Elena Fabrizio

 

L’enfasi che il dibattito sulla didattica a distanza ha suscitato a livello ministeriale e tra gli organi e gli enti, senza trascurare la longa manus degli altoparlanti mediatici, che da anni premono per una trasformazione della scuola in tassello della più ampia filiera produttiva, doveva suonare subito sospetta, non fosse altro perché palesemente orientata a spostare i problemi della formazione culturale degli studenti sul bisogno di colmare il ritardo e il gap di competenze digitali, intese come esclusivo elemento di giudizio della qualità della didattica scolastica.

Un’enfasi condita dal discorso emotivamente pregnante e propagandistico che fa delle diseguaglianze economiche e sociali, pervenute alla coscienza dei nostri governanti paradossalmente proprio nella fase dell’emergenza sanitaria nei soli termini del digital divide, l’espediente sul quale fare leva per «sfruttare la crisi» dirottando la scuola in maniera ancora più incisiva sul modello impresa e assumendola quale parte attiva della ripresa economica del paese. Nessun bilancio politico di vent’anni di autonomia scolastica e delle politiche antisociali delle quali essa è espressione, nessuna iniziativa per riparare all’emergenza culturale ed educativa che si vuole strumentalmente appiattire sul possesso delle competenze digitali lette nell’ottica esclusiva di un mercato del lavoro in cerca di manodopera salariata.

La duplice direzione amministrativa che il Governo vorrebbe imprimere all’istruzione, per assecondarla ai desiderata delle classi dominanti, emerge chiaramente dalla combinazione delle iniziative proposte dal Comitato di esperti in materia economica e sociale per il rilancio "Italia 2020-2022" e dal Comitato di esperti del Ministero dell’Istruzione, rispettivamente coordinati da Vittorio Colao e da Patrizio Bianchi. Da una parte, prestare il fianco a una nuova sussunzione della Scuola al Capitale, il quale cerca di riposizionarsi, come sempre accade in situazioni di crisi, attraverso nuove forme di integrazione finalizzate a inglobare in termini di investimenti economici e di interventi gestionali la formazione di base e la conoscenza; dall’altra, sfruttare al meglio il quadro normativo dell’Autonomia scolastica per delegare le funzioni del Welfare istruzione ai territori e al terzo settore, attraverso una commistione di pubblico e privato, fatto passare quest’ultimo per sostegno solidale e filantropico.

Naturalmente non si tratta di un effetto sorpresa, ma di una continuità persistente e coerente con il pacchetto di riforme che dalla legge sull’autonomia fino alla Legge 107/2015 (Buona Scuola), passando per le note politiche dei tagli, ha già fortemente compromesso la formazione culturale dei nostri studenti attraverso la riduzione congiunta di tre fattori: tempo, classe, studio. Il modello produttivistico dell’offerta formativa con la sua logica di marketing perfettamente interiorizzata, la iperstimolazione e progettualità continua anche attraverso l’ingresso di banche, imprese, enti privati, l’asfissiante burocratizzazione e giuridificazione di ogni aspetto della vita scolastica, la rimodulazione curriculare con l’introduzione delle pratiche lavorative e del Liceo quadriennale, avevano già di fatto compromesso la qualità della didattica e sottratto gli alunni alle classi, diminuendo il tempo dello studio e della formazione culturale, svalutando il ruolo centrale della didattica disciplinare assimilata a strumento di formazione tra gli altri. Nel frattempo la riforma degli Esami di Stato, con l’introduzione del colloquio strutturato in macroaree (nel contempo un attacco alle discipline e un elogio della superficialità) e la rendicontazione dell’esperienza lavorativa, l’eliminazione della traccia di storia, ulteriore sintomatico avvertimento della superfluità dell’impianto disciplinare dei saperi e della coscienza critica ed emancipativa che essi inevitabilmente stimolano, veniva incontro all’esigenza di superare la cultura delle discipline per introdurre la didattica delle competenze. Sulla quale non si è raccolto alcun consenso di fondo o evidenza scientifica tali da supportare l’eventuale beneficio che ne trarrebbe la formazione globale degli studenti, se è a questa che la scuola deve ancora puntare. Un modello di scuola che mentre si propaganda per inclusivo, continua a evidenziare un classismo strisciante nel protagonismo delle famiglie agiate autorizzate a condizionare le dinamiche scolastiche e a stravolgere la funzione pubblica dell’istruzione in servizio privato, ma sempre in grado di sopperire con i propri mezzi economici (lezioni private, certificazioni, viaggi all’estero, corsi di lingua e di preparazione ai test di ingresso ecc.) alle falle di un sistema chiamato a soddisfare troppe esigenze con risorse scarse. Si può intuire come in questa situazione esso possa finire per smarrire la sua funzione culturale primaria e per assecondare un successo formativo fasullo.

Sempre più in là nella privatizzazione della formazione

Per chiarire di cosa stiamo parlando, proviamo a proporre un quadro integrato, necessariamente sintetico e provvisorio, delle iniziative proposte dai due comitati, con la necessaria precisazione che il Comitato coordinato da Bianchi lavora a un piano di "miglioramento del sistema di istruzione nazionale", che punta alla realizzazione di obiettivi evidentemente più ampi dei limiti imposti dall’emergenza sanitaria. Una tragedia che se sfruttata al meglio potrà essere ricordata come congiuntura favorevole al progetto che da lungo tempo i settori dell’economia chiedono ad ogni Ministero di concretizzare.

Il piano Colao e il programma Bianchi chiariscono quanto già emergeva dal Decreto Rilancio (DL 34/2020), dove tra le varie voci alle quali sarebbe destinato l’irrisorio incremento di 331 milioni di euro (dispositivi di protezione e sicurezza, contrasto alla dispersione scolastica, interventi di piccola manutenzione, messa a disposizione di strumenti digitali per gli studenti meno abbienti), troviamo un non meglio precisato «sostenimento di modalità didattiche innovative», del resto più volte ribadito dalla Ministra Azzolina nelle sue conferenze stampa con il vago «nuova scuola».  

Le novità, come dicevamo, suonano in verità come un disco rotto, almeno per chi conosce il “Piano nazionale della Scuola Digitale”, «pilastro» della Legge 107, la quale ha sferzato una significativa accelerata, almeno sul piano programmatico, al didatticismo dogmatico del digitale. Questa volta però le novità annunciate scoperchiano con una chiarezza quasi cristallina l’indeterminatezza cognitiva e semantica in cui fino all’altro ieri oscillava il dibattito sulle competenze e gli strumenti con i quali raggiungerle. Ci pensa innanzi tutto il piano Colao[1] a dare una prima torsione al diritto all’istruzione nei termini assai eloquenti di «diritto alle competenze», il quale dovrà essere sostenuto da fondi speciali per «potenziare la capacità di inclusione del sistema di istruzione superiore al fine di migliorare l’equità e di contrastare le diseguaglianze di classe, di genere, etniche e territoriali» (Scheda 80). Siamo di fronte ad una lettura delle diseguaglianze negli esclusivi termini di «gap di competenze e skill critiche» da tradurre, si badi bene, in «capacità digitali, STEM, problem-solving, finanziarie di base» (Scheda 78), secondo una sequenza che letta nel suo coerente susseguirsi non ad altro rimanda se non alle competenze aziendali o adeguate al mercato del lavoro. Tali competenze devono essere acquisite da docenti e alunni attraverso programmi didattici sperimentali «pensati per un utilizzo combinato di lezioni in aula e su piattaforma digitale», misurati attraverso «monitoraggio e miglioramento continuo dell’offerta didattica, sulla base di feedback e risultati nei test standardizzati internazionali (ad esempio PISA)» (Ibidem). È uno stilema tecnicistico, ripetutamente abusato, nel quale tutta la letteratura critica che riporta deficit e fallimenti dell’istruzione piegata sul digitale, sulla valutazione standardizzata e sull’idea di mercato, non assume nessun ruolo euristico, ma sarebbe chiedere troppo. Ciò che invece va rimarcato in questo passaggio che sussume la scuola al Capitale è la modalità con la quale lo Stato è chiamato ad assecondare un imperativo economico (digitale e piattaforme private, impresa, competenze ecc.) integrandolo nella forma costituzionale diritto. Non ci meravigliamo dunque che i nostri esperti aziendali citino a sostegno di questo piano l’art. 3 della Costituzione, ma pur sempre con i noti subdoli raggiri. Perché infatti, il passo successivo per colmare la scarsità di investimenti in istruzione e diritto allo studio, e dunque la percentuale di Pil investito per il quale l’Italia si assesta nelle ultime posizioni in Europa, si propone la predisposizione di un progetto di «Partnership per upskilling» (Scheda 79). Iniziative cofinanziate da pubblico e privato, ma con «Logiche e fonti di funding» che pescano principalmente nel privato e le cui «Azioni specifiche» sono principalmente due. Il lancio di «una campagna di volontariato» a supporto della formazione pubblica con contribuzione in cash o in kind, che per inciso formula in termini concreti il bisogno di reperire fondi, che lo Stato non sarebbe nelle condizioni di investire, attraverso la solidarietà filantropica del Capitale italiano sollecitata ultimamente da più parti (cfr. De Bortoli e Montezemolo sul Corriere della Sera). Con un linguaggio tra il paternalistico e il moralistico, questa prima azione specifica che destatalizza e privatizza la scuola, si traduce in un triplice programma. Una «campagna di crowdfunding e donazioni per il potenziamento delle strutture “educational”, con la quale infrastrutturare digitalmente e tecnologicamente classi di diverso ordine e grado in modo da contribuire a creare un sistema “equal opportunity” nell’istruzione (ad es. dotare di streaming, PC e supporti informatici le classi per didattica a distanza)». Tale iniziativa, per la quale è stata scelta la caritatevole denominazione «Adotta una classe», andrà potenziata con un programma coordinato a livello nazionale (“Impara dai migliori”), «per il quale 20 sabati all’anno grandi aziende high tech, enti di ricerca e università fanno corsi di aggiornamento su temi innovativi agli insegnanti di liceo e medie»; e andrà sostenuta con premialità emulative tipo “Gara dei talenti” promossa da aziende e donatori con «concorsi tipo Hackathon per giovani studiosi (scuole superiori)» da mettere eventualmente in contatto con «investitori». Si può immaginare quale definitivo colpo questo piano imprimerebbe alla mai risolta questione meridionale.  

La seconda azione specifica, che investe direttamente le ricadute destrutturanti che le competenze intese in questo modo selettivo hanno sulla formazione culturale dei nostri studenti, dovrà impegnarsi nella «Pianificazione di un accordo con Rai Scuola/Rai Educational per il potenziamento di forme di didattica innovative».

Un passaggio sull’egemonia delle didattiche innovative

Giungiamo così al nesso tra competenze e didattica, che in termini propri si definisce digitalizzazione degli apprendimenti, propagandata in molte forme da Confindustria, Fondazione Agnelli, Associazione Nazionale Presidi, Invalsi, per non parlare dei mass media (Sole 24 Ore, Repubblica, Corriere della Sera, Stampa, Presa diretta) responsabili di dare ampia visibilità in modo acritico, fazioso e disinformato a consulenti pedagogici che fanno grandi affari sull’educazione diventata evidentemente ulteriore forza produttiva del Capitale.

Vale la pena di precisare, a solo motivo di non dare adito alle reprimende volgarizzazioni con le quali questo universo mediatico cerca di marginalizzare la critica a questa nuova forma di egemonia, l’ampia condivisione sull’urgenza di formarsi all’uso consapevole del digitale. La tecnica-macchina, è perfino superfluo sottolinearlo, in quanto oggettivazione dell’antropos e della sua intelligenza, funge da funzione retroattiva di apprendimento continuo, e può quindi offrire enormi potenzialità all’avanzamento progressivo della formazione culturale, se è però questo fine che si vuole conservare. Ancor più necessario affinché il controllo critico dei processi tecnologici nei quali siamo immersi sia reso possibile da soggetti culturalmente attrezzati, con elevate capacità di autonomia e autogestione. Quello che di conseguenza si discute è l’applicazione sistematica e sostitutiva di un preciso modello cognitivo ripiegato su logiche computazionali e metodologie analitico-pragmatiche che retroagiscono anche sui contenuti culturali, distorcendoli e impoverendoli, quindi l’estensione di uno suo specifico utilizzo alla formazione generale degli studenti, per non parlare della stessa libertà dell’insegnamento minacciata dall’imposizione di metodologie a senso unico, e che sorvola sull’aggiornamento culturale e disciplinare del quale tale libertà ha bisogno.

Volendoci concentrare sulle pratiche maggiormente sponsorizzate e diffuse, Cooperative learning, Flipped Classroom (Classe rovesciata), Eas (Episodi di apprendimento situato), Jigsaw (Classe puzzle), possiamo notare che a unirle è il comun denominatore del microlearning. Tale tecnica è strutturata sul trasferimento della complessità dalla conoscenza alla produzione di soluzioni, sulla riduzione delle conoscenze a «prestazioni semplici», sulla memorizzazione di nozioni o micronozioni (microcontents) da gestire in porzioni di tempo contratte (microtimes), che possono a loro volta essere segmentate e distribuite ai singoli gruppi per essere apprese. La produzione di soluzioni, puntando al protagonismo dello studente nella costruzione del proprio sapere e al suo coinvolgimento emotivo - secondo una tendenza psicologistica per la quale il sapere per essere attraente deve essere appreso senza incontrare ostacoli e trovare riscontro in un campo precostituito di desideri individuali -, può tradursi nell’artefatto digitale (mappatura, power point, podcast, fumetti, ebook, prove di realtà ecc.), nella gara del Debate e in altre possibilità.

Già la terminologia, per la sua semantica performativa, esplicita un evidente sbilanciamento del tempo da dedicare alle conoscenze, e alla loro approfondita e critica elaborazione, su quello necessario per l’organizzazione della didattica e della produzione. Pertanto, i rischi insiti nell’assunzione di queste metodologie afferiscono alla decostruzione del pensiero discorsivo, alla marginalizzazione dello studio, alla frammentazione e banalizzazione del sapere, riproducendo, in forma forse più attraente, il nozionismo che queste pratiche vorrebbero combattere. La logica che soggiace al sapere ridotto ad una «cassetta degli attrezzi» è funzionale al conseguimento di abilità tese al «saper fare, applicare, utilizzare», per l’acquisizione delle quali si assemblano dati e frammenti slegati, o collegati da nessi fittizi, comunque decontestualizzati dai processi culturali e storici che li hanno generati. È una didattica che chiede al docente un ulteriore passo indietro, una nuova riduzione del proprio ruolo a organizzatore, «coach», «instructor», «facilitatore», assemblatore di contenuti esterni standardizzati e non sempre filtrati criticamente. È la figura del «docente liquido», non più il medium di una relazione che mette in comunicazione il sapere e gli studenti, sulla base di una formazione culturale solida, critica e aperta al continuo aggiornamento disciplinare, bensì un tecnico esperto ed esecutore di procedure, supervisore del buon andamento di pratiche, mezzo tra altri mezzi, servo e non padrone del metodo. Ma la trasmissione delle conoscenze attraverso la digitalizzazione informatica a cui queste metodologie devono inevitabilmente ricorrere per essere efficaci, produce anche una preoccupante frammentazione ed esternalizzazione della stessa conoscenza. Innanzi tutto, attraverso l’espulsione del libro dai banchi di scuola, per non parlare dei classici, e di tutte le competenze che esso stimola in termini di lettura-scrittura, concentrazione-riflessione, cognizione-comprensione, organizzazione logico-argomentativa e motivazione dei propri pensieri. Produce il controllo della conoscenza da parte degli operatori privati dell’informatica e una più efficace egemonia politica nella selezione e manipolazione delle informazioni e della stessa cultura, come è sufficiente constatare passando dalla povertà dei contenuti reperibili sulle varie piattaforme didattiche private al monopolio dell’informazione storica da parte della Rai. La quale nella fase di emergenza è diventata piattaforma privilegiata da cui attingere non solo contenuti culturali e disciplinari, ma anche unità di apprendimento standardizzate, talvolta di qualità assai discutibile. Produce impoverimento culturale degli stessi docenti dai quali si pretende principalmente formazione e aggiornamento informatico, con un’intensificazione sfibrante del lavoro che non lascia margini al tempo dello studio e della ricerca. Ma la sistematica astrazione e decontestualizzazione dei saperi, speculare all’accelerazione del tempo, allo sradicamento e alla semplificazione, alla rimozione delle contraddizioni della concretezza storica che soprattutto i saperi umanistici con la loro discorsività sono in grado di rappresentare, ha una conseguenza anche nella crescita della soggettività degli studenti, nella consapevolezza, per dirla con Gramsci, del «proprio valore storico», perché induce all’astrazione anche dal proprio contesto rendendoli maggiormente proni all’esistente per adattarvisi con zelante conformismo.

Un cerchio che si vuole chiudere con l’esternalizzazione della tempo-spazio scuola

Occorreva indicare sommariamente questi presupposti per inquadrare il piano Colao negli esiti del lavoro svolto dal Comitato degli esperti, esposto da Bianchi il 9 giugno in audizione informale alla Commissione Cultura della Camera dei Deputati[2].

In estrema sintesi Bianchi ci prospetta una «nuova scuola» ancora più destrutturata e frammentata, che appellandosi agli articoli 2-3, 33-34 della Costituzione, vorrebbe superare le diseguaglianze economiche e sociali con ricette tratte dalla terminologia e dalla pratica dell’impresa alle quali più volte si richiama. Oltre a rilanciare il settore scientifico, si dovrà puntare sulla formazione tecnologica capace di cogliere la «dexterity» e il «judgment» dei nuovi strumenti, formare alle «digital capabilities», «necessarie oggi per gestire le tecnologie digitali, non solo nella scuola ma anche nell’impresa», e che però nella scuola sono funzionali all’adozione delle nuove pedagogie didattiche, alle quali Bianchi accenna, intelligenti pauca, con fugaci suggestioni. E ancora, si dovrà puntare su una formazione più ampia impostata come accade nell’impresa dove «tutta l’enfasi è posta sulle soft skills» e «la vera competenza richiesta è mettere insieme persone diverse facendole operare insieme, giocare insieme, suonare insieme, lavorare insieme. Un’enfasi –è subito evidenziato – che vada al di là della specifica competenza disciplinare», soprattutto nella scuola superiore ancora troppo legata, secondo Bianchi, allo «specialismo della materia». Insomma bisogna ridisegnare una scuola che sia volano dello sviluppo, inteso in senso esclusivamente professionale ed economico, non a caso segue il passaggio sulla professionalizzazione precoce, perché «la formazione professionale non è un accessorio dell’educazione», né il suo «ultimo stadio, ma parte di un sistema educativo che deve essere integrato».

Una scuola che formi quindi alle specifiche competenze per lo sviluppo del paese, che «sono date dalla creatività, dalla capacità di mettere insieme le persone. Quella che l’OCSE chiama le Collaborative problem solving skills, le competenze per risolvere i problemi insieme». Questa nuova scuola deve rispondere alla «grandissima ricchezza che è il nostro paese, una ricchezza che però si basa sull’assunzione di dare alle persone e ai territori le loro responsabilità» e deve quindi sfruttare al meglio l’Autonomia attraverso un coinvolgimento del territorio «nella gestione ordinaria della scuola», il che impone un cambiamento ancora più estremo del modello didattico sulla base del «superamento», esplicitamente dichiarato, della definizione amministrativa del concetto di classe. «La classe è una microcomunità in cui potere sviluppare le diverse capacità dei ragazzi», dunque la si può frammentare, spezzare, articolare con una progettualità che posiziona i piccoli gruppi all’interno o all’esterno, secondo una rimodulazione del tempo delle lezioni che saranno gli organi collegiali a decidere (40, 50 minuti?), purché il tempo residuo sia utilizzato sul territorio (museo, sport, musica, attività artistiche, educazione civica, gaming) con il coinvolgimento di tutti gli agenti educativi. Con questa logica, il Comitato ha ritenuto fuorviante concentrarsi sulla quantità metrica degli spazi interni agli edifici scolastici, preferendo delegare a ciascuna scuola la ricerca di spazi esterni in base a quello che offrono i territori. A motivare questa delega non è un’analisi dell’oggettiva carenza dell’edilizia scolastica, alla quale evidentemente non si ha alcuna intenzione di riparare, anche in ragione del fatto che non tutte le scuole ne soffrono, bensì uno sfoggio di retorica ecumenica che va dal bisogno di sviluppare «le competenze del vivere una comunità aperta» - una comunità ancora «troppo conflittuale», ma «che deve tornare a essere coesa», che deve porre al «centro la scuola» come «motore del territorio» -, al bisogno di dedicare più tempo alle «materie che fanno la nuova socialità», come musica o sport, che nella scuola sono confinate a poche ore, e che ora potranno finalmente essere svolte insieme al territorio.

Per capire cosa si sta prospettando con questa destrezza comunicativa, occorre ribadire che non siamo di fronte al reperimento di spazi alternativi da offrire provvisoriamente a strutture edilizie inadeguate all’applicazione delle norme di sicurezza imposte dall’emergenza sanitaria, tali strutture infatti rimarranno tali e quali. L’obiettivo è bensì offrire un ulteriore slancio al combinato “Autonomia-Buona Scuola” per proporre un modello di didattica fondato sul «patto educativo di comunità» nel quale integrare in maniera organica tutte le attività, interne ed esterne. Un’offerta didattica unitaria calibrata su più tempi e due spazi: lo spazio interno, con un tempo ancora più contratto da dedicare alla didattica digitale, e lo spazio esterno, dove si “socializzano” alcune discipline. Insomma, una manovra di governance a costi ridotti per lo Stato, che lungi dal programmare interventi sulle diseguaglianze sociali e nonostante l’art. 3 impropriamente citato, si limita a ri-amministrare il sistema istruzione trasferendo deleghe alle Regioni e chiedendo il supporto del terzo settore, del mondo dell’associazionismo pubblico e privato, per non dire del secondo settore a cui fa ampio riferimento il piano Colao. Se a ciò si aggiunge il contesto oggettivo dove tutto questo si andrà a calare, da una parte già ingorgato di attivismo e movimentismo, dall’altra caratterizzato dai differenziali socio-economici di partenza tra aree periferiche e aree urbane, tra Nord e Sud del paese e tra le stesse utenze scolastiche che caratterizzano i vari indirizzi scolastici, sicuramente aggravate dalla crisi in corso, il riferimento allo spirito di comunità e alla cooperazione suona come plateale e consapevole inganno.

Questa surreale esternalizzazione della scuola, che dissemina la classe nella comunità disgregandola come comunità, la astrae dai propri luoghi costringendola a vagabondare, per non dire a mendicare sul territorio diritti e bisogni che lo Stato non riconosce più come tali, non farà che peggiorare soprattutto la formazione culturale degli studenti socialmente più deboli le cui uniche chance di emancipazione sono rappresentate dalla scuola. Un salto di qualità politico organizzativo e politico cognitivo che mentre sostiene il mercato dell’informatica e dei suoi profitti, va incontro al bisogno di formare o forgiare una precisa forma mentis, un capitale mentale che deve sapersi adattare cognitivamente a situazioni di flessibilità e precarietà, rimodulazione continua delle proprie aspirazioni e della propria soggettività in funzione di un mondo del lavoro che, nella sua brutale ingiustizia, ha ormai assunto queste precise caratteristiche. Non c’è che dire, la crisi economica non sembra indebolire «questo complesso formidabile di trincee e fortificazioni della classe dominante», che continua a portare avanti la propria lotta di classe in assenza di una forza contro-egemonica capace di ricomporre la desolante frammentazione che caratterizza il mondo del lavoro e della cultura. Quanto ai rapporti di forza presenti a livello governativo e parlamentare in grado di contrastare o contenere questo progetto, la storia degli ultimi vent’anni ci insegna che sulle politiche classiste da infliggere all’istruzione, gli opposti schieramenti sono sempre riusciti a convergere.

 

 

Riferimenti bibliografici

  R. Bodei, Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, Intelligenza Artificiale, il Mulino, Bologna 2019

  1. Carosotti, R. Latempa, Fondata sulle competenze. La Repubblica dell’Ocse, dalla Buona Scuola al Jobs Act, 2017, https://www.roars.it/online/fondata-sulle-competenze-la-repubblica-dellocse-dalla-buona-scuola-al-jobs-act/

  1. Germinario, Un mondo senza storia? La falsa utopia della società della poststoria, Asterios, Trieste 2017

 H. Giroux (2012), Educazione e crisi dei valori pubblici. Le sfide per insegnanti, studenti ed educazione pubblica, tr. it. La Scuola, Firenze 2014 

 M. Spitzer (2012), Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi, tr. it. Corbaccio, Milano 2013

 

[1] https://www.corriere.it/economia/aziende/20_giugno_08/strategia-6-punti-il-rilancio-dell-italia-piano-task-force-colao-documento-integrale-225de19e-a9a1-11ea-b9d7-2bd646fda8c5.shtml

[2] https://www.radioradicale.it/scheda/607855/commissione-cultura-scienza-e-istruzione-della-camera-dei-deputati

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