Martina Marchesi

 

“L’individualismo imperava, le politiche economiche condannavano milioni di persone alla disoccupazione, la classe lavoratrice veniva divisa e dislocata: in questo contesto, il femminismo abbandonò progressivamente il progetto di emancipazione collettiva, ripiegando su un discorso sempre più solipsista, limitato a una élite che reclamava il suo diritto a essere riconosciuta nella sua diversità, tollerata e integrata nella cultura del consumo[1]”.

 

Negli ultimi anni il discorso femminista ha conosciuto un certo rilancio, anche grazie alla rete di mobilitazioni che su scala globale si sono raccolte attorno allo slogan “Non una di meno”, a cui si è associata una rinnovata presenza nel dibattito pubblico della questione dell’emancipazione femminile.

Questa rinascita ha avuto un impatto rilevante sulla società, tanto da produrre riflessi in forme diverse – da un più ampio interesse del discorso pubblico verso la posizione della donna a innovative elaborazioni teoriche[2], fino alla ripresa dei movimenti femministi quali avanguardie delle lotte sociali. Cercare di orientarsi all'interno di questo quadro composito, ricco di nuovi fermenti e differenti prospettive, appare una necessità sempre più urgente, al fine di coglierne le reali istanze di emancipazione o, al contrario, svelarne le contraddizioni che ne indeboliscono o neutralizzano gli obiettivi dichiarati.

Prima di qualunque altra considerazione, occorre fare i conti con quella sorta di femminismo “pop” che è oggi la versione predominante del discorso di genere[3], un modello di emancipazione che filtra attraverso i mass media, i talk show politici e l’industria cinematografica[4]. Questo punto è ineludibile per tentare un’analisi critica del femminismo dei nostri tempi: giornalmente, infatti, il discorso pubblico manda chiari messaggi in merito alle questioni di genere attraverso il dibattito politico e giornalistico, i programmi di intrattenimento, il cinema, la pubblicità, la musica pop. È questo il “femminismo” che dialoga quotidianamente con le donne di tutto il mondo, ed è pertanto da esso che si deve necessariamente partire per tentare di comprendere i modi di sentire e recepire le questioni di genere nella società.

Qual è quindi il modello di emancipazione che questa doxa ci propone? Prendendo le mosse dalla sua rappresentazione cinematografica più caricaturale (si pensi ad esempio al film sulla figura di Margaret Thatcher, The Iron Lady), potremmo tentarne un affresco idealtipico: la donna emancipata dell’immaginario mediatico esercita ruoli di preminenza sociale – una manager o un dirigente politico – e assume nella sfera privata atteggiamenti e inclinazioni ritenuti tradizionalmente maschili – distacco emotivo, scarse ambizioni di stabilità familiare, insofferenza nei confronti degli obblighi di un legame sentimentale, generale rifiuto di tutte quelle attività storicamente assegnate alle donne che vanno sotto il nome di “lavoro di cura”[5].

Questa forma dell’emancipazione femminile porta il sigillo di un riscatto ottenuto attraverso il semplice ribaltamento dei ruoli all’interno dei tradizionali rapporti di genere. Questo modello fa dell'emancipazione un gioco mimetico a doppio taglio. Da un lato, non mettendo in discussione le pratiche di dominazione e soggezione di cui il genere femminile è stato storicamente vittima, le riproduce e le cristallizza. Dall'altro, svuotando del suo originario contenuto forme di predominio tradizionalmente maschile – la mercificazione del corpo, il dominio sessuale e la subalternità economica – le risemantizza portandole a nuova vita, legittimandole quasi quali mezzi di affrancamento sociale. Si innesca così un paradossale meccanismo che fa dell'antico dominato il nuovo dominatore.

All’interno del dibattito politico e giornalistico la questione si tinge di toni più austeri, mantenendo tuttavia il nocciolo duro dell'approccio mainstream appena descritto: l'emancipazione è vista infatti come mera conquista da parte della donna di posizioni elevate nella gerarchia sociale. La sua manifestazione più compiuta si ha forse nella retorica, ormai egemone, che gravita attorno alle cosiddette “quote rosa”. Il progresso nell’emancipazione femminile è identificato qui con l’assegnazione d’ufficio di incarichi di governo o di dirigenza alle donne in quanto tali, a fronte dello smantellamento di quelle politiche di protezione sociale che potrebbero costituire, al contrario, una base reale e democratica di emancipazione di tutte le donne. Su questo terreno va rilevata poi la contraddizione fra il perseguimento di politiche pubbliche volte alla conservazione di un ruolo tradizionale della donna – quali campagne della fertilità e tagli alla spesa sanitaria – e l'affermazione di leadership femminili come promotrici di questi stessi provvedimenti. Questa versione del femminismo, dunque, si risolve in una “riparazione morale che non aiuta né nutre”[6], rivelandosi uno strumento di perpetuazione di politiche di disuguaglianza sociale, che finisce per approfondire piuttosto che superare tutto il peso della discriminazione.

Il discorso pubblico di genere sembra quindi perfettamente integrato con il sistema del capitalismo liberale. Ciò che, in questa prospettiva, si perde del tutto è evidentemente il necessario legame tra emancipazione di genere e emancipazione umana. È forse su questo punto che bisognerebbe quindi soffermarsi: che cosa si intende per emancipazione di genere? È possibile il superamento della discriminazione di una parte del corpo sociale lasciando sostanzialmente immutate le fondamenta di quella stessa società che rende possibile tale discriminazione? Si deve pensare all’emancipazione della donna in sé o, piuttosto, ripensare quell'intera società che crea le condizioni di possibilità del bisogno di un’emancipazione della donna[7]? Soltanto muovendo da un'analisi profonda del ruolo che il genere femminile svolge all’interno di una società storicamente determinata si può pervenire a una reale comprensione dell’origine e dei presupposti della discriminazione e, conseguentemente, alla possibilità di pensare al suo superamento. Non tenendo conto delle condizioni strutturali in cui si produce una disuguaglianza sociale, qualsiasi rivendicazione finirebbe per essere, nel migliore dei casi, inefficace, nel peggiore, complice.

Dopo una millenaria oppressione dal dominio maschile, l’attuale forma del discorso pubblico femminista sembra mettere capo a una paradossale complicità verso la perpetuazione di forme di soggezione e prevaricazione sociale. Com'è stato possibile tutto questo? Per tentare di comprendere le cause di questo processo dobbiamo spostare la riflessione verso la storia recente, sia nel suo insieme, sia con riferimento ai movimenti femministi e alle elaborazioni teoriche che li hanno accompagnati.

Se il femminismo della seconda ondata aveva inizialmente espresso un forte sodalizio tra rivendicazioni di genere e rivendicazioni socioeconomiche, i mutamenti politici determinatisi su scala globale a partire dagli anni Ottanta influirono notevolmente sui destini della lotta femminista, mutandone significativamente gli obiettivi. Il pensiero femminista degli anni Settanta aveva infatti analizzato criticamente il ruolo tradizionale assegnato alla donna dall’ordine fordista, la cristallizzazione della figura femminile come casalinga e consumatrice all’interno dello spazio domestico e la sua estromissione dalla sfera produttiva attraverso il “salario familiare”[8]. Questa prospettiva evidenziava come il ruolo sociale assegnato alla donna nella società fordista fosse funzionale all’accumulazione capitalistica, rispondendo a specifiche esigenze di crescita e di riproduzione del sistema stesso e come l’intreccio tra “mercatizzazione e protezione sociale[9]” si fondasse su rigide gerarchie di genere (e razziali). In questa fase la convergenza tra alcune correnti del femminismo e il pensiero marxista[10] dette vita a numerose elaborazioni volte ad indagare la relazione tra riproduzione sociale e modo di produzione e la compenetrazione reciproca tra patriarcato e capitalismo[11], in direzione di un’unica visione critica del sistema nel suo complesso. In particolare, il dibattito sul lavoro domestico e, successivamente, quello sulla riproduzione sociale furono estremamente fecondi[12], proponendosi di analizzare il rapporto strutturale tra oppressione di genere e capitalismo.

Se dunque il femminismo della seconda ondata aveva mirato ad un allargamento dei processi di democratizzazione del welfare state alle questioni di genere, il rinnovato impulso che le politiche del libero mercato conobbero nel decennio successivo e il conseguente violento attacco alle conquiste sociali che il compromesso socialdemocratico aveva reso possibili scossero profondamente il terreno su cui le rivendicazioni di genere avevano poggiato fino a quel momento.  L'ascesa del neoliberismo su scala globale ebbe l'effetto di ridimensionare notevolmente le ambizioni della lotta femminista, all’interno di una più generale parabola involutiva intrapresa dalle lotte sociali. Tale mutamento di indirizzo agì su un duplice piano: se, dal lato delle elaborazioni teoriche, il progressivo abbandono del marxismo portò le intellettuali femministe verso l'interpretazione del genere come differenza e come identità, intraprendendo la cosiddetta “svolta culturale”, sul piano politico la lotta femminista accantonò gradualmente i temi del lavoro domestico e della riproduzione in favore di politiche del riconoscimento e della rappresentanza. L’esaltazione della differenza sessuale e la valorizzazione dell’identità femminile finirono per marginalizzare lo stesso movimento femminista che, abbandonata la critica dell’ordine sociale nel suo insieme, rimase confinato alle battaglie per il riconoscimento della differenza all’interno delle cornici democratiche. Il pensiero femminista passò così “dall’essere una lotta per una radicale trasformazione sociale a una trasgressione simbolica resistente”[13].

Pur avendo avuto il merito di aver ampliato l'approccio femminista arricchendolo della dimensione culturale (che, nel caso delle questioni di genere in particolare, vive di una sua relativa autonomia), questo allentamento e progressivo abbandono dei riferimenti strutturali ha portato il femminismo ad essere parte di quel processo di sussunzione delle istanze di emancipazione al discorso capitalistico nella nuova fase neoliberista[14]. Una temperie ideologica che, nutrendosi delle culture della differenza, ha progressivamente trasformato l'eguaglianza in garanzia di pari opportunità, e l'emancipazione economica e politica delle minoranze in semplice acquisizione e difesa di diritti civili e individuali[15]. La parcellizzazione delle identità insita in questo quadro di riferimento ha dato luogo a un panorama di sottoculture dell'emancipazione frammentato e irrelato, del tutto vulnerabile di fronte alla forza e alla compattezza dell'avversario politico. In linea con questa tendenza, il progressivo slittamento del pensiero femminista “dalla redistribuzione al riconoscimento”[16] ha posto le premesse per il graduale e costante processo di confisca delle istanze femministe da parte del discorso neoliberale nel corso degli ultimi trent’anni. 

Il rilancio che sta conoscendo oggi il movimento femminista ha il merito di aver reintrodotto e approfondito la riflessione su alcune tematiche centrali quali la denuncia degli abusi sessuali[17] e la posizione di subalternità della donna nella società. In alcune sue componenti questi temi sono stati riarticolati all'interno di una più ampia analisi critica dei processi socio-economici – come la precarizzazione del lavoro e l'indebolimento della protezione sociale – che contribuiscono a determinare le disuguaglianze di genere. Un tentativo in questa direzione è stato intrapreso, ad esempio, attraverso la teoria dell’intersezionalità[18], che tenta di mettere in relazione la discriminazione di genere con altre forme di oppressione, analizzando come esse agiscano simultaneamente sulla soggettività a gradi e intensità diverse. Tuttavia, questi approcci analitici rimangono in gran parte legati ad un immaginario fortemente orientato verso la dimensione culturale e nettamente schiacciato su una visione identitaria e differenzialista del genere. Su queste basi, la rinascita femminista tende a perdere la capacità di porsi in netta discontinuità con il discorso pubblico di genere ormai dominante, legato come si è visto a un paradigma neoliberale del tutto pacificato con le regole e gli assetti di potere del capitalismo. Viceversa, una relativizzazione della dimensione identitaria in direzione di un riequilibrio tra la dimensione “strutturale” e quella “culturale” dell’analisi di genere, mettendo a frutto anche le elaborazioni di un nuovo “femminismo socialista”[19] recentemente nato in seno al dibattito intellettuale, permetterebbe di sviluppare una prospettiva di reale rottura rispetto alla fase precedente e dar luogo ad un'efficace ripresa dell'antica sinergia tra femminismo e anticapitalismo.

 

[1] A.I. D'Atri, Femminismo e lotta di classe, Red Star Press, Roma 2016, p. 191.

[2] J. Butler, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell'identità, Laterza, Roma-Bari 2013; Eadem, Fare e disfare il genere, Mimesis, Milano 2014; Eadem, L'alleanza dei corpi, Nottetempo, Roma 2017; N. Fraser, Fortune del femminismo, Ombre Corte, Verona 2014; S. Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, Ombre Corte, Verona 2014; Eadem, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l'accumulazione originaria, Mimesis, Milano 2015.

[3] Nell’articolo si userà per semplificazione l’espressione “di genere” come sinonimo di “relativo alla condizione della donna nella società” – oppressione di genere come oppressione della donna, emancipazione di genere come emancipazione femminile ecc. ­–, non facendo pertanto riferimento ad altre accezioni, relative all’identità sessuale e all’orientamento sessuale, che pur rientrano in una più ampia nozione di “gender”.

[4] Rimando a questo proposito, per una prima analisi, a M. Marchesi, Quote rosa e quote rosse. A proposito di “marxilismo”, in “Contropiano. Giornale comunista online”, 8 maggio 2018, http://contropiano.org/news/cultura-news/2018/05/08/quote-rosa-e-quote-rosse-proposito-marxilismo-0103669.

[5] Per un'analisi delle contraddizioni fra “lavoro di cura” e capitalismo cfr. N. Fraser, Contraddizioni del capitale e del 'lavoro di cura', in “MicroMega” (versione online), 11 dicembre 2017, http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2017/12/11/contraddizioni-del-capitale-e-del-%E2%80%98lavoro-di-cura%E2%80%99/.

[6] F. Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino, 1962, p. 79.

[7] In questo senso, un'efficace traccia argomentativa è già presente nella classica analisi marxiana dei limiti dell’emancipazione delle religioni oppresse (K. Marx, Sulla questione ebraica, in K. Marx, F. Engels, Opere complete, vol. III, Editori Riuniti, Roma 1976).

[8] Per un’analisi attenta della relazione tra fordismo e questione di genere cfr. B.W.R. Toscano, “Le donne, il fordismo, Gramsci: una prospettiva di genere sulla società statunitense (1909-1930)”, Diacronie. Studi di Storia Contemporanea, n. 32, 4/2017. http://www.studistorici.com/2017/12/29/toscano_numero_32/.

[9] Riprendo questa espressione da N. Fraser, Contraddizioni del capitale e del 'lavoro di cura', cit.

[10] Non è questa la sede per indagare in maniera esaustiva l’intricato rapporto tra marxismo e femminismo. È bene tuttavia ricordare che né il pensiero marxista in toto né le organizzazioni politiche della sinistra marxista furono esenti dal mostrare sospetto e refrattarietà nei confronti del movimento femminista, dimostrando in diversi casi la persistenza di maschilismo e discriminazione di genere al proprio interno.

[11]  Per la cosiddetta “Unitary Theory” cfr. L. Vogel, Marxism and the Oppression of Women: Toward a Unitary Theory, Rutgers University Press, New Brunswick 1983.

[12] In particolare il dibattito ebbe lo scopo di rivalutare il peso del lavoro domestico, marginalizzato a seguito della separazione tra spazio domestico e luogo produttivo. Partendo dalla premessa comune che il lavoro domestico fosse precondizione necessaria alla riproduzione della forza lavoro, il dibattito si polarizzò sulla natura direttamente produttiva o indirettamente produttiva del lavoro domestico. Si veda al riguardo C. Arruzza, Il genere del capitale: introduzione al femminismo marxista, in Storia del marxismo, vol. III, Economia, politica, cultura: Marx oggi, a cura di S. Petrucciani, Carocci, Roma 2015, pp. 171-194.

[13] A.I. D'Atri, Femminismo e lotta di classe, cit., p. 175.

[14] Per un'analisi dettagliata dell'appropriazione e ri-significazione di valori e tematiche del femminismo da parte del neoliberismo cfr. N. Fraser, Fortune del femminismo, cit., pp. 245-266.

[15] Cfr. al riguardo C. Formenti, Contro il femminismo di regime, in “MicroMega” (versione online), 19 gennaio 2018, http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2018/01/19/contro-il-femminismo-di-regime/.

[16] Cfr. N. Fraser, Fortune del femminismo, cit.

[17] Il tema degli abusi sessuale è stato richiamato all'attenzione pubblica a partire dal 2017 anche dal movimento “Me Too” che tuttavia rimane legato agli ambienti di Hollywood e alle denunce di violenza da parte di numerose celebrità del mondo dello spettacolo non approfondendo o tematizzando oltre la questione di genere.

[18] Il concetto di “intersezionalità” nacque alla fine degli anni Settanta in seno al femminismo afro-americano per denunciare la creazione da parte del femminismo della differenza di un ideale astratto e universale di donna, contrapponendo ad esso una teoria che riconoscesse la molteplicità delle differenze interne alla condizione femminile e la co-simultaneità di diverse forme di oppressione. Nato originariamente per analizzare l’interconnessione tra discriminazione di genere e di razza, il pensiero femminista intersezionale conobbe una notevole diffusione e articolazione, aprendosi ad altre forme di oppressione come quella di classe, di identità sessuale ecc. Ripreso oggi dai movimenti femministi, l’approccio intersezionale afferma come la condizione di discriminazione vissuta da un’identità sia irriducibile a una singola chiave interpretativa o a un unico asse di oppressione. In questo senso perciò “classismo, sessismo e razzismo si intrecciano indissolubilmente in una cultura che ci fa sembrare come naturale, inevitabile e immutabile l’ordine delle cose” (https://nonunadimeno.wordpress.com/2017/11/28/femminismo-intersezionale-o-perche-questa-lotta-e-anche-tua-intersezioni-2/). Tuttavia, pur avendo il merito di ampliare l’orizzonte della rivendicazione di genere mettendolo in relazione ad altre forme di sfruttamento, questo approccio sembra mantenere irrisolto il problema del modo in cui metterle in relazione. Ponendo sullo stesso piano le differenze di genere, di orientamento sessuale, di razza e di classe si perde forse la capacità di identificare un terreno comune che coniughi e stia all’origine di tutte le declinazioni dell’oppressione. Questa prospettiva, come sostiene Iris D’Atri, “finisce per omettere la presenza inalterabile del capitalismo […]. Certamente ogni soggetto è una combinazione particolare di appartenenze a diversi luoghi dell’identità; però solo una lettura liberista potrebbe portarci a accettare l’interpretazione secondo cui la società esistente è il risultato di una sommatoria d’individui con molte appartenenze identitarie. Rifiutarsi di comprendere la totalità del sistema capitalista come struttura, comporta necessariamente l’impossibilità di metterlo in discussione e quindi di sovvertirlo. Come marxisti, non è la nozione di differenza quella che mettiamo in discussione, quanto la naturalizzazione biologica o la sua assolutizzazione” (A.I. D'Atri, Femminismo e lotta di classe, cit., pp. 187). Per le origini del termine “intersezionalità” cfr. K. Crenshaw, Demarginalizing the Intersection of the Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics, in “University of Chicago Legal Forum”, 1989, pp. 139-167; per un’analisi della teoria dell’intersezionalità cfr. C. Arruzza, Il genere del capitale: introduzione al femminismo marxista, cit., pp. 183-187. Infine, per alcuni esempi efficaci di tale approccio:  A. Davis, Donne, razza e classe, Alegre, Roma 2018 e C. T. Mohanty, Femminismo senza frontiere, Ombre Corte, Verona, 2012.

[19] Riprendo qui un’espressione di C. Formenti, Contro il femminismo di regime, cit. Oltre ai lavori citati nella nota 1, si veda anche A.I. D'Atri, Femminismo e lotta di classe, cit.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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