Domenico Losurdo

1. Il «secolo delle razze»: dall’Otto al Novecento

 A partire almeno da Hannah Arendt è diventato un luogo comune sussumere Terzo Reich e Unione Sovietica sotto la categoria di «totalitarismo». Ma questo approccio presenta non pochi inconvenienti. In primo luogo separa nettamente il Novecento, letto come il secolo dell’avvento del potere totalitario e genocida, dallo sviluppo storico precedente, quasi ad avvalorare la consueta lettura che vede i decenni precedenti il 1914 o il 1917 come il periodo della belle époque. Eppure storici autorevoli hanno visto nell’Ottocento il secolo in cui giunge a compimento l’«olocausto americano» (ovvero la «soluzione finale» della questione degli amerindi), e si consumano l’«olocausto australiano» e gli «olocausti tardovittoriani».

 

Siamo in presenza di orrori che investono la stessa metropoli, e non solo gli Stati Uniti (dove «la degradazione e l'annientamento degli indiani della California» diviene «una sorta di sport popolare» e il linciaggio sadico dei neri si configura come uno spettacolo di massa, regolarmente annunciato dalla stampa locale e seguito con appassionata partecipazione da una folla che comprende anche donne e bambini), ma anche l’Europa: il principale responsabile (sir Trevelyan) della politica inglese che a metà dell’Ottocento conduce alla morte per inedia di diverse centinaia di migliaia di irlandesi è stato talvolta bollato come il «proto-Eichmann»1. Il secolo, che oggi la teoria del totalitarismo tende a contrapporre positivamente al Novecento, è stato a suo tempo definito come il secolo «più doloroso» della storia umana. A esprimersi così è Houston S. Chamberlain, che tuttavia non intende formulare alcun giudizio critico: dopo tutto, si tratta del «secolo delle colonie» e soprattutto del «secolo delle razze», cui spetta il merito di aver confutato una volta per sempre le ingenue «idee di affratellamento universale del 18° secolo» e la mitologia della comune origine e dell’unità del genere umano, l’armamentario ideologico al quale, nonostante le sonore smentite della storia e della scienza, restano pateticamente aggrappati i «socialisti»2. Questa configurazione dell’Ottocento, a opera di un autore particolarmente caro a Hitler, ci rinvia immediatamente al Novecento e al programma coloniale e razziale del Terzo Reich, suggerendo così una continuità ignorata dal discorso corrente sul totalitarismo.

Ma, almeno, questa categoria consente di abbracciare nella sua totalità l’orrore del secolo su cui essa si propone di concentrare l’attenzione, l’orrore del Novecento? Disgraziatamente non è così. Procediamo a ritroso rispetto alla rivoluzione d’Ottobre, che costituirebbe il punto di partenza della vicenda totalitaria. Di quali categorie possiamo allora avvalerci per comprendere la prima guerra mondiale allorché, per dirla con Weber, anche nei paesi di consolidata tradizione liberale allo Stato viene «attribuito un potere "legittimo" sulla vita, la morte e la libertà» dei cittadini3? In effetti, ecco fare irruzione la mobilitazione totale e l’irreggimentazione totale, le esecuzioni e le decimazioni anche all’interno del proprio campo, le spietate punizioni collettive, che comportano, ad esempio, la deportazione e lo sterminio degli armeni. E in quale contesto collocare, ancor prima, le guerre balcaniche, con i massacri su larga scala che le caratterizzano? Sempre procedendo a ritroso, come leggere la tragedia degli Herero, dalla Germania guglielmina considerati inutilizzabili persino come forza-lavoro servile e quindi, agli inizi del Novecento, con un ordine esplicito condannati all’annientamento?

Ora, invece che a ritroso, procediamo in avanti rispetto alla prima guerra mondiale e alla rivoluzione d’Ottobre. Poco più di due decenni dopo, il campo di concentramento fa la sua apparizione anche negli Stati Uniti: in base ad un ordine esecutivo di Franklin Delano Roosevelt, vi vengono rinchiusi i cittadini americani di origine giapponese, comprese donne e bambini. In questo stesso momento, in Asia, la guerra condotta dall’Impero del Sol Levante assume forme particolarmente ripugnanti. Con l’espugnazione di Nanchino, il massacro diviene una sorta di disciplina sportiva e, al tempo stesso, di divertimento: chi riuscirà ad essere più rapido ed efficiente nel decapitare i prigionieri? La de-umanizzazione del nemico raggiunge ora una completezza assai rara: invece che su animali, gli esperimenti di vivisezione sono condotti sui cinesi, i quali per un altro verso costituiscono il bersaglio vivente dei soldati giapponesi che si esercitano ad andare all’assalto con la baionetta. La de-umanizzazione investe in pieno anche le donne che, nei paesi invasi dal Giappone, sono sottoposte ad una brutale schiavitù sessuale: sono le comfort women, costrette a «lavorare» a ritmi infernali al fine di ristorare dalle fatiche della guerra l’esercito di occupazione e spesso eliminate, una volta divenute inutili per l’usura o le malattie sopraggiunte4. La guerra in Estremo Oriente, che vede il Giappone far ricorso contro la Cina anche alle armi batteriologiche e infierire altresì contro i prigionieri inglesi e americani, si conclude con il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, in un paese che pure è allo stremo e si prepara ad arrendersi: è per questo che studiosi americani hanno paragonato l’annientamento della popolazione civile delle due città giapponesi ormai indifese all’ebreicidio dal Terzo Reich consumato in Europa.

Di tutto ciò non c’è traccia nelle consuete teorie del totalitarismo, così come non c’è traccia di quello che si verifica nella seconda metà del Novecento, ad esempio in America Latina, dove gli Stati Uniti intervengono ripetutamente non solo per mantenere in piedi o instaurare feroci dittature militari ma anche per promuovere o facilitare «atti di genocidio»: lo sottolinea in Guatemala la «commissione per la verità» istituita nel 1999, che fa riferimento alla sorte toccata agli indiani Maya, colpevoli di aver simpatizzato con gli oppositori del regime caro a Washington5.

Infine, la categoria di totalitarismo riesce a spiegare ben poco dell’universo sociale, politico e ideologico dei regimi a cui essa viene applicata. Mi concentro qui sul Terzo Reich. Alla vigilia dell’operazione Barbarossa, nel chiamare all’«annientamento dei commissari bolscevichi e dell’intellettualità comunista», Hitler enuncia un principio di essenziale importanza: «la lotta sarà molto diversa dalla lotta in Occidente»; in Oriente s’impone una «durezza» estrema e gli ufficiali e i soldati sono chiamati a «superare le loro riserve» e i loro scrupoli morali6. Come spiegare che il medesimo paese, nel medesimo periodo di tempo e anzi nel corso del medesimo conflitto mondiale, teorizza e pratica sui due fronti di guerra comportamenti tra loro così diversi? E’ fatica vana cercare la risposta alla luce del discorso sul totalitarismo. Possiamo rinviare al furibondo anticomunismo del regime nazista, ma in tal modo finiamo col contrapporre i due paesi che quella categoria tende ad accostare. D’altro canto, già per la campagna in Polonia Hitler formula un programma identico a quello appena visto in relazione all’Unione Sovietica: s’impone l’«eliminazione delle forze vitali» del popolo polacco; «tutti i rappresentanti dell’intellettualità polacca devono essere annientati»: «ciò può suonare duro ma è pur sempre una legge della vita»; occorre «procedere in modo brutale» senza lasciarsi inceppare dalla «compassione»; «il diritto è dalla parte del più forte»7. Eppure, in questo caso ad essere aggredito è un paese che col Terzo Reich condivide il fervore anticomunista. Sennonché, anche qui si tratta di stablire un «protettorato»8, a somiglianza dei «protettorati» previsti per «i paesi del mar Baltico, l’Ucraina e la Bielorussia». In un caso e nell’altro non bisogna perdere di vista i «compiti coloniali»9 e le dure necessità dell’impero continentale da edificare in Europa orientale: affrontando i popoli destinati a lavorare a guisa di schiavi al servizio della razza dei signori, è necessario non solo annientare il ceto intellettuale esistente ma anche con ogni mezzo «impedire che si formi un nuovo ceto intellettuale»; non bisogna dimenticare che «ci può essere un solo padrone, quello tedesco»10. Ecco perché la guerra a Est dev’essere condotta con modalità diverse e decisamente più barbare che non ad Ovest. Per la verità, anche a Ovest interviene una differenziazione: dal rispetto dello jus in bello e delle norme dello jus publicum europaeum sono esclusi gli ebrei, che sono estranei anche loro all’Europa e alla civiltà e costituiscono, per dirla con Goebbels, «un corpo estraneo nell’ambito delle nazioni civili»11.

Come si vede, l’elemento centrale dell’ideologia nazista è la dicotomia tra popoli e razze depositarie della civiltà e destinate al dominio e popoli e razze che incarnano la barbarie e devono rassegnarsi alla loro condizione naturale di schiavi o semischiavi. Ben lungi dall’essere dileguati, il secolo delle «colonie» e delle «razze» e la connessa distruzione dell’unità del genere umano (di cui parla Chamberlain alla fine dell’Ottocento) entrano ora nella fase decisiva e fanno irruzione nella stessa Europa: «durante tutto il secolo scorso» – sottolinea Hitler rivolgendosi agli industriali tedeschi e guadagnandosi definitivamente il loro appoggio per l’ascesa al potere – «i popoli bianchi» hanno conquistato una posizione di incontrastato dominio, a conclusione di un processo iniziato con la conquista dell’America e sviluppatosi all’insegna dell’«assoluto, innato sentimento signorile della razza bianca»12. A minacciare la gerarchia naturale che sussiste tra gli individui che costituiscono un popolo e, ancora prima e in misura ancora più accentuata, tra i diversi popoli e le diverse razze, a mettere in pericolo il fondamento della civiltà sono la rivolta dei popoli coloniali e la sovversione comunista. E’ all’opera l’Untermensch ovvero l’Untermenschentum bolscevico o meglio ebraico-bolscevico13, e questo sotto-uomo e sotto-umanità mirano non solo allo spodestamento ma persino all’«annientamento delle razze europee», dei «popoli ariani», dei «popoli ariano-europei»14.

2. Le parole-chiave dell’ideologia nazista e la loro origine

 

Untermensch: ci imbattiamo qui nella parola-chiave che esprime in modo concentrato la carica di de-umanizzazione e di violenza genocida insita nell’ideologia nazista: sono privati in anticipo della piena dignità di uomo quanti sono destinati a divenire semplici strumenti di lavoro o ad essere annientati quali agenti patogeni, colpevoli di fomentare la rivolta contro la razza dei signori e contro la civiltà in quanto tale. La ricerca delle origini di questa parola-chiave, che un ruolo così centrale e così nefasto svolge nella teoria e nella pratica del Terzo Reich, ci riserva una sorpresa: Untermensch non è altro che la traduzione dall’americano Under Man! Lo riconosce e anzi lo sottolinea nel 1930 Rosenberg, il quale esprime la sua ammirazione per l’autore statunitense Lothrop Stoddard: a lui spetta il merito di aver per primo coniato il termine in questione, che campeggia come sottotitolo (The Menace of the Under Man) di un libro pubblicato a New York nel 1922 e della sua versione tedesca (Die Drohung des Untermenschen) apparsa a Monaco tre anni dopo15. Al riconoscimento tributato da uno dei teorici di punta del movimento nazista si associa nel 1933 un ideologo minore che, nell’indagare i «fondamenti» della Rassenforschung, mette in guardia contro i pericoli insiti nella corrente contrapposizione tra mondo animale e «umanità»: sotto quest’ultima categoria rischiano di essere sussunti in modo indifferenziato due realtà tra loro assai diverse, l’«uomo nordico» e l’Untermensch di cui per primo ha parlato, con espressione «calzante», Stoddard16.

Per quanto riguarda il significato del termine, l’autore statunitense chiarisce di averlo coniato al fine di designare «tutti quei tristi rifiuti che ogni specie vivente secerne», la massa degli elementi «inferiori», «dei disadattati e incapaci», dei «selvaggi e barbari», spesso carichi di risentimento e di odio nei confronti delle personalità «superiori», che ormai si rivelano «irrecuperabili» e sono pronti a dichiarare «guerra alla civiltà». E’ questa minaccia terribile, di carattere sociale ed etnico, che occorre assolutamente sventare «se si vuole salvare la nostra civiltà dal declino e la nostra razza dalla decadenza»17.

Ho parlato di «sorpresa» a proposito del risultato dell’indagine per una parola-chiave decisiva dell’ideologia nazista. Ma è del tutto giustificato questo sentimento? Se pensiamo allo «sport popolare» dell’annientamento dei pellerossa e allo spettacolo di massa del linciaggio e dell’agonia tormentosa e interminabile inflitta ai neri considerati ribelli o scarsamente rispettosi nei confronti della razza superiore, non è certo stupefacente che in questo contesto sia emerso il termine che consacra la distruzione del genere umano e procura la buona coscienza ai responsabili di tali infamie.

Negli Stati Uniti della white supremacy il programma di riaffermazione delle gerarchie razziali si salda strettamente col progetto eugenetico. Si tratta in primo luogo di incoraggiare la procreazione dei migliori e di scoraggiare quella dei peggiori, in modo da sventare il pericolo di «race suicide». Coniata nel 1901 dal sociologo americano Edward A. Ross18, questa espressione si diffonde nel mondo politico e nella larga opinione pubblica a partire soprattutto da Theodore Roosevelt. In lui l’evocazione dello spettro del «race suicide» e della «race humiliation» va di pari passo con la denuncia del «calo delle nascite tra le razze superiori», ovvero «nell’ambito dell’antico ceppo dei nativi americani»: ovviamente, il riferimento è qui non ai «selvaggi» pellerossa ma ai Wasp, ai White Anglo-Saxon Protestants, alla prima ondata di immigrati, che sul piano culturale, religioso e razziale esprimevano la bianca civiltà americana in tutta la sua purezza19.

E’ un discorso che suscita un’eco simpatetica nella cultura e nella pubblicistica di lingua tedesca. Occupandosi della diffusione dell’eugenetica negli Stati Uniti, nel 1913 il vice-console dell’Impero austro-ungarico a Chicago osserva:

 

«La fertilità ridotta degli Yankees è considerata una disgrazia nazionale e l’espressione utilizzata da Roosevelt, sucidio razziale (Rassenselbstmord), divenuta una parola d’ordine, esprime in modo calzante l’angoscia per il sopravvento di strati della popolazione di scarso valore»20.

 

Qualche anno dopo è Spengler, richiamandosi anche lui in modo esplicito allo statista statunitense, ad additare nel «suicidio razziale» (Rasseselbstmord) che incombe sui bianchi uno dei sintomi più inquietanti del «tramonto dell’Occidente» che si profila all’orizzonte21. Con linguaggio appena diverso Hitler mette in guardia contro il Volkstod, la «morte del popolo» o della razza, ovvero contro «la decimazione e degradazione» della popolazione tedesca22. Come si vede, anche in questo caso l’indagine storico-linguistica conduce a risultati inattesi.

Ma torniamo agli Stati Uniti della white supremacy e all’autore caro in particolare a Rosenberg. La lotta senza quartiere contro l’Under Man è inserita da Stoddard nell’ambito di un programma eugenetico e razziale di più ampia portata: occorre «ripulire la razza delle sue peggiori impurità» (to cleanse the race of its worst impurities)23, s’impone una politica complessiva di «pulizia razziale» (race cleansing), di «purificazione razziale» (race purification); occorre applicare in modo sistematico le scoperte di Francis Galton, «la scienza dell’Eugenetica ovvero del “Miglioramento Razziale”» (the science of “Eugenics” or “Race Betterment”)24. Nella traduzione tedesca questi due ultimi termini diventano per lo più, già a partire dall’indice analitico, «Erbgesundheitslehre und -pflege».

Ecco irrompere un’altra parola-chiave del discorso ideologico nazista, adoperata per lo più come sinonimo di Rassenhygiene. Conviene riflettere anche sulla storia di quest’ultimo termine, che conosce la sua prima apparizione alla fine dell’Ottocento. A farvi ricorso è Alfred Ploetz, il quale a tale proposito si richiama agli studi condotti dal «famoso ricercatore dell’ereditarietà Francis Galton»25 e può far tesoro del suo soggiorno negli Stati Uniti, dove la nuova scienza celebra i suoi massimi trionfi, anche perché qui – osserva Ploetz – gli «ariani» sono impegnati in una lotta contro «indiani, negri e mulatti» e gli «yankees più lungimiranti» si preoccupano di evitare che i nuovi immigrati, grazie alla loro maggiore fertilità, prendano il sopravvento sul bianco ceppo originario26.

Alcuni anni dopo vede la luce a Monaco un libro che, già nel titolo, addita gli Stati Uniti come modello di «igiene razziale». L’autore, il vice-console che già conosciamo, celebra gli Stati Uniti per la «lucidità» e la «pura ragion pratica» di cui danno prova nell’affrontare, e con la dovuta energia, un problema così importante eppur così frequentemente rimosso: l’igiene razziale viene promossa favorendo l’«accrescimento di quanti sono razzialmente più dotati» (Rassentüchtigste), scoraggiando la procreazione dei «meno validi» (Minderwertige), procedendo ad un’accurata «selezione degli immigrati», in modo da scartare non solo gli individui indesiderati ma anche «intere razze»27. L’igiene razziale è messa in pratica anche ad un ulteriore livello: vige il «divieto dei matrimoni misti» e del «mescolamento (Vermischung) extra-matrimoniale tra la razza bianca e nera»; violare tali leggi può comportare anche dieci anni di reclusione e ad essere condannabili, oltre ai protagonisti, sono anche i loro complici. Ma, al di là della norma giuridica, non bisogna perdere di vista il peso del costume: «La purezza razziale è agognata in modo quasi inconscio e un mescolamento con sangue negro o anche asiatico è considerato un crimine, una vergogna» (Schande)28. Siamo di nuovo ricondotti al cuore dell’ideologia e del linguaggio nazista, col profilarsi della dicotomia: Rassereinheit contra Rassenmischung e Rassenschande (ovvero Blutschande).

Naturalmente, il rapporto che stiamo indagando non è a senso unico. Stoddard ha studiato in Germania, è stato profondamente influenzato da Nietzsche, conia il termine Under Man in contrapposizione allo Übermensch celebrato dal filosofo tedesco29; nell’esprimere tutto il suo disgusto nei confronti dell’Under Man (roso dall’invidia per le personalità superiori) è probabile che abbia presente la figura dello Schlechtweggekommenen o dello Missrathenen, del «malriuscito» sul quale Nietzsche non si stanca di riversare il suo disprezzo.

Resta il fatto che, ben prima dell’avvento del Terzo Reich, gli Stati Uniti della white supremacy sono un modello per quanti si augurano l’adozione anche in Germania e nell’Impero austro-ungarico di una politica razziale ed eugenetica. Ridiamo la parola al vice-console a Chicago: «Da nessuna parte si parla e si scrive tanto di razza e di superiorità ovvero di inferiorità razziale quanto in America». Sì: «Il sogno di Galton, per cui l’igiene razziale sarebbe divenuta la religione del futuro, si avvia alla sua realizzazione in America. Essa conquista il Nuovo Mondo con una marcia trionfale; finora nessuna dottrina può vantarsi di qualcosa di simile». Il diffondersi impetuoso dell’igiene razziale tende a produrre risultati che vanno ben al di là degli Stati Uniti. Siamo in presenza di un movimento di staordinaria importanza, che mira e sta riuscendo ad «allevare una razza nuova, ideale, capace di dominare il mondo». L’Europa non deve rimanere indietro: «Le aspirazioni dell’America a nobilitare la razza sono in sé e per sé degne di essere imitate»30.

Più tardi, nel 1923, un medico tedesco, Fritz Lenz, si lamenta del fatto che, per quanto riguarda l’«igiene razziale», la Germania è ben addietro rispetto agli Usa31. Ancora dopo la conquista del potere da parte del nazismo, gli ideologi e “scienziati” della razza continuano a ribadire: «Anche la Germania ha molto da imparare dalle misure dei nord-americani: essi sanno il fatto loro»32.

 

 

3. La controrivoluzione razzista dagli Stati Uniti alla Germania

 

Non si tratta qui di indulgere a un banale «antiamericanismo», secondo l’accusa comunemente rivolta a coloro che esitano a inchinarsi compunti dinanzi all’immagine sacralizzata degli Stati Uniti quale tempio della libertà. Al contrario, sottolineare l’influenza esercitata dalla reazione americana su quella tedesca e europea significa al tempo stesso richiamare l’attenzione su una grande rivoluzione, per lo più dimenticata, che si svolge negli Stati Uniti. La fine della guerra di secessione vede non soltanto l’abolizione dell’istituto della schiavitù ma l’avvento, sia pure nelle difficili condizioni di uno stato d’eccezione che non accenna a dileguare, di una democrazia multietnica: per mantenere il controllo del Sud, dove gli ex-proprietari di schiavi continuano a rivelarsi riottosi e ribelli, l’Unione e le sue truppe hanno bisogno della collaborazione dei neri che ora, grazie al godimento dei diritti politici oltre che di quelli civili, possono svolgere un ruolo importante in occasione delle elezioni, accedere agli organismi rappresentativi ed esercitare talvolta funzioni dirigenti. Questo periodo (la cosiddetta Reconstruction), il più felice nella storia degli afroamericani, è di breve durata, termina il 1877. In cambio del riconoscimento dell’intangibilità dell’unità nazionale e dell’accettazione della politica di protezionismo industriale a favore del Nord, gli ex-proprietari di schiavi del Sud si scuotono di dosso il controllo politico e militare sino a quel momento esercitato dal governo federale e riconquistano l’autogoverno: il risultato è che, oltre ai diritti politici i neri perdono in larga parte anche i diritti civili, con una legislazione che sancisce la segregazione razziale nelle scuole, nei locali pubblici, nei mezzi di trasporto, negli ascensori; monopolizzata dai bianchi, la giustizia tollera senza difficoltà non solo la de-emancipazione ma anche il linciaggio dei neri, organizzato dalle bande razziste del Ku Klux Klan come spettacolo pedagogico di massa a difesa e celebrazione del regime di white supremacy. La seconda rivoluzione americana, che si dispiega tra guerra di Secessione e Reconstruction, la rivoluzione abolizionista, subisce una disastrosa sconfitta, che si manifesta anche a livello ideologico: oggetto di irrisione diviene l’idea di uguaglianza razziale e diffusa è la de-umanizzazione dei neri, assimilati a selvaggi incorreggibili o a vere e proprie bestie.

Ben più della sconfitta della rivoluzione europea del ’48, su cui insiste Lukács, è il fallimento della rivoluzione abolizionista americana a esercitare un’influenza profonda sulla reazione internazionale sfociata nel fascismo e nel nazismo. Della svolta che si è verificata si rivelano consapevoli già i testimoni più lucidi del tempo. Visitando gli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento, Friedrich Ratzel, uno dei grandi teorici della geopolitica, traccia un quadro assai significativo: dileguati i fumi dell’ideologia col suo attaccamento al principio dell’«uguaglianza», s’impone la realtà dell’«aristocrazia razziale». Non si tratta solo del fatto che i neri sono privi, o vengono di nuovo privati, del godimento dei diritti politici. Chi vuole può ostinarsi a chiudere gli occhi, e tuttavia la «Color Line» lacera così profondamente la società americana da attraversare «persino gli istituti per ciechi». Anche qui la segregazione regna sovrana, così come nella società nel suo complesso. Spesso esplicitamente vietati dalla legge, i matrimoni interrazziali risultano comunque fortemente scoraggiati dal fatto che i «mulatti» (Mischlinge) sono annoverati tra i neri, e subiscono tutta la durezza della condizione propria di questi ultimi. Esclusi dalle «grandi associazioni nazionali» (compresi i sindacati), gli afroamericani sono come isolati da un cordone sanitario. Gli «idealisti» ovvero i «fanatici dell’istruzione» speravano negli effetti benefici della «cultura» e dell’educazione: si è verificato invece che «le famiglie dei negri istruiti» subiscono una discriminazione ancora più accentuata, quella riservata ai membri più pericolosi della razza inferiore. A cosa è servito l’abolizionismo? Tra bianchi e neri «le relazioni sociali sono più limitate che al tempo della schiavitù». D’altro canto, anche sul piano giuridico essi continuano a essere sottoposti a due legislazioni diverse ovvero ad una legislazione interpretata in modo assai diverso a seconda della razza di appartenenza, come confermano ulteriormente i linciaggi riservati ai neri e «la deportazione e l’annientamento degli indiani». E’ da aggiungere che a subire i rigori del regime di supremazia bianca sono anche gli immigrati provenienti dall’Oriente, l’ultimo in ordine di tempo dei «tre gruppi della “gente di colore”»33.

Occorre prenderne atto: il progetto di costruzione di una società fondata sul principio dell’eguaglianza razziale è miseramente fallito. La situazione che si è venuta a creare negli Stati Uniti «evita la forma della schiavitù ma mantiene l’essenza della subordinazione, della gerarchizzazione sociale su base razziale», continua a riconoscere il principio dell’«aristocrazia razziale». Una conclusione si impone: «l’esperienza ha insegnato a riconoscere le differenze razziali»; esse si rivelano ben più durature dell’«abolizione della schiavitù, che un giorno apparirà soltanto come un episodio e un tentativo». Un «rovesciamento» si è verificato rispetto alle illusioni care agli abolizionisti e ai patiti dell’idea di eguaglianza. Tutto ciò – osserva Ratzel con lucidità ­– farà sentire i suoi effetti ben al di là degli Stati Uniti: «Siamo appena agli inizi delle conseguenze che questo rovesciamento provocherà in Europa più ancora che in Asia»34.

Più tardi, anche il vice-console austro-ungarico a Chicago richiama l’attenzione sulla controrivoluzione in atto nella repubblica nordamericana e sul suo carattere benefico e istruttivo. Nonostante «la guerra civile per la liberazione degli schiavi», continua a sussistere il «divieto del mescolamento razziale», anzi la sua legittimità è stata sancita anche dalla Corte Suprema. A ciò si aggiunge l’esclusione dei neri dal diritto di voto e la loro segregazione nelle chiese, nelle scuole, nei mezzi pubblici di trasporto ecc. Anche «in questo “libero” paese», spesso additato come modello di libertà, «la dottrina dei diritti naturali» è ormai dimenticata. Su questa strada si rivela in grave ritardo l’Europa: qui, il nero proveniente dalle colonie è accolto in società come una «leccornia»: quale differenza rispetto al comportamento dell’«americano così orgoglioso della purezza della sua razza», che evita il contatto coi non bianchi, tra i quali egli annovera anche coloro che hanno «una sola goccia di sangue negro»! Ebbene, «se l’America può essere in qualche modo il maestro dell’Europa, essa lo è nella questione negra» e razziale 35.

 

 

4. La «ferrea legge della disuguaglianza»

 

Alcuni anni dopo, nel 1926, in Germania Leopold Ziegler ribadisce che «la fanfara di un’America socialmente rivoluzionarizzata dall’alto», in seguito al riconoscimento sul piano teorico e all’applicazione pratica della «ferrea legge della disuguaglianza» non solo tra gli individui ma ancora prima e ancor più tra le razze, è una musica irresistibile, destinata a trovare orecchie attente e simpatetiche ben al di là dell’Atlantico36. Ancora qualche anno più tardi, nel riportare e sottoscrivere questa affermazione e dopo aver osservato che, lungi dall’essere un intellettuale isolato, Stoddard è considerato un’autorità tanto da ispirare la legislazione in difesa della «purezza razziale», il teorico nazista della razza che già abbiamo incontrato lamenta il ritardo accumulato su questo terreno dalla Germania e poi conclude: per fortuna anche i tedeschi cominciano a prestare la dovuta attenzione alla «ferrea legge della disuguaglianza» tra le razze e gli individui su cui Stoddard ha avuto il merito di richiamare l’attenzione37.

A questo punto conviene soffermarsi un po’ più diffusamente sull’autore statunitense, che gode di tanta popolarità sia nel suo paese che in Germania. Egli non si limita ad enunciare, già nel titolo di un capitolo del suo libro forse più celebre, «the iron law of inequality»; illustra anche le catastrofi provocate dal suo mancato rispetto. Per quanto riguarda il continente americano, il pensiero corre subito a Santo Domingo (che gli schiavi neri vittoriosi ribattezzano Haiti): «è qui – dichiara Stoddard – che si è prodotto il primo vero scontro tra la dottrina della supremazia bianca e quella dell’eguaglianza delle razze, prologo del grande dramma dei giorni nostri»38. Una linea di continuità conduce dall’orrore sanguinario dell’emancipazione e dell’avvento al potere degli schiavi neri di Santo Domingo-Haiti, inebriati e fanatizzati dall’idea di uguaglianza scaturita dalla rivoluzione francese, alla catastrofe della partecipazione al potere degli afroamericani nel periodo della Ricostruzione, e di qui al crollo definitivo della civiltà che sembra profilarsi all’orizzonte col primo conflitto mondiale e con la rivoluzione d’ottobre, impegnata a stimolare in tutto il mondo la rivolta dei popoli coloniali. La vicenda che va dal 1914 al 1917 è letta dall’autore statunitense come la «Guerra di se­ces­sione dei bianchi» e la «guerra civile bianca» su scala planetaria, ovvero come la «nuova guerra del Peloponneso» della «civiltà bianca»39. Si tratta di uno scontro fratricida che, distruggendo la «solidarietà bianca», e dilaniando in primo luogo l’Europa, «il paese dei bianchi, il cuore del mondo bianco», rappresenta il «suicidio della razza bianca». Come la guerra di Secessione propriamente detta ha significato l’arruolamento dei neri nell’esercito dell’Unione e la loro successiva emancipazione, così il primo conflitto mondiale ha comportato il massiccio ricorso dell’Intesa alle truppe di colore ed è sfociato nella Rivoluzione d’ottobre e nell’appello da essa lanciato al mondo coloniale. Impegnandosi a costruire un’alleanza globale con gli schiavi o semi-schiavi in rivolta contro l’Occidente e i bianchi e stimolando la «marea montante dei popoli di colore», il bolscevismo è da considerare «il rinnegato, il traditore all’interno del nostro campo pronto a vendere la citta­della», un «nemico mor­tale della civiltà e della razza»40. Se in Santo Domingo-Haiti e negli Stati Uniti della Ricostruzione aveva un carattere geograficamente limitato, ora la lotta per la white supremacy e per la sopravvivenza della civiltà ha assunto una dimensione planetaria.

Assai simile è il bilancio nel 1933 tracciato da Spengler, che fa esplicito riferimento a Stoddard41. La sconfitta della razza bianca da questi deprecata si configura ora come la sconfitta dell’Occidente cui «è venuto meno il rispetto dei popoli di colore»42. Ribadita è la requisitoria contro il bolscevismo. Con l’avvento al potere di questo «rinnegato» della razza bianca, per dirla con il teorico statunitense della white supremacy, la Russia, osserva a sua volta l’autore del Tramonto dell’Occidente, getta via la «maschera "bianca"», per diventare «di nuovo una grande potenza asiatica, "mongolica"», parte integrante ormai dell'«intera popolazione di colore della terra» animata da «odio infuo­ca­to contro l’Europa» e contro l'«umanità bianca»43.

Come Stoddard, anche Spengler s’impegna nella ricostruzione storica di questa parabola rovinosa: essa è iniziata col ricorso dell’Inghilterra, nella sua lotta contro i coloni ribelli, all’aiuto dei pellerossa; ha conosciuto una paurosa accelerazione con l’alleanza dei giacobini francesi coi neri di Haiti in nome dei «diritti dell’uomo»; è proseguita col ricorso dell’Intesa alle truppe di colore44; è infine culminata nell’orrore della rivoluzione d’ottobre.

Dell’Occidente e dell’umanità bianca chiaramente non fa parte l’America Latina, dove si è consumato quel mescolamento razziale che la classe e la razza dominante negli Stati Uniti hanno saputo per fortuna evitare. Sì – lamenta Stoddard – nella parte centrale e meridionale del continente «il predominio bianco non è più che una cosa del passato»45. La rivoluzione ha qui avuto un esito catastrofico. Nello scatenarla, i suoi protagonisti pensavano di limitarsi a scalzare la Spagna mantenendo tuttavia in piedi il regime di «supremazia bianca». In realtà, per conseguire la vittoria essi hanno dovuto aizzare la «folla bastarda contro l’aristocrazia bianca» e proclamare «la dottrina dell’eguaglianza senza distinzioni di colore». Si è così verificato l’avvento al potere di «caudillos», che hanno proceduto all’affrancamento degli schiavi e si sono comportati come gli «apostoli dell’eguaglianza e del mescolamento delle razze». Il risultato è una «completa de-arianizzazione», sicché «il livello di civiltà in America Latina è caduto molto al di sotto di quello che era prima dell’indipendenza»; ora ci troviamo in una situazione «assai vicina a quella dell’Africa» nera46. In conclusione:

 

«Questa è la situazione in America, là dove regnano razze bastarde: rivoluzioni che generano rivoluzioni, tirannidi che generano nuove tirannidi, e le une si intrecciano con le altre per rovinare le loro vittime e precipitarle sempre di più nel pantano di una barbarie degenerata»47.

 

Anche per Spengler la rivoluzione in America Latina è un capitolo della storia del tramonto dell’Occidente e della razza bianca. La guerra di indipendenza inizia come «una lotta esclusivamente tra bianchi». Lo stesso Bolivar, «un bianco purosangue», e gli altri protagonisti della rivolta contro la Spagna non pensavano di mettere in discussione il dominio dell’«oligarchia bianca»; epperò ha finito col prevalere il «giacobinismo», col suo principio dell’«eguaglianza universale, anche delle razze». Il risultato è che «i “caudillos”, demagoghi bellicosi provenienti dalla popolazione di colore, dominano la politica». Non mancano gli «ufficiali», che sono «indiani purosangue» e che non esitano a allearsi con il «proletariato meticcio delle città»48.

Sia in Stoddard che in Spengler, al di là dei popoli coloniali propriamente detti e della Russia bolscevica ad essi alleata e di essi ormai parte integrante, nell’ambito dell’Occidente propriamente detto l’anello debole è rappresentato dalla Francia: «la razza francese» – osserva l’autore statunitense – «non si è mai completamente rimessa» dalle gravi «ferite» inferte dalla rivoluzione. Ad uscirne sanguinante è stata la razza bianca nel suo complesso: prodotto della rivoluzione scoppiata nel 1789, Haiti ha conosciuto con l’avvento dei neri al potere «un tonfo formidabile sino al livello della giungla della Guinea o del Congo». Non a caso è uno dei pochi luoghi rovinosamente sottratti al «dominio bianco»49. D’altro canto, una linea di continuità conduce dalla rivoluzione francese e dalla «guerra razziale» sviluppatasi a Haiti sino all’ottobre bolscevico, che fornisce nuovo e più possente alimento alla rivolta dei popoli coloniali e di colore: «La “successione apostolica” della rivolta è rimasta immutata. Marat e Robespierre si sono reincarnati ai giorni nostri in Trotskij e Lenin»50.

Su questo punto Spengler è più drastico. Ai suoi occhi, la Francia è anche il paese che più di ogni altro ha fatto ricorso alle truppe di colore nel corso del primo conflitto mondiale e che disgraziatamente continua in questa politica di tradimento razziale. Sì, concedendo la cittadinanza ai neri nelle colonie, arruolandoli nel suo esercito e familiarizzandoli con la moderna tecnica e arte della guerra, puntando su «una massa enorme e crescente di soldati di colore» e su un «esercito di milioni di neri», la repubblica d’oltre Reno non può più essere considerata membro della comunità bianca e occidentale. Occorre prendere atto della minaccia per la civiltà rappresentata dalla «Francia euro-africana», anzi dalla «Francia nera»51. Disgraziatamente, «al contrario di quello germanico, il sentimento francese di razza non si ribella contro l’equiparazione coi neri», pubblicamente salutati «quali “frères de couleur”, fratelli di colore»; proprio per questo «in Francia non c’è alcuna ripugnanza contro i matrimoni misti»52.

Peraltro, già nel 1919 Moeller van den Bruck, uno dei profeti del Terzo Reich, aveva bollato con parole di fuoco il «sacrilegio razziale» consumato, col ricorso alle truppe di colore, dalla Francia, che così «è divenuta un’Africa» geograficamente collocata in Europa. Sicché: «Strasburgo in mano francese sarà sempre percepita dai tedeschi come una donna bianca nelle mani di un uomo di colore»53.

 

 

5. Costruzione dello Stato razziale e modello americano

 

Questa configurazione del quadro internazionale non subisce mutamenti di rilievo nell’ambito del nazismo. Dopo aver affermato che «la fusione delle razze superiori con quelle inferiori» comporta conseguenze rovinose, Mein Kampf così prosegue:

 

«L’esperienza storica ci fornisce a tale proposito innumerevoli esempi. Mostra con spaventosa chiarezza che il mescolamento del sangue dell’ariano con quello di popoli inferiori ha come risultato la fine del popolo apportatore di civiltà. L’America del Nord, la cui popolazione è costituita in stragrande maggioranza di elementi germanici, i quali solo molto di rado si sono mescolati con popoli inferiori e di colore, mostra un’umanità e una civiltà ben diversa da quelle dell’America centrale e meridionale, dove gli immigrati in larga parte latini si sono spesso fusi con gli abitanti originari. Basta quest’unico esempio per cogliere in modo chiaro e distinto l’effetto del mescolamento razziale. I germani del continente americano, rimasti razzialmente puri e incontaminati, sono diventati i suoi signori e rimarranno tali sino a quando essi stessi non saranno vittime di un insulto al sangue» (Blutschande)54.

 

Su questo punto decisivo per le sorti della civiltà la Germania è rimasta disgraziatamente indietro: continua a concedere la cittadinanza con faciloneria, senza fare attenzione né alla «razza» né alla «salute fisica» dell’immigrato. E di nuovo la repubblica nordamericana s’impone come un modello:

 

«Nel momento attuale c’è solo uno Stato in cui per lo meno emergono vaghi cenni di una concezione migliore. Naturalmente, non si tratta della nostra esemplare Repubblica Tedesca, bensì dell’Unione americana, nella quale ci si preoccupa di far valere di nuovo, almeno in parte, la ragione. Negando per principio l’immigrazione ad elementi in cattiva salute ed escludendo rigorosamente determinate razze dall’accesso alla cittadinanza, l’Unione americana professa già, sia pure nei suoi deboli inizi, una concezione che è propria del concetto völkisch di Stato»55.

 

Gli Stati Uniti prefigurano qualla distinzione tra «cittadini» (Staatsbürger), «residenti» (Staatsangehörige) e «stranieri» (Ausländer), che verrà poi sancita dalle leggi di Norimberga. Ma già prima della conquista del potere Hitler sottolinea che non deve poter diventare cittadino tedesco «il negro» e neppure «l’ebreo ovvero il polacco, l’africano, l’asiatico»56.

Se al di là dell’Atlantico è l’America Latina, in Europa è la Francia ad incarnare l’orrore del mescolamento e imbastardimento razziale:

 

«Non solo completa il suo esercito attingendo in misura sempre maggiore alle riserve umane di colore del suo immenso impero; anche sul piano razziale fa così rapidi progressi nella sua negrizzazione (Vernegerung), che si può in effetti parlare dell’emergere di uno Stato africano sul suolo europeo. La politica coloniale dell’odierna Francia non può essere paragonata con quella della Germania del passato. Se l’evoluzione della Francia dovesse proseguire nell’odierno stile per altri trecento anni, gli ultimi resti del sangue francone dileguerebbero nello Stato mulatto euro-africano che così si formerebbe, un possente, compatto territorio di colonizzazione dal Reno al Congo, abitato da una razza inferiore che si forma lentamente a partire da una duratura bastardizzazione»57.

 

La Francia segue una politica coloniale ben diversa da quella dei popoli germanici (tedeschi, inglesi e americani), che nel complesso hanno cercato di custodire la loro purezza. Parigi ha invece sacrificato completamente l’obbligo della solidarietà bianca alle sue ambizione revansciste ed egemoniche:

 

«Lo sciovinismo nazionale francese si è così allontanato dal punto di vista razziale (völkisch) che, nel tentativo di appagare la sua pura voglia di potenza, fa negrizzare il suo sangue, pur di salvaguardare sul piano quantitativo il suo carattere di “grande nation”» 58.

 

Il risultato è una «generale negrizzazione» (allgemeine Verniggerung)59. La contrapposizione che abbiamo visto tra i germani incontaminati dell’America del Nord e i latini imbastarditi dell’America centrale e meridionale si ripresenta ora, sul continente europeo, come antitesi tra Germania e Francia. In Europa non è solo la Russia sovietica a rivelarsi nemico giurato della civiltà e razza bianca.

Subito dopo la conquista del potere, Hitler si preoccupa di distinguere nettamente, anche sul piano giuridico, la posizione degli ariani rispetto a quella degli ebrei nonché degli zingari e dei pochi mulatti viventi in Germania (a conclusione della prima guerra mondiale, truppe di colore al seguito dell’esercito francese avevano partecipato all’occupazione del paese). E cioè, elemento centrale del programma nazista è la costruzione di uno Stato razziale. Ebbene, quali erano in quel momento i possibili modelli di Stato razziale? La legislazione segregazionista in vigore nel Sudafrica era stata largamente ispirata dal regime di white supremacy, messo in atto nel Sud degli Stati Uniti dopo la fine della Ricostruzione60. In ultima analisi, agisce un unico modello, ed esso non può non far sentire la sua influenza sul nazismo.

Nel 1937 Rosenberg si richiama certo al Sudafrica: è bene che permanga saldamente «in mano nordica» e bianca (grazie a opportune «leggi» a carico, oltre che degli «indiani», anche di «neri, mulatti e ebrei»), e che costituisca un «solido bastione» contro il pericolo rappresentato dal «risveglio nero». Ma il punto di riferimento principale è costituito dagli Stati Uniti, questo «splendido paese del futuro» che ha avuto il merito di formulare la felice «nuova idea di uno Stato razziale», idea che adesso si tratta di mettere in pratica, «con forza giovanile», mediante espulsione e deportazione di «negri e gialli»61. Ovviamente, in Germania sono in primo luogo i tedeschi di origine ebraica ad occupare il posto degli afro-americani: «la questione negra» – osserva Rosenberg – «è negli Usa al vertice di tutte le questioni decisive»; e una volta che l’assurdo principio dell’uguaglianza sia stato cancellato per i neri, non si vede perché non si debbano trarre «le necessarie conseguenze anche per i gialli e gli ebrei»62.

Sul versante opposto sconfinato è l’odio non solo per la Russia bolscevica ma anche per la Francia, messa in stato d’accusa a partire dall’espulsione degli ugonotti e soprattutto dal 1789. La rivoluzione è letta «rassengeschichtlich», essa è cioè un capitolo cruciale della storia della lotta tra le razze:

 

«Come durante il bolscevismo in Russia il sotto-uomo tatarizzato (der tatarisierte Untermensch) assassinò coloro che in virtù dell’alta statura e dell’altera andatura apparivano sospetti quali signori, così il giacobino popolo nero trascinò sul patibolo quanti erano slanciati e biondi […] Oggi giunge a compimento il prosciugarsi dell’ultimo sangue che abbia ancora un valore. Nel Sud intere regioni sono spopolate e già ora assorbono gli uomini dell’Africa come un tempo Roma. Toulon e Marsiglia inviano nel paese sempre più semi di imbastardimento. A Parigi, attorno a Notre Dame, si addensa una popolazione con una carica disgregatrice sempre più forte. Negri e mulatti vanno a braccetto con donne bianche, mentre sorge un quartiere puramene ebraico con nuove sinagoghe. Ripugnanti boriosi meticci appestano la razza delle donne ancora belle, attratte a Parigi da tutta la Francia [...] Per questo, anche a fare completa astrazione dall’aspetto politico-militare, un avvicinamento alla Francia sarebbe assai pericoloso dal punto di vista della storia razziale».

 

La difesa della razza bianca e della sua purezza esige misure nette: «blocco dell’invasione da parte dell’Africa e sbarramento delle frontiere a partire dalle caratteristiche antropologiche». È cioè necessario filtrare in modo assai attento il flusso degli immigrati in Europa, facendo ricorso – sembra suggerire Rosenberg – alle misure varate dagli Stati Uniti; s’impone «una coalizione nordico-europea al fine di ripulire la patria europea dai semi morbosi di origine africana e siriaca, che si vanno diffondendo»63. E’ una coalizione nel cui ambito è chiamata a svolgere un ruolo centrale la repubblica nordamericana: essa esprime quella visione völkisch che ora si tratta di rendere sistematica e coerente.

 

 

6. Analogie storiche e affinità razziali

Nei confronti degli Stati Uniti la Germania avverte talvolta una forte affinità, evidenziata da una serie di analogie storiche. In primo luogo l’espansione nel Far West richiama alla memoria l’epopea dei cavalieri teutonici. È un motivo ben presente in Hitler, che ad essa fa esplicito riferimento. Occorre seguire le loro orme al fine di costruire un impero territorialmente compatto nell’Europa centro-orientale64, tenendo ben presente il modello americano, di cui Mein Kampf celebra «l’inaudita forza interiore»65. Negli anni del Terzo Reich un manuale di storia che conosce grande fortuna così si esprime a proposito della colonizzazione germanica dell’est europeo: «Era un deserto e, grazie ai tedeschi, è stato trasformato in un’area di grande civiltà»; ecco un’impresa la cui grandezza è «superata soltanto dalla colonizzazione dei nuovi continenti ad opera degli anglosassoni». Non si tratta di un capitolo ormai remoto di storia: resta tuttora fermo che «la missione del popolo tedesco risiede nella civilizzazione dei suoi vicini orientali»66.

Irresistibile è il fascino che esercita la spinta espansionistica dei bianchi nordamericani. Nel 1919 Moeller van den Bruck celebra l’«Amerikanismus» ovvero l’«Amerikanertum» come sinonimo di «conquista territoriale» (Landnahme) e «pionierismo» (Pioniertum): è un «grande» e «giovane principio» che, rettamente inteso, porta a prendere posizione per i «popoli giovani» e le «razze giovani»67. «Americanismo» – ribadisce qualche anno dopo Leopold Ziegler, in un saggio già nel titolo dedicato all’analisi di questo fenomeno ­– non solo esprime la «mentalità delle razze colonizzatrici» ed è sinonimo di «colonizzazione», ma è sinonimo di colonizzazione su larga scala, nel «grande spazio», nel «possente spazio vitale». La storia degli Stati Uniti è «la storia di una inaudita estensione, ampliamento, rigonfiamento», ed essa conferma in modo plastico il principio della «disuguaglianza e difformità nel valore tra le diverse razze» e tra i diversi individui di una medesima razza68. Nel 1928 è Hitler in persona a rendere omaggio all’«americanismo» (Amerikanertum), inteso quale espressione vitale di «un popolo giovane e razzialmente selezionato»69.

Ovviamente, l’espansione di cui qui si parla è ben lungi dall’essere sinonimo di pacifica integrazione e assimilazione di razze tra loro così diverse. Già in Chamberlain possiamo leggere:

«Dagli inizi sino ai giorni nostri vediamo i Germani massacrare intere stirpi e interi popoli oppure ucciderli lentamente, mediante la loro completa demoralizzazione, in modo da far posto a se medesimi […] E’ necessario ammettere che, proprio dove essi sono stati più crudeli – ad esempio gli anglosassoni in Inghilterra, l’Ordine tedesco in Prussia, i francesi e gli inglesi in Nordamerica – lì è scaturito il fondamento più sicuro per ciò che vi è di più alto e di più etico»70.

 

Attualizzando questo discorso, Hitler a sua volta dichiara: è fuorviante, voler realizzare «una germanizzazione dell’elemento slavo in Austria»; non bisogna perdere di vista che «si può intraprendere la germanizzazione del suolo, giammai degli uomini». Sarebbe ridicolo voler fare «di un negro o di un cinese un germano, solo perché ha imparato il tedesco, è pronto in futuro a parlare la lingua tedesca e dare il suo voto ad un partito politico tedesco»: «una tale germanizzazione è in realtà una de-germanizzazione», essa starebbe a significare «l’inizio di un inbastardimento» e dunque di «un annientamento dell’elemento germanico»71, l’«annientamento proprio delle caratteristiche, che a suo tempo hanno messo in grado il popolo conquistatore (Eroberervolk) di giungere alla vittoria»72. E, ancora una volta, il leader nazista si richiama agli Stati Uniti: essi si sono preoccupati di fondere in «un popolo giovane» gli elementi «razzialmente uguali» o affini (gli immigrati europei e soprattutto i nordici), non certo «uomini di sangue estraneo e con un sentimento nazionale o un istinto razziale ben definito»(in primo luogo neri e gialli); «l’Unione americana si considera essa stessa uno Stato nordico-germanico e non già una poltiglia internazionale di popoli»73.

Dopo la conquista del potere e lo scatenamento della guerra, il Führer ribadisce il suo punto di vista: la guerra contro gli «indigeni» dell'Europa orientale viene assimilata alla «guerra contro gli indiani», alla lotta «mossa agli indiani dell'America del Nord»; in un caso e nell’altro «sarà la razza più forte a trionfare»74.

Ma quella appena analizzata non è l’unica analogia su cui fa leva la cultura reazionaria tedesca sfociata nel nazismo. Tra Otto e Novecento il Ku Klux Klan e i teorici della white supremacy bollano gli Stati Uniti scaturiti dall’abolizione della schiavitù e dalla massiccia ondata di immigrati provenienti ora anche dall’Oriente o da paesi ai margini dell’Europa come una «civiltà bastarda»75 o come una «cloaca gentium»76. Agli occhi di Hitler la Vienna nella quale egli si è formato appare come «la città mulatta di Oriente e Occidente»77 e l’Austria come un caotico «conglomerato di popoli», come una «babilonia di popoli» ovvero un «regno babilonico», lacerato da un «conflitto razziale»78, che sembra doversi concludere con una catastrofe: avanza il processo di slavizzazione e di «cancellazione dell’elemento tedesco» (Entdeutschung), col tramonto quindi della superiore razza che aveva colonizzato l’Oriente e vi aveva apportato la civiltà79.

La Germania dove poi Hitler approda conosce, in seguito alla «Guerra di Secessione dei bianchi» (di cui parla Stoddard), sconvolgimenti senza precedenti, paragonabili in qualche modo a quelli verificatisi nel Sud degli Stati Uniti dopo la guerra di Secessione propriamente detta: ben al di là della perdita delle loro colonie, i tedeschi sono costretti a subire l’occupazione militare delle truppe di colore al seguito delle potenze vincitrici. Ora, a giudicare sempre dal Mein Kampf, anche la Germania si è trasformata in un «miscuglio razziale»80. Ad acuire la sensazione del pericolo di un definitivo tramonto della civiltà provvede poi la rivoluzione d’Ottobre che, rivolgendo ai popoli coloniali l’appello a ribellarsi, legittima l’infamia dell’occupazione militare nera. Come nel Sud degli Stati Uniti gli abolizionisti sono bollati quali rinnegati della propria razza, così traditori della razza germanica e occidentale appaiono agli occhi di Hitler prima i socialdemocratici e poi, a maggior ragione, i comunisti.

Tanto più fortemente agiscono queste «analogie» quanto più profondamente è avvertita l’affinità razziale che lega i germani sulle due rive dell’Atlantico. A scanso di equivoci è bene tener presente che a sottolineare tale affinità non sono solo i tedeschi. Ritorniamo alla testimonianza del vice-console dell’Impero austro-ungarico: «l’Homo Europaeus, il tipo germanico ovvero nordico trova in America gli ammiratori più numerosi»81. Anzi, vedremo nell’ultimo paragrafo di questo saggio i campioni della white supremacy sciogliere un inno alla purezza e all’unità dei «popoli teutonici».

 

 

7. L’antisemitismo tra Stati Uniti, Russia bianca e Germania

 

E’ vero, sinora ho fatto intervenire in misura solo limitata un elemento centrale dell’ideologia nazista, e cioè l’antisemitismo. Ma anche a questo proposito occorre prendere congedo dai luoghi comuni. Siamo in presenza di un flagello che non è affatto esclusivo del Vecchio Mondo. Un suo capitolo decisivo si svolge proprio negli Stati Uniti in cui infuria la controrivoluzione razzista che fa seguito al fugace esperimento di democrazia multirazziale. Ben presto il Ku Klux Klan manifesta la tendenza a far valere la «supremazia bianca» nei confronti degli ebrei, oltre che dei neri. Il razzismo biologico che da secoli infierisce a danno dei secondi comincia ad investire anche i primi, ciò che rappresenta un pauroso salto di qualità rispetto alla tradizionale giudeofobia religiosamente motivata. Da un pezzo il linciaggio colpiva i neri e i gruppi etnici considerati più o meno estranei alla razza bianca. Ed ecco che questa pratica il 17 agosto 1915 inghiotte la vita dell’ebreo Leo Frank, accusato anche lui di essere dominato da una sessualità animalesca, pronta a far ricorso alla violenza pur di possedere e abbassare al suo livello una donna di civiltà superiore. Il linciaggio ha luogo in una società che continua a venerare la memoria della Confederazione schiavista e dove, accanto alle parole d’ordine che prendono di mira gli ex-schiavi, comincia a risuonare una nuova: «Impicca l’ebreo, impicca l’ebreo!»82 Il Ku Klux Klan è il primo movimento in Occidente a coniugare agitazione antisemita e violenza squadristica, un fenomeno sino a quel momento confinato alla Russia zarista.

D’altro canto, il tema dell’occulta regia ebraica del movimento rivoluzionario che scuote l’Occidente è ben presente nei teorici statunitensi della white supremacy. Grant sottolinea la «leadership semitica» del «bolscevismo» e Stoddard bolla come «largamente giudaico» il «regime bolscevico della Russia sovietica»83. Ma in questo contesto la nostra attenzione si deve concentrare soprattutto sulla figura di Henry Ford. Subito dopo l’ottobre 1917, il magnate dell'industria automobilistica, si impegna a denunciare la rivoluzione bolscevica come il risultato del complotto ebraico e a tale scopo fonda una rivista di larga tiratura, il «Dearborn Indipendent»: gli articoli qui pubblicati sono raccolti nel novembre 1920 in un volume, L'ebreo internazionale, che subito diventa un punto di riferimento dell'antisemitismo internazionale. A conferma della tesi del complotto, l’industriale americano agita i Protocolli dei Savi di Sion, la cui credibilità risulta rafforzata, in quanto a testimoniare in suo favore è ora una personalità che non è un politico di professione e che è nota per la sua intelligenza e il suo senso pratico. E’ vero, dopo qualche tempo Ford è costretto a mettere la sordina alla sua campagna, ma intanto il libro è stato tradotto in Germania dove ha riscosso uno straordinario successo. Più tardi diranno di essersi ispirati al magnate dell’industria automobilistica statunitense o di aver da lui preso le mosse gerarchi nazisti di primo piano come von Schirach e Himmler. Il secondo in particolare racconta di aver compreso «la pericolosità dell'ebraismo» solo a partire da Ford: «per i nazionalsocialisti fu una rivelazione». Seguì poi la lettura dei Protocolli dei Savi di Sion: «Questi due libri ci indicarono la via da percorrere per liberare l'umanità afflitta dal più grande nemico di tutti i tempi, l'ebreo internazionale» (si noti la formula cara ad Henry Ford). E questi due libri, sempre secondo Himmler, avrebbero svolto un ruolo «decisivo» (ausschlaggebend) anche nella formazione del Führer84. Potrebbe trattarsi di testimonianze in parte interessate. C’è però un dato di fatto: nei colloqui di Hitler con Dietrich Eckart, la personalità che ha avuto su di lui la maggior influenza (Mein Kampf si conclude rendendole solenne omaggio), si fa ben avvertire l’influenza dello «scritto straordinariamente importante» del «noto produttore americano di auto»85. Ford è ben presente anche quando non è esplicitamente citato. In ogni caso la tesi da lui formulata già nel 1920, secondo cui a dimostrare la veridicità dei Protocolli è il ruolo oscuro e infame svolto dagli ebrei nel corso della guerra e soprattutto in occasione degli sconvolgimenti in Russia («la rivoluzione russa è di origine razziale, non politica», ed essa, servendosi di parole d’ordine umanitarie e socialiste, esprime in realtà un’«aspirazione razziale al dominio mondiale»86) non può non avere un impatto particolarmente devastante in un paese come la Germania, che ha subìto la disfatta e si sente ancora minacciata dalla rivoluzione: Lebreo internazionale appare come un’illuminazione folgorante al movimento sciovinista, revanscista e antisemita che si va paurosamente ingrossando.

Risulta ora evidente il carattere superficiale e strumentale della contrapposizione tra Europa e Stati Uniti, come se la tragica vicenda dell’antisemitismo non avesse coinvolto entrambi. Nel 1933 Spengler sente il bisogno di fare questa precisazione: la giudeofobia da lui apertamente professata non va confusa col razzismo «materialistico» caro agli «antisemiti in Europa e in America»87. L’antisemitismo biologico che soffia impetuoso anche al di là dell’Atlantico è considerato eccessivo persino da un autore pure impegnato in una requisitoria contro la cultura e la storia ebraica in tutto l’arco della sua evoluzione. E’ anche per questo che Spengler appare pavido e inconseguente agli occhi dei nazisti. I loro entusiasmi si rivolgono altrove: L'ebreo internazionale continua ad essere pubblicato con grande onore nel Terzo Reich con prefazioni che sottolineano il decisivo merito storico dell'autore e industriale americano (nell'aver fatto luce sulla «questione ebraica») e rilevano una sorta di linea di continuità da Henry Ford a Adolf Hitler!88

Negli Usa, nei circoli impegnati a difendere la white supremacy e in primo luogo in Stoddard dichiarata è l’ostilità nei confronti di questa razza «asiatica» che sono gli ebrei89. Le ossessioni razziali si intrecciano con quelle eugenetiche, sicché non mancano coloro che agli inizi del Novecento pensano di fronteggiare la «malattia» (disease) contagiosa diffusa dagli ebrei mediante lo «sterminio» (extermination) dei bacilli, in modo da realizzare la necessaria «disinfestazione» (disinfection) della società90. Tanto più è necessario far ricorso a misure di un radicalismo estremo – sottolineano altre voci dopo la rivoluzione d’ottobre – perché solo così si può bloccare l’«imperialismo giudaico, col suo obiettivo finale di stabilire un dominio ebraico su scala mondiale». Un duro destino attende il popolo responsabile di questo infame progetto: in Russia si profilano «massacri degli ebrei tali […] da essere ritenuti sinora impossibili», e dunque «di una scala senza precedenti nei tempi moderni»91.

Quest’ultima è in realtà una profezia post factum. Essa è pronunciata in un momento in cui infuriano i pogrom antisemiti scatenati dai russi bianchi (che godono dell’appoggio dell’Intesa). E questa seconda (tentata) controrivoluzione, in cui non hanno difficoltà a riconoscersi i campioni statunitensi della white supremacy, entra a far parte anch’essa del bagaglio ideologico del movimento nazista, che ovviamente può far tesoro altresì della tradizione antisemita autonomamente sviluppatasi in terra tedesca.

 

 

8. Il nazismo come progetto di white supremacy a livello planetario

 

Ai teorici della white supremacy fa indiretto riferimento Hitler in persona, allorché nel 1928 si esprime assai positivamente sull’«Unione americana» che, «stimolata dalle dottrine di alcuni ricercatori razziali, ha fissato determinati criteri per l’immigrazione»92. E’ un esempio dal quale bisogna saper trarre profitto: «Sarà compito del movimento nazionalsocialista introdurre praticamente nella politica applicata i risultati già disponibili della dottrina della razza». Peraltro, gli insegnamenti provenienti da oltre Atlantico sono preziosi anche sul piano più propriamente teorico; siamo in presenza di «conoscenze e risultati scientifici», di una generale «dottrina della razza» che illumina la «storia mondiale»93. Ecco ora a disposizione una chiave preziosa per leggere adeguatamente, andando al di là delle superficiali apparenze, i conflitti politici e sociali non solo del presente ma anche del passato.

Conviene concentrare in particolare l’attenzione sull’influenza esercitata sulla reazione tedesca e sul nazismo da Stoddard. Abbiamo visto la grande considerazione che a lui riservano in particolare Ratzel, Spengler e Rosenberg: ma si tratta di un autore elogiato anche da due presidenti statunitensi (Warren Gamaliel Harding e Herbert Hoover). Dà da pensare soprattutto l’interpretazione del primo: «Chiunque si prenderà il tempo di leggere attentamente il libro di Lothrop Stoddard, La marea montante dei popoli di colore, si renderà conto che il problema razziale presente negli Stati non è altro che un aspetto del conflitto razziale che il mondo intero sta fronteggiando». Si comprende allora l’interesse simpatetico e persino l’entusiasmo del nazismo. Allorché trascorre alcuni mesi in Germania, Stoddard incontra non soltanto i più grandi «scienziati» della razza, ma anche i più alti gerarchi del regime, e cioè Himmler, Ribbentropp, Darré e il Führer in persona94.

Tutto ciò non deve stupire. Il Terzo Reich si presenta come il tentativo, portato avanti nelle condizioni della guerra totale e della guerra civile internazionale, di realizzare un regime di white supremacy su scala planetaria e sotto egemonia tedesca, facendo ricorso a misure eugenetiche, politico-sociali e militari.

Occorre evitare – osserva Rosenberg nel 1927 – lo scontro suicida verificatosi durante il primo conflitto mondiale:

«Il programma può così essere sinteticamente formulato: l’Impero britannico si assume la protezione della razza bianca in Africa, India e Australia, il Nordamerica si assume la protezione della razza bianca sul continente americano, mentre la Germania se l’assume in tutta l’Europa centrale in strettissima alleanza con l’Italia, la quale ottiene il controllo sul Mediterraneo occidentale allo scopo di isolare la Francia e di sconfiggere i tentativi francesi di condurre l’Africa nera alla lotta contro l’Europa bianca»95.

Ma è soprattuto importante il discorso già citato di Hitler agli industriali tedeschi alla vigilia della conquista del potere. Ai suoi occhi chiara è la questione decisiva attorno alla quale ruotano tutte le altre: «futuro o tramonto della razza bianca»96. Al fine di sventare le minacce che incombono sulla «posizione dominante della razza bianca» occorre rafforzare ad ogni livello la sua «attitudine al dominio» (Herrensinn)97. Occorre altresì individuare con chiarezza il nemico, senza perdere di vista il fatto che a stimolare per un verso la rivolta dei popoli coloniali e per un altro verso a incrinare la buona coscienza dei bianchi in quanto detentori di un diritto naturale al dominio è la nefasta agitazione bolscevica (o meglio ebraico-bolscevica). Essa promuove la «confusione del pensiero bianco europeo» ovvero del «pensiero europeo e americano» e mira in ultima analisi a «distruggere ed eliminare la nostra esistenza in quanto razza bianca»98. La lotta che la razza e la civiltà bianca conducono contro i suoi nemici è la chiave per poter dischiudere la comprensione di tutti i conflitti: la Spagna conquistata da Franco è la Spagna caduta «in mano bianca»99, e ciò nonostante che alla vittoria abbiano contribuito in misura rilevante le truppe coloniali marocchine.

Invece che di «bianchi», Hitler preferisce talvolta parlare di «nordici», «ariani» ovvero di «occidentali»: «Anche il nostro popolo e il nostro Stato sono stati edificati facendo valere l’assoluto diritto e coscienza signorile del cosiddetto uomo nordico, delle componenti razziali ariane che ancora oggi possediamo nel nostro popolo»100. Ma i termini in questione sono usati in larga misura come sinonimi anche nei teorici statunitensi della white supremacy. Resta fermo che per Hitler dallo spazio sacro della civiltà sono esclusi i popoli coloniali (compresi gli «indigeni» dell’Europa orientale dove la Germania è chiamata ad edificare il suo impero continentale), i bolscevichi e, naturalmente, gli ebrei, estranei alla razza bianca, all’Occidente e alla civiltà per una molteplicità di ragioni: provengono dal Medio Oriente, sono concentrati in Europa orientale, sono i principali ispiratori dell’orientale barbarie bolscevica e, per di più, fanno di tutto per aizzare il conflitto tra i popoli bianchi e occidentali.

Alla luce del tradimento consumato da un paese come la Francia nei confronti della razza bianca, è chiaro che è «compito soprattutto degli Stati germanici» bloccare il processo di «bastardizzazione»101. Come sappiamo, avendo evitato la contaminazione razziale cui hanno soggiaciuto i latini, gli Stati Uniti hanno conseguito una posizione dominante sul continente americano. Grazie alla coerenza e alla radicalità con cui lotta per la supremazia bianca e ariana a livello planetario la Germania è destinata a svolgere un ruolo egemone in Europa e, in prospettiva, nel mondo. Eloquente è la conclusione di Mein Kampf: «Uno Stato che, nell’epoca dell’avvelenamento delle razze, si dedica alla cura dei suoi migliori elementi razziali, diventerà necessariamente padrone della terra»102. La sordità degli altri paesi germanici a far fronte comune col Terzo Reich contro la minaccia rappresentata dalla rivolta dei popoli coloniali e dalla cospirazione ebraico-bolscevica è espressione non solo di cecità politica ma anche di imbastardimento razziale. Sul suo diario Goebbels annota: le élites inglesi «a causa dei matrimoni ebraici sono così fortemente infette di ebraismo che in pratica non sono più in grado di pensare in modo inglese»103. Agli occhi del Führer «ebreo marocchino» è il ministro inglese della guerra e «sangue ebraico» scorre nelle vene di F. D. Roosevelt, la cui moglie ha comunque un «aspetto negroide»104.

Con l’estendersi della guerra agli Stati Uniti, questi cominciano ad essere letti in modo analogo a quello in cui i teorici statunitensi della white supremacy e lo stesso Hitler avevano letto l’America Latina: anche la repubblica nordamericana è ormai caratterizzata da «un miscuglio di sangue giudaico o negrizzato»105. La disfatta incombe già sul Terzo Reich, e tuttavia il suo leader si atteggia sino alla fine a campione della causa della white supremacy: continua a pronunciarsi per il «dominio bianco» e a celebrare l’espansione dei «bianchi» in America; disgraziatamente, l’«americanismo» risulta ormai «giudaizzato» e degenerato106. La «de-arianizzazione» di cui Stoddard aveva parlato a proposito dell’America Latina viene ora chiamata a spiegare la guerra che la repubblica nordamericana conduce contro un altro popolo germanico e l’alleanza da essa stipulata col nemico mortale (la Russia bolscevica ed ebrea) della razza bianca.

A lungo il nazismo trae motivi di ispirazione dal linguaggio (e dagli istituti e dalle pratiche) degli Usa della white supremacy. Non si tratta solo dell’Untermensch e della Erbgesundheitslehre e dell’orrore per la Rassenmischung e la Rassenschande ovvero Blutschande. Il Terzo Reich priva gli ebrei della cittadinanza politica: come l’America era riservata ai bianchi così la Germania è ora un paese degli ariani. Coloro che risultano contaminati da sangue ebraico sono «mulatti» (Mischlinge)107, così come «mulatti» (Mischlinge) sono negli Stati Uniti coloro nelle cui vene dovesse scorrere una sola goccia di sangue nero. Del resto, quando per qualche tempo i gerarchi nazisti pensano di introdurre la segregazione razziale nelle ferrovie a danno degli ebrei, è chiaro che alle loro spalle agisce il precedente delle misure analoghe messe in atto negli Stati Uniti (e in Sudafrica) a danno dei neri108.

Hitler non perde di vista neppure la sorte riservata agli amerindi. A suo tempo Ratzel aveva osservato: «Mal collocata, la riserva (Reservation) funziona come una prigione o peggio, dato che essa non garantisce il mantenimento della vita»; «gli indiani sono costretti a rimanere sui loro campi aridi e infruttuosi, è loro negato il permesso di cercare una nuova sistemazione»109. Secondo Hitler sono i polacchi, gli indigeni dell’Europa orientale a dover essere rinchiusi in una «riserva» (Reservation) ovvero in un grande «campo di lavoro» (Arbeitslager)110. Con maggiore precisione, Hans Frank, che dirige il «Governatorato generale» (i territori polacchi non incorporati direttamente nel Reich), dichiara che i polacchi sono chiamati a vivere in «una sorta di riserva»: sono «sottoposti alla giurisdizione tedesca» senza essere «cittadini tedeschi»111 (era il trattamento riservato per l’appunto ai pellerossa).

Se i polacchi e gli abitanti dell’Europa orientale da espropriare, deportare e decimare sono gli indiani della situazione, i sopravvissuti, destinati a erogare lavoro servile o semiservile, sono i neri: ai tedeschi non è lecito «mescolarsi […] sul piano del sangue» con una razza servile112.

Un destino ancora più tragico attende gli ebrei. Essi – aveva osservato Stoddard – occupano una posizione eminente «nel “corpo degli ufficiali” della rivolta» bolscevica e coloniale113. E’ la logica che presiede nel Terzo Reich alla «soluzione finale». E’ interessante notare che anche questo termine fa la sua apparizione negli Stati Uniti tra Otto e Novecento, in libri che, sia pure in modo ancora vago e senza la coerenza genocida di Hitler, invocano la «soluzione finale e completa» (final and complete solution) ovvero la «soluzione finale» (ultimate solution) della questione rispettivamente dei «popoli inferiori» o dei neri in modo particolare114.

Agli inizi del Novecento, negli anni che precedono la formazione del movimento nazista in Germania, ad esprimere l’ideologia dominante nel Sud degli Stati Uniti sono i «Giubilei della supremazia bianca», che vedono sfilare uomini armati e in divisa, ispirati da «una professione di fede razziale» così formulata:

«1) “Conterà il sangue”; 2) la razza bianca deve dominare; 3) I popoli teutonici si dichiarano per la purità delle razze; 4) il negro è un essere inferiore e rimarrà tale; 5) “Questo è un paese dell’uomo bianco»”; 6) Nessuna uguaglianza sociale; 7) Nessuna uguaglianza politica […]; 10) Si impartisca al negro quell’istruzione professionale che si adatti meglio a farlo servire al bianco […]; 14) Che l’uomo bianco di più bassa condizione conti maggiormente del negro di condizione più elevata; 15) Le suddette dichiarazioni indicano le direttive della Provvidenza»115.

A professare questo catechismo sono uomini impegnati ad affermare nella teoria e nella pratica l’assoluta «superiorità dell’ariano» e sono pronti persino a «mandare all’inferno» la Costituzione, pur di sventare «la minaccia nazionale spaventosa, infausta» rappresentata dai neri. Sì – osservano isolate voci critiche – terrorizzati come sono, «i negri non fanno male» a nessuno e tuttavia le bande razziste sono pronte a «ucciderli e cancellarli dalla faccia della terra»; sono decise a instaurare «un’autocrazia assolutistica di razza», con l’«assoluta identificazione della razza più forte con l’esigenza stessa dello Stato»116.

Si comprende allora che, dopo aver richiamato l’attenzione sui tratti comuni al Ku Klux Klan e al movimento nazista (agli uomini in divisa bianca del Sud degli Stati Uniti e alle «camicie brune» tedesche), una studiosa statunitense dei giorni nostri ritiene di poter giungere a questa conclusione: «Se la Grande depressione non avesse colpito la Germania con tutta la forza con cui in effetti la colpì, il nazionalsocialismo potrebbe essere trattato come talvolta viene trattato il Ku Klux Klan: come una curiosità storica, il cui destino era già segnato»117. E cioè, più che la storia ideologica e politica (assai simile nei due paesi), a spiegare il mancato avvento dell’«autocrazia assolutistica di razza» negli Stati Uniti e il trionfo della dittatura hitleriana in Germania sarebbe la diversità della situazione oggettiva e il diverso impatto della crisi economica. E’ probabile che questa affermazione sia eccessiva. Restano fermi i rapporti di scambio e di collaborazione, all’insegna del razzismo anti-nero e antiebraico, che già negli anni ’20 si stabiliscono tra il Ku Klux Klan e i circoli tedeschi di estrema destra. E c’è comunque da chiedersi se, per comprendere la realtà del Terzo Reich, la categoria di «autocrazia assolutistica di razza» non risulti più precisa di quella di «totalitarismo». Iniziata nel Sud degli Stati Uniti e ingrossatasi ulteriormente a partire dalla lotta contro un paese, la Russia sovietica che, per dirla con Stoddard, aveva visto l’ascesa al potere dei «rinnegati» della razza bianca, ovvero che, per dirla con Spengler, aveva gettato via la «maschera "bianca"» ed era entrata a far parte dell'«intera popolazione di colore della terra», la controrivoluzione scoppiata in nome della white supremacy sfocia alfine nel nazismo.

 

Domenico Losurdo

 

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1 Losurdo 2005, capp. IX, § 2 e X, § 5.
2 Chamberlain 1937, pp. 997 e 33.
3 Cfr. Losurdo 2007, cap. V, § 2.
4 Cfr. Losurdo 2003, § 4.
5 Navarro 1999.
6 Hitler 1965, p. 1682 (30 marzo 1941).
7 Hitler 1965, pp. 1237-38 (22 agosto 1939) e p. 1591 (2 ottobre 1940).
8 Hitler 1965, p. 1238 (22 agosto 1939).
9 Hitler 1965, p. 1682 (30 marzo 1941) e p. 1591.
10 Hitler 1965, p. 1682 (30 marzo 1941) e p. 1591.
11 Goebbels 1991, p. 1659 (19 agosto 1941).
12 Hitler 1965, p. 75 (discorso del 27 gennaio 1932).
13 Rosenberg 1937, pp. 102 e 214; Hitler 1965, p. 1773 (8 novembre 1941).
14 Hitler 1965, pp. 1937, 1920 e 1828-29 (8 novembre, 30 settembre e 30 gennaio 1942).
15 Rosenberg 1937, p. 214; Stoddard 1984; Stoddard 1925b.
16 Così Hermann Gauch (Neue Grundlagen der Rassenforschung, Leipzig 1933), riportato in Poliakov, Wulf 1978, p. 409.
17 Stoddard 1984, pp. 22-4 e 86-7; per la tr. ted. cfr. Stoddard 1925b, pp. 23-4 e 70-1.
18 Kühl 1994, p. 16.
19 Cfr. Roosevelt 1951, vol. I, pp. 487 nota 4, 647 e 1113 e vol. II, p. 1053.
20 Hoffmann 1913, p. 15.
21 Spengler 1980, p. 683.
22 Hitler 1965, p. 1422 (23 novembre 1939).
23 Stoddard 1984, p. 249.
24 Stoddard 1984, p. 42.
25 Ploetz 1895, pp. 3 e 215.
26 Ploetz 1895, pp. 77-9.
27 Hoffmann 1913, pp. IX, 17, 111 e 114.
28 Hoffmann 1913, pp. 67-8 e 17.
29 Cfr. Losurdo 2002, cap. 27, § 7.
30 Hoffmann 1913, pp. 114, 14 e 125.
31 Lifton 1988, p. 29.
32 Günther 1934, p. 465.
33 Ratzel 1893, pp. 282-3 e 180-1.
34 Ratzel 1893, pp. 179-182 e 283.
35 Hoffmann 1913, pp. 46 e 67-8.
36 Ziegler 1926, p. 77.
37 Günther 1934, p. 465 e nota.
38 Stoddard 1971, p. 227 nota 1.
39 Stoddard 1971, pp. VI-VII e 172 sgg.; cfr. Losurdo 2007, cap. IV.
40 Stoddard 1971, pp. VI-VII, 179, 196 e 219-221.
41 Spengler 1933a, p. 153 nota 1.
42 Spengler 1933a, p. 151.
43 Spengler 1933a, p. 150.
44 Spengler 1933a, p. 150.
45 Stoddard 1971, pp. 115-116.
46 Stoddard 1971, pp. 109-110 e 141-142
47 Stoddard 1971, p. 123.
48 Spengler 1933a, p. 155.
49 Stoddard 1971, pp. 141-142 e 3-4.
50 Stoddard 1984, p. 146; Stoddard 1971, p. 227 nota 1.
51 Spengler 1937, pp. 84-5 e 88; Spengler 1933a, p. 164, Spengler 1933b, pp. 166 e 290-1.
52 Spengler 1937, p. 84.
53 Moeller van den Bruck 1919, p. 83.
54 Hitler 1939, pp. 313-4.
55 Hitler 1939, p. 490.
56 Hitler 1939, pp. 487-491.
57 Hitler 1939, p. 730.
58 Hitler 1961, p. 152.
59 Hitler 1961, p. 152.
60 Noer 1978, pp. 106-7, 115 e 125.
61 Rosenberg 1937, pp. 666 e 673.
62 Rosenberg 1937, pp. 668-9.
63 Rosenberg 1937, pp. 102-4.
64 Hitler, 1939, p. 154.
65 Hitler 1939, pp. 153-4.
66 Haller 1940, pp. 142 e 144.
67 Moeller van den Bruck 1919, pp. 84, 102 e 39-40.
68 Ziegler 1926, pp. 69-71, 73 e 77.
69 Hitler 1961, p. 125.
70 Chamberlain 1937, p. 864.
71 Hitler 1939, p. 428.
72 Hitler 1939, p. 429.
73 Hitler 1961, pp. 131-2.
74 Losurdo 2007, cap. V, § 6.
75 MacLean 1994, p. 133.
76 Grant 1917, p. 81.
77 Hitler 1961, p. 132.
78 Hitler 1939, pp. 74, 79, 39, 80.
79 Hitler 1939, p. 82.
80 Hitler 1939, p. 439.
81 Hoffmann 1913, p. 114.
82 Sachar 1993, pp. 301-7.
83 Grant 1971, p. XXXI; Stoddard 1984, p. 152.
84 Su Schirach cfr. Shirer 1974, p. 230; su Himmler cfr. Poliakov 1974-90, vol. IV, p. 293.
85 Eckart 1924, p. 52 n. 30.
86 Ford 1933, pp. 128 sgg. e 145.
87 Spengler 1933a, p. 157.
88 Si veda ad esempio il Vorwort della casa editrice tedesca alla 29° e 30° edizione, che porta la data «giugno e agosto 1933»: Ford 1933, pp. 3-5.
89 Stoddard 1971, p. 165.
90 Singerman 1987, p. 112.
91 Bendersky 2000, pp. 58, 54 e 96.
92 Hitler 1961, p. 125.
93 Hitler 1961, p. 127.
94 Kühl 1994, p. 61; il giudizio di Harding è riportato ad apertura di Stoddard 1925a.
95 Riportato in Hildebrand 1969, p. 85.
96 Hitler 1965, p. 78 (27 gennaio 1932).
97 Hitler 1965, p. 75.
98 Hitler 1965, p. 77.
99 Hitler 1965, p. 753 (5 novembre 1937).
100 Hitler 1965, p. 80.
101 Hitler 1939, p. 444.
102 Hitler 1939, p. 782 (Schlusswort).
103 Goebbels 1991, p. 1764 (12 marzo 1942).
104 Cfr. Losurdo 2007, cap. I, § 2.
105 Hitler 1965, p. 1797 (11 dicembre 1941).
106 Hitler 1981, pp. 124-5 e 55-6.
107 Hilberg 1988, pp. 149 sgg.
108 Hilberg 1988, pp. 146-7.
109 Ratzel 1893, p. 229.
110 Hitler 1965, p. 1591 (2 Ottobre 1940).
111 Riportato in Ruge, Schumann 1977, p. 36.
112 Hitler 1965, p. 1591.
113 Stoddard 1984, p. 152.
114 Cfr. Losurdo 2005, cap. 10, § 4.
115 In Woodward 1963, pp. 334-5.
116 In Woodward 1963, p. 332.
117 MacLean 1994, p. 184.

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