo.
In realtà la situazione ecologica nell’URSS non era sostanzialmente diversa da quella della maggior parte dei paesi industrialmente avanzati e, caso mai, vista la grande estensione territoriale, il basso rapporto tra popolazione e territorio e l’attenzione prestata al problema ecologico ben prima che venisse riconosciuto in Occidente, era migliore e non peggiore. Chiunque abbia raggiunto in volo località dell’URSS non può non aver notato come la maggior parte del territorio fosse sostanzialmente allo stato naturale (bosco, tundra, foresta, deserto, ecc.), a differenza di quanto si poteva vedere per la quasi totalità dei paesi dell’Europa occidentale.
Però, bisogna ammetterlo, la situazione non era neppure così buona quanto avrebbe potuto esserlo date le premesse con le quali si era partiti ed è necessario cercare capire perché, in modo da poter andare avanti sulla strada indicata da Marx, Engels e Lenin.
A questo proposito, bisogna in primo luogo tener presente che l’impostazione marxista-leninista del rapporto tra uomo e natura non può essere confusa con una visione utopica di ritorno a schemi produttivi precapitalistici quali ad esempio quelli di una tipica civiltà di cacciatori-raccoglitori, come gli Indiani delle Pianure americane che tanto affascina i movimenti della “New Age” e della “Religione di Pacha Mama”. La concezione mistica della natura, implicitamente od esplicitamente posta a base di questa posizione, non solo è incompatibile con il materialismo dialettico ma è semplicemente basata su una organizzazione sociale che non esiste più e che non ha neppure senso cercare di ricostruire, anche ammesso che per un qualsiasi motivo la si ritenga più desiderabile della stessa organizzazione sociale capitalistica. Forse non c’è neppure bisogno a questo proposito di ricordare quanto scritto da Marx ed Engels a proposito del socialismo utopico. Basta tenere in conto il fatto che il pianeta Terra può mantenere in completo equilibrio ecologico statico (cioè nel quale l’attività umana è indifferente rispetto agli equilibri delle altre componenti del sistema) non più di 2.5 milioni di cacciatori-raccoglitori, con una speranza di vita di 40 anni (Renfrew, 1990).
Anche un ecologismo del tipo presentato da I limiti dello sviluppo (MIT-Club di Roma, 1972) presuppone una ben determinata organizzazione sociale: quella dell’imperialismo. Infatti, il tema dominante di quel libro e di moltissimi altri che ne hanno seguito la scia, è quello dell’impossibilità per tutti gli abitanti del pianeta di raggiungere il tenore di vita degli USA negli anni ’70, sicché sarebbe necessario fermarsi o almeno rallentare tutti nel proprio sviluppo. A parte la discutibilità della parte tecnica dello studio (che pure sarebbe interessante analizzare) questa soluzione è tanto ingiusta da essere risultata impraticabile, non ostante i tentativi economici e militari messi in atto per contenere lo sviluppo dei popoli del Terzo Mondo.
Neppure possiamo accettare acriticamente una proposta di un nuovo equilibrio ecologico basato sullo sviluppo di nuove tecnologie che rendano superata l’organizzazione del lavoro fordista: è vero che la grande fabbrica ha localmente un impatto ambientale maggiore di quello della produzione distribuita e che la chiusura delle grandi fabbriche e delle miniere in Inghilterra, conseguente alle “riforme” economiche del governo Thatcher, ha fatto tornare i salmoni nel Tamigi, ma ha accumulato tanta povertà da generare un degrado dell’ambiente urbano quale non si era visto dall’inizio del XX secolo. Inoltre, la produzione distribuita, a parte l’impatto politico distruttivo sull’organizzazione operaia, comporta lo spostamento su scala planetaria di prodotti e materie prime con conseguenze ecologiche imprevedibili e spesso serissime.

Non c’è dunque soluzione alla “contraddizione tra uomo e natura”?
La risposta è ovvia: se la si affronta come una “contraddizione”, no! Se però la si affronta in termini di materialismo dialettico allora essa cessa di essere una contraddizione e quello che si deve cercare non è più un modo (impossibile) di rendere statica una situazione, sia essa quella antecedente alla “rivoluzione neolitica”, quella dell’imperialismo degli anni ’70 o quella della “produzione del just in time” e della “fine del lavoro”, ma il modo di giungere ad una sintesi sempre più alta (cioè, in questo caso, più “compatibile”) tra società e natura.
Ciò significa che non possiamo aspirare a “non modificare” la natura. La natura stessa non è mai stata statica: specie animali e vegetali si sono sviluppate ed estinte, e non sempre in modo graduale; ambienti si sono trasformati completamente, a volte nel corso di milioni di anni, altre nel giro di poche ore (basti pensare alle conseguenze di eruzioni vulcaniche esplosive). L’uomo e la sua attività sono parte di questa natura, la modificano e ne vengono condizionati e modificati. È chiaro però che la potenza dei mezzi tecnici a disposizione della società attuale è tale da produrre in tempi brevi modifiche ambientali irreversibili di enorme entità: il loro uso non è quindi “compatibile” con una società priva di regole, o retta dalla “competizione del libero mercato”, il che è la stessa cosa.
Per strano che possa sembrare, proprio la dinamica dell’incidente alla centrale nucleare di Cernobyl dimostra chiaramente questo processo: la centrale era vecchia e ne sarebbe stata necessaria la sostituzione. Alcuni dirigenti della centrale però, per dimostrarsi efficienti e guadagnare promozioni nella nuova ottica meritocratica, ne mascheravano il reale stato nei loro rapporti al Ministero dell’Energia. Infine, un altro dirigente, durante una sospensione delle attività produttive a scopo di manutenzione, tentò un esperimento per aumentare la produttività in segreto, per non dover condividere il merito di un eventuale successo. Per questo esperimento non solo non era stata chiesta l’autorizzazione, ma non si era nemmeno lontanamente tentata una modellizzazione su base scientifica dato che coloro che conoscevano il reale stato della centrale non erano neppure stati avvisati. Ciò innescò la catena di eventi che diede origine al disastro. Si è trattato quindi di un comportamento totalmente estraneo ad una logica socialista ed invece completamente interno ad una logica capitalista. Quindi, pur se il fatto si è verificato in URSS, anche nell’incidente di Cernobyl i danni all’ambiente sono stati effetto della logica della “libera iniziativa”.
Una ipotesi di base del liberismo è infatti quella della disponibilità illimitata di risorse naturali e questa ipotesi, se poteva sembrare sensata due secoli fa, ora si dimostra patentemente falsa. In un ambiente limitato, l’unica possibilità di uno sviluppo “compatibile” è quella di una accurata programmazione, che permetta l’avvio di nuove attività solo dopo che ne siano state valutate le conseguenze.
L’evoluzione della modellistica fisica ci ha portato molto vicino a poter realizzare questo obiettivo e quindi ad una interazione con la natura che, pur modificando l’ambiente, vi incida solo in modo da renderlo più favorevole all’uomo.
Certo, molto resta ancora da fare a questo riguardo sul piano scientifico-tecnico, ma questo non è il problema principale. La maggior parte dei danni ambientali che si producono attualmente non sono infatti frutto di effetti sconosciuti conseguenti all’uso di nuove e pericolose tecnologie, ma conseguenze prevedibilissime di azioni facilmente evitabili e/o sostituibili con altre, condotte al fine di produrre la privatizzazione dei profitti e la pubblicizzazione dei danni. Queste azioni sono quelle contro le quali concentrare ora l’azione politica, perché, citando per un’ultima volta Lenin, “la politica riguarda la soluzione concreta dei problemi concreti”.

 

Riferimenti bibliografici

Arbatov A., Bogolyubov S., Sobolev L., 1989, Ecology, ed. Novosti, Mosca
Barletta F., 1975, Introduzione a Marx, Engels, Lenin: Sulla scienza, ed. Dedalo, Bari
Bagarolo T., 1989, Marxismo ed ecologia, ed. Nuove Edizioni Internazionali, Milano
Bagarolo T., 1993, Marxismo e questione ecologica, ed. Punto Rosso, Milano
MIT-Club di Roma, 1972, I limiti dello sviluppo, EST Mondadori, Milano
Renfrew C., 1990, La preistoria europea, EST Mondadori, Milano
Weiner D.R., 1988, Models of nature. Ecology, Conservation and Cultural Evolution in Soviet Russia, Indiana Univ. Press, Bloomington

I brani di Lenin riportati sono tratti  da:
V.I.  Lenin, Quaderni filosofici, in Opere scelte in 6 volumi curate dal CC del PCUS, Editori Riuniti-Edizioni Progress, Roma-Mosca, 1973.

 

* Tratto da “Marxismo Oggi”, 2011, n. 1-2.

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