Carla Filosa

 

Unità di natura e modo di produzione

In questo scritto ci si propone di considerare i cambiamenti climatici determinati dalle attività umane separati da quelli naturali. Ci si concentrerà su questi ultimi non da un punto di vista tecnico, demandato agli esperti del settore, ma da un punto di vista sociale e storico. Si assumerà il problema del riscaldamento climatico (Global Warming), e non solo, secondo le analisi effettuate sin dagli anni ’50 dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), quale massimo consesso mondiale di esperti sul clima.

Non si ritengono attendibili, al contrario, le tesi relative all’“allarmismo climatico” perché volte a negare o minimizzare le rilevazioni scientifiche che potrebbero compromettere la regolare continuità delle incidenze umane. Queste sono infatti considerate altamente probabili – la cui possibilità è data al 95-100% - su un riscaldamento dell’atmosfera terrestre e degli oceani, che comporterebbe disastri quali scioglimento di nevi e ghiacci con conseguente innalzamento dei mari, pericolo per gli insediamenti umani sulle coste delle terre emerse, concentrazione di gas serra tra cui soprattutto CO2, ecc. Siccome si riscontra una scarsa comprensione delle relazioni specifiche che intercorrono tra sistemi economico-sociali e la variabilità naturale del clima nel corso della storia, si cercherà di portarle all’attenzione come un fattore complesso e non subalterno all’ideologia della semplificazione ad ogni costo. Si è certi che senza l’analisi congiunta di entrambi gli aspetti, quello naturale modificato e continuamente modificabile da quello storico determinato, non può darsi consapevolezza concreta dei problemi e, con questa, la capacità – auspicabilmente efficace – di intervenire per la loro possibile risoluzione in positivo. Prima di affrontare la particolarità del nostro tempo, è utile premettere un cenno storico emblematico sulla normale, naturale variabilità del clima e la non regolarità delle stagioni (temperatura, umidità, vento, pressione, precipitazioni), proprio per il consapevole confronto con l’oggi. Riflettere sulla lettura im-mediata di tale variabilità e poi sul suo uso, in un’epoca precedente all’attuale, può consentire di prendere atto di un progredire storico assolutamente non lineare, ma che, unitamente all’avanzamento conoscitivo e comunque di civiltà, trascina con sé elementi di conservazione precedenti che possono riemergere anche virulenti, inaspettati, nelle forme sociali successive. Ciò contro cui si intende combattere in primo luogo è la preminenza della paura, quale luogo di dominio del potere di sempre, ora riversata sulle masse anche attraverso la deliberata trascuratezza dei “mutamenti climatici” potenzialmente catastrofici, che però, come l’Apprenti sorcier[1], si pensa di riuscire a controllare negandone per ora l’esistenza o resistendo finché si può.

 

Presenze apparentemente lontane del passato

Nel periodo rinascimentale italiano in particolare ed europeo più in generale, in un arco di tempo che, dalla fine del 1300 fino alle soglie del 1700, fu politicamente gestito da poteri monarchici e religiosi più o meno congiunti, la Chiesa di Roma prima, e successivamente anche quella riformata, avocavano a sé il possesso della verità in fatto di fede, quale forma di guida e controllo di scienziati e legislatori, per cui approntavano strutture sociali atte allo scopo. Da sottolineare, a questo riguardo, che proprio in questo lungo periodo, le élites colte europee erano impegnate in un processo particolarmente intenso, e continuamente contrastato, di ricerca indipendente diversificata in molti campi, da cui alla fine scaturì il pensiero scientifico che accompagnò la profonda crisi epocale di quel sistema economico-sociale.

Alla metà del 1400, in Francia, in occasione di fenomeni climatici inspiegabili legati al ciclo agrario[2], che portarono alla distruzione delle vendemmie e dei raccolti, si attribuì alla stregoneria l’origine di quello che fu identificato come maleficio. La stessa attribuzione fu ripetuta per ogni circostanza naturale (tempeste, perturbazioni atmosferiche d’ogni tipo, ecc.) ma anche sociale (uccisione di bambini, consacrazione a Satana dei figli, antropofagia, ecc..), innescando numerose attività di repressione della popolazione accusata, quale rimedio al diffuso timore per le carestie. Ben presto la stregoneria venne catalogata come crimine e associata all’eresia: ambedue, infatti, si erano subito rivelate utili strumenti di direzione politica e ideologica contro eventuali ma attese e temute rivolte popolari. Prove testimoniali su fatti documentati costituirono così la certezza teologica della materializzazione del male, imponendo in tal modo non solo il credere ma anche l’oggetto del credere quale unico dovere del cristiano. Una volta così definita la causa maligna, si pose in essere la soluzione dei problemi sociali: le turbolenze climatiche furono dunque interpretate come punizione divina per i peccati per i quali necessitava una rispettiva espiazione, che i roghi avrebbero santamente consentito. L’intervento demoniaco, quale spiegazione “logica” dunque, apparve proprio in assenza di un riscontrabile rapporto di causalità naturale tra mezzi e fini perseguiti (ad esempio per recuperare la salute o conoscere il futuro). Se le documentazioni, ovvero le confessioni “spontanee” di autoaccusa estorte con la tortura, costituirono prova giuridica incontrovertibile, fu perché la spiegazione di fatti ritenuti oggettivabili ma apparentemente inspiegabili (ad esempio il volo notturno delle streghe, il Sabba) non poteva che essere attribuibile al demonio. L’attuazione di una conseguente criminalizzazione del dissenso da chi prendeva le distanze da siffatta verità consentì quindi la conservazione sociale del mondo feudale, basata pertanto sul mantenimento delle paure e idiosincrasie originate dalla procurata ignoranza e credulità degli strati ultimi della popolazione, per i quali si forgiò l’incredibile – per noi oggi! – concetto di “crimine spirituale”, buono per tutti gli usi. La verità da non sottoporre a verifiche o dubbi era stata resa dominante.

Se questo breve riferimento può sembrare estraneo ai temi relativi al nostro presente, in realtà si propone l’obiettivo di rendere palesi alcuni aspetti ideologici e di mentalità comune tuttora attuali. Innanzi tutto, l’inscindibilità storica, oltre che teorica, di natura e modo di produzione, riverberato nelle forme del potere politico e dell’ideologia che ne scaturisce. In ogni sistema economico-sociale è documentabile la corrispondenza e contemporaneità dialettica tra l’organizzazione strutturale – ovvero la modalità economica dello sfruttamento lavorativo e delle risorse naturali per la sopravvivenza e la prosperità delle comunità umane – e la relativa organizzazione sovrastrutturale giuridica, politica, ideologica, religiosa, culturale, ecc. Tale corrispondenza, spesso ignorata o erroneamente interpretata, non può esser considerata come una sua meccanica o dogmatica immediatezza, bensì quale unità mediata da diverse modalità possibili di espressione e alleanze, funzionali alla differenziazione del trascorrere delle fasi di uno stesso modo di produzione storico. Nel modo di produzione feudale, perdurante in tutto il periodo rinascimentale e anche oltre nelle sue fasi di progressiva decadenza, la produzione dominante come fine produttivo era volta in modo preminente alla realizzazione di beni di consumo, valori d’uso per i bisogni sociali. Pertanto, la forza-lavoro prevalentemente agricola trovava la sua costrizione, o comando relativo al suo sfruttamento, nella coercizione esterna delle norme giuridiche della attestata diseguaglianza sociale e nella violenza ideologica e politica dell’arbitrio. Quest’ultimo poi, manifesta in ogni tempo la sola particolarità degli interessi, una mescolanza inscindibile di libertà e necessità: la libertà appare nella soggettività egoistica degli interessi umani, oltreché nel funzionamento del sistema sociale di cui sono espressione, mentre la seconda riguarda la dipendenza dalle determinazioni naturali.

 

Il reale attuale

Nel nostro modo di produzione, basato invece sul rapporto di capitale, prodottosi proprio dal graduale disfacimento di quello feudale, la produzione di beni di consumo non è più il fine di questo sistema ma il mezzo per produrre plusvalore, l’oggetto dello sfruttamento di sempre, ovvero la concretizzazione appropriabile del lavoro erogato e non pagato. Gli oggetti utili, pur essendo ineliminabili per la vita associata, sono quindi solo un veicolo di valore per il capitale dominante. In secondo luogo, non più il demonio dall’esterno di un soprannaturale abiterà la vita sociale da controllare mediante i roghi, ma vi dimorerà un altrettanto invisibile meccanismo, questa volta economico, cioè interno alla mercificazione della forza- lavoro usata ad libitum, cioè a discrezione. Il valore prodotto dall’uso occultato della forza-lavoro deve oltrepassare infatti il valore stipulato per la vendita della stessa, nella contrattazione giuridica. L’apparente eguaglianza formale, già proclamata sui vessilli della borghesia rivoluzionaria nella dimensione sovrastrutturale, costituisce ora l’eco di quella altrettanto reale, ma apparente, tra compratore e venditore della forza-lavoro. La effettuale costrizione alla subalternità di quest’ultima, nell’accettazione delle clausole dei contratti o regole d’ingaggio, che immediatamente la borghesia stipula con la forza-lavoro trovata e poi riprodotta nelle quantità eccedenti le necessità immediate a vantaggio di quelle future, si consegue proprio nella forma pattizia del lavoro e nel mantenimento delle forme consensuali di una politica presunta partecipata. La cosiddetta disuguaglianza di cui oggi ci si preoccupa, nonché la conflittualità sociale strutturale, nasce in quest’ambito. La violenza e l’arbitrio dei secoli precedenti non sono più visibili, pur nell’evidenza tangibile della disparità sostanziale delle classi sociali, perché queste sono state inglobate nelle istituzioni, nelle leggi, nelle ideologie preposte alla confusione degli interessi contrastanti. A tale proposito vale la pena rammentare la creazione anche di Istituzioni formalmente preposte alla tutela ambientale, ma con risultati altamente inefficaci sia per le decisioni politiche da prendere, antitetiche agli utili da sostenere, sia per i tempi attuativi delle stesse. Un rapido sguardo allora è utile per monitorare – limitatamente a questa tematica - l’essenziale divario tra intendimenti e risultati, a riprova della contradditoria relazione sociale capitalistica che rende vano o fortemente dilazionato ogni ipotetico miglioramento a fronte dei suoi inaffrontabili costi.

Quasi da una trentina di anni, sin dal 1992, è andata sotto la denominazione di accordi di Rio (Framework Convention on Climate Change, UNFCCC), la riunione di Paesi che si proponevano in modo non vincolante la riduzione dei gas serra. Successivamente si è stabilito, nel Protocollo di Kyoto del ’97, che le interferenze climatiche dannose per il clima di natura antropogenica esigevano delle azioni comuni per la stabilizzazione delle emissioni, soprattutto del biossido di carbonio, entro il 2000. Al Protocollo aderirono più di 180 Paesi, cui nel 2003 se ne aggiunsero altri 12, mentre già dal ’94, intanto, veniva organizzata la Conferenza delle Parti (COP) per un incontro annuale che avrebbe riscontrato i progressi effettivamente compiuti. Nel 2018 a Katowice (Polonia), nella COP 24, si è stabilito che il limite di 1,5° di temperatura registrata avrebbe richiesto la diminuzione del 45% delle emissioni di CO2 entro il 2030, e del 100% entro il 2050. Il governo Usa sin dal 2002 si è rifiutato di aderire, e analogamente molte industrie europee hanno continuato a inquinare la biosfera, mentre ha proseguito indisturbata la dislocazione produttiva dai Paesi più sviluppati a quelli più arretrati che offrono dumping lavorativo, vantaggi fiscali, libertà d’inquinare e sicurezza d’impunità giuridica. La recente COP 25, tenutasi a Madrid dal 2 al 13 dicembre’19, infine, ha rilevato che aumenterà la temperatura di 3,2° C entro la fine di questo secolo, e che non riesce a regolamentare la greenwashing, ossia l’acquisto di crediti dalle aziende più virtuose per continuare a mantenere inalterata, intangibile la propria nocività. A tutto ciò si aggiunge che la decarbonizzazione dei Paesi meno sviluppati sembra un obiettivo lontano, dato il mancato impegno a fornire un budget per il loro sostegno, di 100 miliardi di $ entro quest’anno, al Green Climate Fund, stabilito a Cancun. Il mito da tempo confezionato della “fine delle ideologie” serve così a evocare l’altro – basilare – della fine del conflitto sociale, ossessivamente negato nelle forme sovrastrutturali disponibili (narrazioni politiche, mediatiche, uso dei social, notizie falsate, ecc.), a cancellazione coscienziale della iniqua costituzione sociale di questo sistema tuttora in una putrescente dominanza.

In terzo luogo, sul piano direttamente statuale l’esercizio del controllo sociale non avverrà più con l’orrore evidente ed ormai insostenibile dei roghi, ma attraverso l’avallo di sindacati istituzionalizzati, ammortizzatori sociali (il cosiddetto stato sociale in primo luogo, la cassa integrazione, i sussidi di povertà, il reddito di cittadinanza, i bonus bebè, ecc.), talk show che stemperano nel discorso chiacchierato la mancata soddisfazione dei bisogni più acuti unita alla impossibilità di risolvere le criticità più distruttive, ecc. Sul piano strutturale, poi, il fulcro del controllo rimane costantemente l’immiserimento progressivo per la precarizzazione estrema del lavoro. L’abbattimento lento, quasi non percepibile ma sistematico, dei diritti sociali con cui questa insicurezza viene realizzata comporta anche la disgregazione sociale, familiare, individuale fino al disturbo mentale diffuso e all’autoconvincimento indotto di attribuire a sé la colpa – se licenziati, mobbizzati o bloccati nei livelli bassi di carriera e reddito – per la propria incapacità, a trovare lavoro, a eseguirlo adeguatamente, a mantenerlo, ecc. La tortura, non più fisica viene esercitata più sottilmente sul piano morale. Si inducono confessioni improprie di automortificazione della presunta governabilità della propria dignità umana, facendo così salvo il potere che ne decide le condizioni di esistenza nella gestione assoluta del mercato del lavoro, usando i suoi incantamenti modernizzati per conservarsi saldo. A fondamento di tutto ciò resta la ricostituzione dell’ignoranza tramite il programmatico abbassamento culturale raggiunto, e l’inoculazione della paura di tutto ciò che può costituire una minaccia al privilegio di vivere in zone del mondo non più devastate da guerre, fame, malattie, ecc. La psicosi ultima causata dal corona-virus cinese, potenziata ad arte per penetrare nei meandri delle paure ancestrali nei confronti del diverso, oltre a ben altri problemi economici da tenere sotto tiro, serve a rinsaldare in modo provvidenziale la tenuta nazionalistica contro istanze di classe, ulteriormente disperse e disciolte negli istinti di una conservazione ridotta all’animalità.

Il ricambio organico uomo-natura

In siffatto contesto capitalistico transnazionale la natura non è più solo la fonte del nutrimento o delle materie prime utili alla vita sociale umana, ma è la cava da cui trarre il massimo delle ricchezze di cui riuscire a disporre. Si tratta ora dello strumento indispensabile per vincere la concorrenza tra capitali, o se è più chiaro per condurre la guerra permanente contro altri singoli o più capitalisti, aziende, marchi, stati da sottomettere, indebitare, costringere a fusioni e acquisizioni, disgregare per impadronirsene, rendere dipendenti, ecc. Il capitale, uno come sistema di sfruttamento del lavoro, ma suddiviso nella sua molteplicità perennemente cangiante di capitali concorrenti intenti a realizzare il massimo della produzione per ottenere il massimo possibile dei profitti, deve forzatamente riguardare alla natura come fonte di saccheggio materiale e non come sistema di equilibri vitali da conoscere, preservare e rispettare. Come è necessario predare le popolazioni rese sottomesse per carpirne un lavoro sempre più eccedente i bisogni immediati, così ci si avventa sulla natura da privatizzare, violentare o distruggere, per massimizzare la quota di plusvalore necessaria a conquistare la supremazia verso l’egemonia mondiale. In questa ottica determinata dal dominio del denaro, l’uso illimitato delle forze produttive umane (lavoro manuale e intellettuale unitamente alle innovazioni tecnologiche, macchine, divenuti tutti capitale fisso) e naturali provoca necessariamente il degrado sociale e della natura, nel perseguimento di un progresso strutturalmente contraddittorio. Unitamente allo sviluppo scientifico, tecnologico e alle innovazioni organizzative, si consuma infatti il logoramento sociale, l’impoverimento dovuto alla logica proprietaria che ulteriormente divarica la forbice dei redditi e dei consumi sociali, tra cui il deterioramento delle condizioni sanitarie, educative, dei trasporti, il degrado dei valori della convivenza civile, ecc.

L’attenzione alle mediazioni possibili di questo meccanismo può dar conto allora dei contenuti variabili e trasversali, intercambiabili delle posizioni politiche. Finché i piani sovrastrutturali continuano ad alimentarsi solo di parole, o peggio di strategiche tecniche comunicative finalizzate ad affabulare la realtà, da oscurare mediante pulsioni evocate dai miti predisposti nella solita razionalità bassa o strumentata e abilmente fatta interiorizzare, è come se si ritornasse alle viscerali “confessioni” delle streghe. Il destino della scelta conseguente di siffatta politica emozionale è di vanificarsi rapidamente non appena però si mette mano alla proposta od anche alla soluzione concreta dei diversi problemi sociali. L’apparente trasversalità del tema ambientale ha infatti dato luogo a ipotesi di sostenibilità (economia verde, circolare, ecc.) possibile, senza intaccare mai il funzionamento di questo sistema, proprio per una volontaria assenza analitica delle cause reali dei mutamenti climatici, unita a un’ignoranza dei rapporti sociali necessari alla sopravvivenza del capitale. Se non si considera per ambiente l’avvenuta modifica della natura operata dalle società umane nel loro susseguirsi storico, non se ne capisce nemmeno la forma specifica di ognuna di quelle società, nel mutamento del corso del tempo. Nella nostra attuale organizzazione sociale la divisione antagonistica delle classi sociali preposte alla produzione di merci non può essere ignorata o bypassata, se effettivamente si intende porre un argine al riscaldamento climatico in atto, così come pure alle forme di inquinamento di aria, acque, terreni o di avvelenamento – ad esempio con l’asbesto o scarichi industriali pericolosi - di intere aree abitate con rifiuti altamente tossici e/o radioattivi. Gli interessi dominanti impediscono di interrompere i fattori distruttivi sociali e ambientali che diminuirebbero i tassi di profitto, ormai sempre più in affanno per il perdurare della crisi di accumulazione di plusvalore e per cui ci si rivolge agli espedienti borsistici in cui è solo possibile trasferire o meglio rapinare il plusvalore altrui, ma non più produrlo. La classe lavoratrice non ha per il momento la forza e l’organizzazione per influire significativamente sulle decisioni politiche, appositamente stremata dai fattori strutturali e sovrastrutturali suesposti, nonché privata del patrimonio culturale di riferimento storico e dell’orientamento politico da seguire. Non ha cioè la possibilità materiale di modificare il quadro politico e ambientale delle proprie tradizionali catene. La necessità di tenuta dei tassi di profitto passa infatti per l’abbassamento dei costi, cioè dei salari da comprimere con ogni contrattazione vessatoria, per lo smantellamento dello stato sociale cosiddetto, ovvero la quota indiretta e differita dei salari, con normative internazionali o sovranazionali che assicurino il mito della stabilizzazione finanziaria dei capitali (si veda ad esempio il MES: European Stability Mechanism del 2019)[3].

 

Impossibile coesistenza infinita

Il persistere del dominio capitalistico è dunque incompatibile sia con la riduzione delle disuguaglianze sociali di classe – di cui non solo è artefice ma su cui sopravvive e si riproduce nel suo essere rapporto sociale, identità dialettica, unità di capitale-lavoro[4] – sia con la messa in opera di contrasti agli inquinamenti e alle emissioni di CO2, e altri gas serra, in quanto aumenterebbero i costi dei quali invece continuamente si deve disfare. I due aspetti dello stesso problema non possono essere disgiunti se si capisce che la sostanziale difesa dei capitali, mediante i loro agenti istituzionali, politici, ideologici fino alle ignare e ignoranti connivenze populiste, consiste nel perseguire incredulità, indifferenza, attendismo o semplice silenzio rispetto alle istanze più pressanti dei lavoratori come degli scienziati di tutto il mondo. Nello stesso identico modo questo sistema rapina sia il lavoro umano sia le risorse naturali, quale unica forma di esistenza e di potenziamento egemone sulle popolazioni, rese inermi dalla sua dispotica imposizione alla dipendenza, avendole private di ogni altra modalità di autonomia. Il comando autoritario sul lavoro, esercitato in sede produttiva, si riverbera così sui piani sociali e politici occupando tutti gli spazi non solo istituzionali sovranazionali e nazionali (Fmi, Bm, Wto, governi, capi di stato, ecc.), ma anche quelli dei partiti politici o movimenti, delle amministrazioni conniventi, delle forme mafiose di legami ricattatori, delle istanze populiste dagli ambigui orientamenti, ecc., per l’organizzazione del consenso forzato. Ancora una volta occorre guardare alle mediazioni transitorie – portatrici di cambiamenti annunciati e senza contenuti, apparentemente rinnovate da un passato ormai estinto ma ripercorribile in altre forme - che collegano bisogni popolari, peraltro sempre più essenziali, e pratiche o partecipazioni politiche su cui reggere le sole facciate delle democrazie possibili. Nonostante nostalgie di tipo nazista o fascista presenti anche per altri aspetti nei nostri paesi dell’“occidente” imperialista, i populismi dell’oggi che si autoproclamano interpreti di un improbabile “popolo” come ammasso indistinto di classi sociali, inclusivo anche di quelle dominanti, oscillano dalle incerte forme sinistroidi (“abbattimento della povertà”!) a quelle più reazionarie che avallano l’etnia o la religione, mediante la pretesa di forgiare capi carismatici credibili. A differenza del riferimento storico succitato, il sistema di capitale ha potuto eliminare le carestie solo perché obbligato alla produzione infinita (la produzione per la produzione, fine a sé stessa) e quindi anarchica, cioè nell’impossibilità oggettiva di pianificarsi. Analogamente invece al suo predecessore, questo sistema attuale ha assoggettato la scienza per svilupparne l’orientamento esclusivo al suo servizio, reprimendone quindi l’autonomia originaria da destinare al vantaggio delle popolazioni. Le perturbazioni climatiche antropogeniche di classe, sotto i nostri occhi, sono pertanto gli effetti dell’indifferenza capitalistica generalizzata al benessere della vita sul pianeta, inerente alla soggezione razionale al potere delle cose, alla materiale necessità degli scambi il cui freno costituirebbe il crollo di questo sistema economico. La non eternità, la transitorietà materiale di questo modo di produzione mostra, anche in ambito cosiddetto “ecologico”, il processo sicuramente ancora in via di maturazione dello sviluppo di una sua forma sostitutiva, quale superamento storico ineluttabile.

Il monopolio delle forze naturali, che lo sviluppo capitalistico ha finora comportato, ha mostrato la separazione tra le condizioni naturali inorganiche del ricambio materiale essere umano-natura e la gestione e il controllo comunitario delle popolazioni. L’amministrazione degli interessi proprietari viene demandata a forme statali o sovranazionali dietro cui schermarsi ed ottenere preziosi superprofitti. Appropriarsi quindi di una qualunque forza naturale, sia essa una cascata d’acqua, una miniera, un giacimento petrolifero, ecc., avendo già inglobata la forza-lavoro destinata alla sua valorizzazione, significa risparmio di costi e vantaggio concorrenziale rispetto ai capitali che non riescono a disporne.[5] Risulta evidente poi che siffatta proprietà, che non sia toccata in sorte per un destino favorevole, può essere conquistata con la forza militare, mediante corruzione, ricatto creditizio o politico, debito pubblico, ecc., determinando così la disgregazione sociale, politica e ambientale di paesi o territori che invece ne siano geograficamente dotati. Le risorse naturali non sono però illimitate né possono essere ottenute con mezzi distruttivi degli ecosistemi (si pensi al fracking, alla distruzione dei pozzi petroliferi in Iraq, ecc.). I capitali altresì non possono rinunciare a promuovere costantemente innovazione tecnologica e contemporaneamente incrementare l’attività speculativa, in grado peraltro di distruggere le cosiddette economie emergenti o gerarchicamente sottomesse. Le loro guerre sono poi sempre strutturalmente indispensabili: per l’appropriazione energetica, che a sua volta permette la trasformazione di materiali necessari all’industria bellica più avanzata, per il sostegno alle valute dominanti di riferimento, per il controllo strategico di territori, ecc. La progettata distruzione di capitali necessaria alla soluzione delle crisi strutturali, ricorrenti, cicliche di questo sistema comporta anche la distruzione umana e di risorse, mentre la pace servirà a creare disoccupazione, blocco produttivo, inflazione, pauperizzazione delle fasce più deboli della popolazione, emarginazione, ecc. La correlazione tra distruttività sociale e naturale risulta pertanto strettamente saldata nel funzionamento di riproduzione delle condizioni di ripresa dell’accumulazione di plusvalore di questo sistema, strutturalmente impossibilitato a fuoriuscire dalle intrinseche contraddizioni: “Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo… si manifesta sempre più come una potenza sociale… estranea, indipendente che si contrappone alla società… è la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione sociali che gli corrispondono… quando è raggiunto un certo grado di maturità, la forma storica determinata viene lasciata cadere e cede il posto ad un’altra più elevata” (K. Marx, Il Capitale).

Conclusioni aperte

Ultimamente si fa tanto parlare di crescita, di sviluppo sostenibile quale rimedio alla crisi e per la difesa dell’ambiente. Tutti i dati finora emersi registrano una debole crescita del Pil mondiale, europeo e italiano, mentre le azioni di stabilizzazione delle emissioni dei gas serra mostrano battute di arresto. Gli sforzi mediatici per far risultare possibile la famosa quadratura del cerchio, la sostenibilità di una crescita economica e di un ambiente disinquinato sono patetici se si conoscono i meccanismi reali che si autoescludono. Solo le ripercussioni del coronavirus sui Pil mondiali contribuiscono a minimizzare ulteriormente l’incremento del plusvalore che la crisi strisciante ha già pesantemente abbattuto. Lo sviluppo sostenibile si qualifica così come un mantra, per illudere le masse in ascolto che un poco di magia è restata nel cappello del mago e che staremo tutti meglio, diventando tutti più responsabili, in un non precisabile futuro (si pensi alle domeniche ecologiche, al volontariato che pulisce i prati, ecc., essendo solo una goccia nel mare; fuor di metafora, anche al mare invaso dalle micro e macroplastiche, per cui ai “buoni” si rivolge l’invito ad adottare una tartaruga marina!). Se intanto si volge lo sguardo al continuo licenziamento di lavoratori ci si accorge di un’altra realtà affiancata per lo più alla protesta, all’indignazione, alla lamentazione catartica, allo sfogo della rabbia, ecc. In una parola all’impotenza sociale. Sebbene noiosi e non esaustivi, una considerazione dei dati può dar conto dell’entità dei problemi:

Auchan-Conad: entro giugno 2020, 817 licenziamenti, definiti uscite volontarie, a Rozzano (MI), cui bisogna aggiungerne altri 500 tra logistica e servizi (nord e sud); Asl e Aziende Ospedaliere: previsti 147 licenziamenti tra Comuni e scuole; Italia: previsti 5000 esuberi complessivi; Toscana: 215 licenziamenti per sorveglianza e pulizia nelle scuole ripartiti tra Arezzo, Firenze, Grosseto, Livorno, Lucca, Massa Carrara, Pisa, Pistoia, Prato e Siena; Camere di Commercio: su 700 addetti 200 licenziati; Whirpool: 500 annunciati nel 2018, per ora congelati, rinviati; Flowserve s.r.l., multinazionale Usa Oil &Gas: 176 licenziamenti a Mezzago; Bekaert: 220 licenziamenti a Figline Valdarno; Unicredit: piano di 8.000 licenziamenti e chiusura di 500 filiali entro il 2023, per “crediti deteriorati”. Banche in Europa: previsti 56.000 posti di lavoro persi. Il quadro è solo per difetto. Se poi guardiamo alla situazione in Germania, che ora teme anche attacchi finanziari da parte di Trump dopo la guerra dei dazi con la Cina, non si ha una visione più confortante. La recessione confermata fa prevedere 85.000 esuberi nei prossimi anni tra prepensionamenti, uscite volontarie incentivate, licenziamenti concordati con i sindacati. Per dare solo un’idea, la Deutsche Bank dichiara 18.000 esuberi entro il 2022, dai 90.800 dipendenti da cui ne sono già stati eliminati 900; Commerzbank: prevede 5.300 esuberi entro il 2020, oltre i 38.000 già eliminati; Volkswagen: prevede tra i 5.000 e i 7.000 esuberi; Daimler: prevede 10.000 esuberi, non confermati; Bmw: prevede di avere di meno 4.000 dipendenti; Basf: meno 6.000 entro il 2021; Thyssenkrupp: meno 6.000; Siemens: meno 10.000 più i 2.700 negli ultimi mesi; Sap: meno 3.000; Bayer meno 4.500 su 12.000 dipendenti in tutto il mondo. L’elenco, solo emblematico e forzatamente manchevole, può continuare per gli statistici, qui occorre solo avere alcuni dati per una riflessione informata. Tutti questi numeri ci mostrano la necessità – in alcuni casi – drastica, di ridurre i costi per contenere la caduta tendenziale dei tassi dei profitti, già analiticamente preannunciata da Marx due secoli fa. La ricerca e la nuova attenzione alla green economy, alle fonti energetiche alternative rispetto a quelle fossili, oltre all’uso del nucleare, non può che attutire l’impatto ambientale già realizzato. La sua prosecuzione deve di necessità fare i conti con la riduzione della spartizione del plusvalore tra i capitali in sofferenza. In tale contesto, aumentare i costi per il miglioramento ambientale significa prevederne profitti sostitutivi e forse anche più congrui, una strada moderatamente intrapresa per ora dalla Cina e parzialmente da alcuni stati europei, ma i tempi di un mutamento globale appaiono lunghi, contrariamente alle scadenze ravvicinate dei dati scientifici fin qui disponibili.

Le leggi della natura non possono essere modificate. Devono essere conosciute e solo nel loro rispetto e adeguamento risiede la libertà degli esseri umani, quella razionalmente da conquistare nella gestione collettiva, comune della società umana e delle cose, assolutamente l’opposto della cosiddetta libertà borghese del 1789, programmaticamente riservata ai capitali nel perseguire i loro miserabili fini contraddittori. Lontani ancora dal raggiungere tale traguardo di libertà necessitata, ma da considerare come possibilità strategica dello sviluppo umano, per ora dobbiamo agire dove possibile, ma soprattutto accumulare le forze per coltivare ed estendere la coscienza sociale, anche nell’individuazione delle condizioni di dissipazione della materia e dell’energia, i cui limiti sono già stati oltrepassati. La coscienza socializzata si arricchisce pure da denunce che indicano una nuova forma di dominio, esercitato nei confronti di paesi o regioni più povere in cui si userebbe l’arma del disastro naturale tecnologicamente indotto, capace di produrre danni superiori a quelli determinati nelle guerre a bassa intensità. Il termine usato è ecoterrorismo, in quanto le distruzioni di città, fabbriche, ecc. aprirebbero le porte alle ricostruzioni profittevoli – proprio come accadde nelle esultazioni per il terremoto aquilano – secondo la tradizione del bottino di guerra. Alla desertificazione da napalm, diossina, diserbante arancione, ecc. in Vietnam, e all’inquinamento da fosforo bianco, uranio impoverito, ecc. in Iraq, è seguito il Progetto di Bonifica ONU (PNUMA) di circa 40 milioni di dollari – essendo il dollaro ancora moneta di riferimento internazionale. Le leggi, ovunque, non possono essere di impedimento agli interessi, se questi le difendono è perché garantiscono loro la “sicurezza giuridica” dell’arbitrio.

L’alterazione climatica attiene infine a problemi di sviluppo socio-economico connessi a povertà, fame e malattie che mettono a rischio la cosiddetta sicurezza nazionale e internazionale, fermo restando che i paesi nella gerarchia dipendente imperialistica sono i più danneggiati dai fattori inquinanti di cui per lo più sono meno responsabili. Ad ogni livello in cui appare l’approfondimento delle “disuguaglianze sociali” – di classe – si sappia che povertà, fame e malattie sono solo la superficie tragicamente sofferente di una transizione storica che nasconde la loro vera identità: quella di essere non calamità, ma funzioni inalienabili di un sistema economico-sociale che proprio nella violenza del profitto, o nella sua predazione sistematica, non può che lavorare alla propria rovina.

 

[1]“L’apprendista stregone” di Paul Dukas, Poema sinfonico composto nel 1897, su una ballata di Johann Wolfgang von Goethe del 1797.

[2] Federico Martino, Il volo notturno delle streghe, il sabba della modernità, La Città del Sole, Napoli, p. 50-51.

[3] Cfr. Francesco Schettino, Crisi Mes e conflittualità interimperialistica, Città futura, 18.01.2020.

[4] Concettualmente K. Marx insiste ovunque nell’inscindibilità del capitale dal lavoro salariato da cui trae il plusvalore necessario alla sua esistenza, e del lavoro salariato (obbligato a cedere pluslavoro gratuito) necessitato a sottomettervisi per sopravvivere, perché privato di ogni altra fonte di sussistenza.

[5] Gianfranco Pala, L’ombra senza corpo, La Città del Sole, Napoli, p.114 e sgg.

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