Giovanni Casaletto

 

Riceviamo e volentieri pubblichiamo come contributo al dibattito

 

Probabilmente Gorbaciov non avrebbe pensato che sarebbe morto mentre il suo paese invadeva l’Ucraina. E forse con questo e molte altre cose non avrebbe mai voluto fare i conti. Con un pizzico di crudeltà potremmo anche dire che, forse, molte non le ha debitamente messe in conto nella sua azione riformatrice, al punto da non riuscire a governarne gli esiti. Ma questo non vuole certo essere questo un giudizio di valore, perlopiù postumo, sulla sua azione.

Anzi, per me si tratta di un’occasione particolarmente ghiotta per provare a dare libero sfogo ad alcune suggestioni che nel corso della mia militanza si sono addensate alla rinfusa. Suggestioni, appunto, domande irrisolte, pensieri sparsi. Quindi la mia è lungi dall’essere una trattazione compiuta sull’uomo politico e sulla fase che ha incarnato. Ciò che mi spinge è la passione politica e gli spunti di riflessione, le domande e le speranze che ad essa sono legate.

In questo contesto da tempo mi passa per la mente un interrogativo intrigante. E se Gorbaciov e Berlinguer si fossero trovati a guidare i rispettivi partiti nello stesso arco temporale? Sarebbe mutato qualcosa nella sfera dei rapporti tra il PCUS e il resto del mondo e tra il PCI e il resto del mondo? Sarebbe cominciata una nuova esperienza socialdemocratica ovvero saremmo testimoni di un partito comunista dal volto umano, come Gorbaciov ha sperato diventasse quello sovietico e come è sempre apparso quello italiano?

Le mie sono suggestioni dunque, che nulla hanno a che vedere con la ricerca storica, né ho avuto modo di andare in profondità delle ragioni che spinsero Gorbaciov ad avviare la stagione riformatrice all’interno del mondo sovietico e non ne ho indagato gli aspetti interni, essendomi soffermato, come tutti e con molti limiti, sui loro esiti nei rapporti internazionali e sulla scena globale, provando a spostare la riflessione attuale su un asse policentrico delle relazioni internazionali.

Quello che oggi appare ai nostri occhi, pensando alla Russia di Putin, è un modello di autoritarismo capitalistico, lontano da quello cinese, in tensione continua verso il “decadente Occidente amorale”, in virtù del quale si recuperano in chiave empatica e accogliente i fasti di quella che fu la grande esperienza sovietica, la sua grandezza e la sua capacità di mobilitare milioni di persone nel mondo, al solo scopo di dare una cornice di legittimazione all’azione di Putin ed alla sua accolita di oligarchi accumulatori di ricchezze[1]. Sono il disegno e la linea di movimento di una potenza regionale che ha nel DNA i cromosomi imperiali.

Gorbaciov ha perso. I suoi detrattori hanno vinto. Quelli che lo contrastavano dall’interno hanno vinto, Eltsin e Putin hanno vinto. In verità è opportuno precisare che rispetto alla precedente esperienza socialista, nella traiettoria evolutiva della Russia, il primo, succeduto a Gorbaciov, ha incarnato un frettoloso esperimento di presa del potere, senza una chiara idea di marcia e sotto i colpi di un Occidente festante al palesarsi della crisi dell’URSS, addirittura Bill Clinton lo definì il “padre della democrazia russa” avendo dato il via al più grande e fuorviante piano di privatizzazioni che spianò la strada a profittatori e corrotti di ogni tipo. Il secondo, Vladimir Putin, è stato artefice di una ripresa economica al ritmo del 7% di PIL annuo e di una riduzione della fascia di povertà molto accentuata negli anni dal 2002 al 2009, dati della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, pur dentro ad un regime di mercato già avviato a liberalizzazione dal predecessore.

E se le cose non fossero andate così? E se il comunismo sovietico si fosse rivelato riformabile come, sia pure con una forte dose di pessimismo, aveva continuato a sperare Enrico Berlinguer? Se quella occasione fosse stata colta avremmo oggi un mondo così confuso e instabile?

Alla fine di quella esperienza storica, quella sovietica, si disse che il mondo sarebbe stato più giusto, più libero, più “eguale”. Sarebbe stata quella che alcuni chiamarono la “fine della storia”. Purtroppo il mondo che ne è seguito ci appare per come è, devastato da guerre, con aumentate disuguaglianze, con sistemi democratici come quelli occidentali in grave difficoltà e sotto i colpi di populisti e sovranisti. Aggiungo che purtroppo i presagi per il futuro sono inquietanti. Crescono le difficoltà economiche, la crisi sociale derivante da un ritorno aggressivo dell’inflazione, i pericoli di una guerra “energetica”, che pure avevano spinto l’Europa di pochi mesi fa a varare il Green New Deal. Sono tutti elementi inquietanti che gettano un’ombra sul futuro che sembra ricondurci agli anni Venti del secolo scorso, in cui l’Europa può diventare il buco nero dello scontro in atto, il rotolo assorbente le contraddizioni che si porta dietro il mondo globale. Quel mondo che dal 1991 prometteva di essere altro e che invece non ha mai smesso di coltivare la sua autodistruzione.

C’è una ragione se Bergoglio nel discorso[2] di Pasqua in piena pandemia, nel suo Urbi et Orbi chiede all’Europa di attuare il Recovery Plan, si rivolge all’UE per chiedere di intervenire con uno strumento finanziario. Il Papa che parla al mondo intero parte dall’Europa, mette al centro l’Europa. Perché vede nel rinsecchirsi delle matrici espansive e di crescita in Europa i tarli che possono ri-catapultare il mondo in un conflitto totale, di farlo ripiombare nell’esplosione dei nazionalismi che hanno insanguinato il ventesimo secolo, quel “secolo breve” che invece, smentendo forse il più longevo e penetrante assunto della storiografia sul mondo contemporaneo (si ricordi Hobsbawm)[3], rischia di proiettare ancora nel 2022 i suoi spettri e le sue dinamiche autodistruttive, ben oltre il 1989 e ben oltre il 1991. E quando Bergoglio ha visto addensarsi sull’Europa il groviglio dei pericoli che corre il mondo ancora non era scoppiata la guerra in Ucraina.

Si dovrebbe aprire una riflessione sulle attuali visioni macroeconomiche e sulle dinamiche geopolitiche[4]. Ma andremmo troppo oltre l’ambito di queste riflessioni. E tuttavia chiedersi da dove derivi tutto ciò, se effettivamente le fasi storiche e le stagioni politiche abbiano seguito un corso preordinato oppure no, aiuta forse a vedere con anticipo gli ostacoli, a cogliere le linee di demarcazione. E se ci si fosse accorti per tempo che qualcosa stava cambiando e che bisognava correre ai ripari, se non fosse stata derubricata a questione di secondo piano la lotta alla corsa agli armamenti, se non fosse prevalso un’idea di autosufficienza del sistema capitalistico, se infine, come ha autorevolmente scritto giorni fa Massimo D’Alema, non si fosse ritenuto di dover estendere oltre misura i confini della NATO tralasciando le ragioni di popoli affamati e privilegiando quelle della politica di potenza, agita contro un sistema in ginocchio, forse oggi avremmo potuto sperare di portare all’interno di un confronto pacifico le ragioni di tutti. E invece siamo di fronte ad una impasse incredibile, in cui la sistemica contrapposizione dei big player, rende poco autorevoli, non legittimate e poco credibili le risoluzioni proposte dagli organi internazionali. È vero o no che una parte di mondo che contesta il modello di società dell’altra parte dovrebbe accettare una ONU, un Consiglio sui Diritti Umani[5] presieduto da “stati canaglia” (secondo una definizione coniata in riferimento alle centrali del terrorismo di matrice islamica)? Ed è vero o no che le stesse contraddizioni risuonano nella mancanza di un seggio europeo all’ONU e nell’articolata dinamica tra atlantisti e scettici?

Dovremmo qui riconsiderare gli assi ed i principi che fanno di un sistema di stati un modello di liberaldemocrazia. E indagare quanto terreno si sia perso e quanto ne stiamo perdendo su quelli che Giuliano Amato definisce i “prerequisiti di una democrazia funzionante”, cioè “un tasso di uguaglianza sufficiente ad assicurare quella coesione necessaria ad ogni società perché vi si possano riconoscere tutti coloro che ne fanno parte e ne accettano le regole”[6].

Allora - e mi rendo conto che l’assunto è ardito, enorme, e forse finanche spropositato - io ritengo che tra Gorbaciov e Berlinguer si sia dipanato il nodo che avrebbe potuto far cambiare traiettoria al pianeta, che nel mancato incrocio delle rispettive volontà sia declinata la speranza di un mondo più ordinato, una via d’uscita al disordine scaturito dal crollo di uno dei due blocchi e modelli di società del secolo scorso. Da un lato il segretario generale del PCUS, dall’altro il segretario del più grande partito comunista d’Occidente, leader amato in un paese saldamente ancorato al sistema di relazioni e solidarietà atlantico[7].

Questa mia forse semplicistica suggestione trova conferma anche in un interessante contributo apparso su Jacobin a firma di Guido Liguori[8], tra i più autorevoli studiosi di Gramsci e della storia del comunismo nel nostro paese.

Egli con grande finezza categorizza i termini di un dialogo a distanza, elenca i punti su cui i comunisti italiani avrebbero influenzato la politica sovietica, dal sostegno ai processi di distensione e di pace, alla lotta contro il riarmo, alla messa in discussione sia della NATO che del Patto di Varsavia, malgrado la nota intervista con la quale Berlinguer si disse più sicuro sotto l’ombrello della prima.

I due si sarebbero, e ciò è documentato e documentabile, in qualche modo “annusati” e hanno avuto occasioni di scambio e di dialogo in più occasioni. Fin da quando nel 1969 Berlinguer aveva preso parte alla conferenza internazionale dei partiti comunisti che si svolse a Mosca, l’anno in cui comincia ad uscire e ad affermarsi con precisione il profilo e la linea del giovane dirigente che di lì a pochi anni diventerà segretario del più grande partito comunista dell’Occidente[9]. Già in quella occasione Berlinguer delinea i contorni di un orientamento “soviet scettico” (mi si passi la enorme semplificazione per rendere l’idea della sfida lanciata). Già prima di diventare segretario del PCI Berlinguer delinea i tratti della sua impostazione politica[10]. In una Direzione del 1973 lo stesso Berlinguer inserì nel dibattito una formulazione di politica estera in cui vi fosse una “Europa né antisovietica, né antiamericana”, dove intravvedeva una modifica dei rapporti di forza oltre lo schema della guerra fredda e verso l’affermazione “del movimento rivoluzionario, delle forze del socialismo e della pace” contro il “carattere aggressivo” dell’imperialismo[11]. E ancora la fase dell’europeismo, sul finire degli anni Settanta, mette in evidenza una direzione a lungo praticata da Berlinguer, con non poca difficoltà, contro il peso della tradizione e dei tratti più marcati della politica del PCI nelle relazioni internazionali[12]. Un europeismo, dunque, che sottende una visione dei rapporti e della stessa distensione bipolare che si colloca fuori dalla portata ortodossa o “stabilizzatrice” che intendono i vertici di Mosca, una tensione che guarda al mondo nelle sue emergenti complessità e che non può pensarsi all’interno della sfera d’influenza e della repressione delle tendenze centrifughe[13].

È forse questo il tratto maggiormente in dialogo, magari distopico per come lo leggo nelle mie suggestioni ad inizio di testo, con Gorbaciov. Ma è un tratto che non può essere derubricato a circostanza, così come l’intera impostazione politica di Berlinguer va intesa, da principio alla fine, nella doppia azione interna e internazionale, la seconda come fattore caratterizzante del pieno disegno politico e di riforma del comunismo occidentale compiuto da Berlinguer.

Gorbaciov, da par suo, come scrive Liguori, “annunciò una serie di riforme molto vicine a quelle che per tutti gli anni ’70 erano state auspicate dai comunisti italiani: una graduale democratizzazione delle strutture politiche del suo Paese, l’instaurazione finalmente di uno Stato di diritto socialista, la separazione del partito dallo Stato, una apertura al mercato, che doveva coesistere con altre forme di proprietà dei mezzi di produzione (statale, cooperativa, ecc.). Tutte riforme che erano vicine alle idee-forza dell’eurocomunismo, il movimento per un comunismo democratico che Berlinguer aveva lanciato negli anni ’70, suscitando l’ira dei predecessori di Gorbaciov, in primo luogo Breznev”[14].

E lo stesso, inaugurando la perestroika, dichiarò un debito di gratitudine verso Berlinguer e i comunisti italiani per le critiche che avevano mosso al sistema sovietico, malgrado la prudenza con la quale aveva sempre dichiarato di modernizzare e democratizzare, ma mai di mettere in discussione, la società sovietica.

Bisogna, per onestà, aggiungere che prima di Gorbaciov gli elementi e le contaminazioni concettuali nel solco della cosiddetta “sicurezza condivisa” e dunque in direzione di una interdipendenza non soltanto economica, di un nuovo sguardo sul mondo oltre la divisione dei due blocchi contrapposti, erano vivi e seducenti almeno sin dai movimenti di leader riconosciuti e amati come Olof Palme e Willy Brandt, se non al centro esclusivo certamente animatori di un dibattito intenso tra reti di leader europei, dell’Internazionale Socialista ma anche di esponenti del mondo sovietico[15].

Si trattò di tentativi dunque, sia da parte di Gorbaciov che da parte di Berlinguer, consumati nel solco dell’universalismo e dell’umanesimo comunista di matrice marxista. Laddove Berlinguer, a mio avviso, va comunque inquadrato in continuità con l’azione togliattiana, pur nella tendenza utopica che molti autorevoli esponenti della sinistra storica italiana sono usi rappresentare. Ma da lì si muove. Ed è esattamente dentro quella cornice ispirata al realismo politico di Togliatti[16] che intende avviare, certamente senza schemi precostituiti e senza saldi ancoraggi internazionali (quelli interni sono da ricercare nella strategia del compromesso storico), la stagione dell’eurocomunismo. Tentativi, agiti nell’ambito delle rispettive utopie processuali[17], ma il cui lascito propone nel 2022 di misurarsi con le occasioni mancate, con le immani sfide poste all’umanità, da quella ambientale ed energetica, a quella nucleare e della politica di potenza, a quella del governo legittimo dei processi globali e dei luoghi della democrazia contemporanea, infine a quelli su scala extranazionale sul versante dei diritti e dello stato sociale. Quei temi restano tutti di fronte a noi e gli esiti non sono scontati.

Si trattò di tentativi che tuttavia hanno avuto la forza di contestare dall’interno (da parte di Gorbaciov in particolare da segretario generale del PCUS e da presidente dell’URSS) un sistema retto da pochi burocrati agenti sullo sfondo di una visione collettivistica. Ma la fine di quel sistema non ha comportato, sul versante occidentale, una messa in discussione di pari forza, o anche solo una critica, di un sistema capitalistico che ancora oggi consegna nelle mani di pochi oligarchi planetari il 90% della ricchezza mondiale.

Con altrettanta forza, pure coltivando qualche utopia, occorrerebbe affrontare la crisi delle potenze globali. Occorrerebbe cercare una via per ancorare a mercati di sbocco reali le strategie che l’UE sta varando, a partire dal Green Deal. Un europeismo fine a sé stesso non basta più, mentre un europeismo su scala planetaria potrebbe ricercare convergenze e solidità di sistema anche oltre le vecchie appartenenze atlantiche. Un mondialismo europeo favorirebbe l’entrata sulla scena globale di attori da sempre guardati come Terzo Mondo e questa sarebbe la via per ripercorrere le strategie di dialogo e di coesistenza tra modelli non perfettamente aderenti ai principi dell’ordinamento liberale internazionale. Questi mondi, una volta definiti terzi o addirittura quarti, oggi sono i potenziali protagonisti di una rivoluzione globale, nella quale i cambiamenti e gli stravolgimenti di senso, stili di vita e abitudini si registrano nel lasso intercorrente una sola generazione.

Le potenzialità insite nelle produzioni ad elevata tecnologia, l’approvvigionamento delle materie essenziali alla loro produzione e riproduzione, la sempre più stringente necessità di affrancarsi dalla dipendenza fossile dischiudono campi di applicazione e possibilità di distribuzione di ricchezza e di potere mai conosciute. Si tratta di dar vita a forme di democrazia energetica[18] che in alcuni villaggi dell’Africa sperimentano positivamente un nuovo rapporto tra uomo e natura, tra attività umana e sostenibilità[19], luoghi da cui immani masse di uomini e donne fuggono in cerca di climi meteorologici e politici più miti. Si tratta di creare forme e sistemi di approvvigionamento che metterebbero quantomeno in condizioni di difendersi, ad esempio da una pandemia, interi villaggi e popolazioni. Basta pensare a quanti ostacoli troverebbe una campagna vaccinale in luoghi in cui però non ci sono abbastanza frigoriferi per contenere le scorte, in una popolazione, quella africana che conta un miliardo e 300mila persone oggi e che nel 2050 sarà quasi raddoppiata[20]. Si tratta di luoghi che presentano, dunque, da qui ai prossimi 30 anni una crescita esponenziale di abitanti e di cui paiono essersi accorti solo la Chiesa di Papa Bergoglio, da un lato, e la Cina di Xi Jinping dall’altro. Il primo in chiave evangelica, dove ad una crescita dei corpi corrisponde una crescita doppia di anime, pronte ad evangelizzarsi e ad ascoltare il messaggio cristiano, la seconda in chiave di mercati di sbocco e di crescita endogena, di investimenti, di trasferimento di quote di potere economico e sociale[21].

Tutto ciò di fatto già comporta una proliferazione di centri decisionali. Viviamo ma non ancora tematizziamo la nuova dimensione multipolare nello scacchiere delle grandi potenze. Viviamo ma non ancora tematizziamo la portata epocale dei cambiamenti in atto e delle conseguenze che possono cambiare il corso delle cose, delle produzioni, del potere nelle cosiddette catene globali del valore, degli assetti industriali. E possono espellere da quella che Schumpeter definiva la “distruzione creativa” intere filiere produttive e intere strategie economiche e industriali di multinazionali e di Stati sovrani.

Servirebbe una leadership europea in grado di cimentarsi con queste sfide, servirebbe un pensiero in grado di ascoltare la sofferenza prodotta dalla sommatoria delle forme di sfruttamento e disuguaglianza. E servirebbe qualcuno pronto a giocare di sponda all’UE, senza aderenze premarcate e senza la presunzione di linguaggi e modelli universali e bastevoli. Occorre un pensiero politico coraggioso, capace anche di cogliere il meglio della cultura gesuitica, capace di rimettersi sulle tracce dei deboli e capace di orientare la bussola verso un nuovo globalismo, non solo quello finanziario ma soprattutto quello dei popoli, degli uomini e dei diritti. E’ necessario un pensiero capace di compiere un passaggio a Sud-Est lungo le rotte della globalizzazione, per presentare nel discorso pubblico globale le esigenze di chi ha di meno al fine di costruire una convivenza e un avvicinamento tra chi ha di meno e chi ha di più, ma soprattutto per presentare una unione di anime e di corpi (quelli che fuggono da guerre e carestie e che cercano ancoraggi spirituali oltre che materiali) in grado di unificare questo mondo, di pacificare questo mondo fatto ancora di guerre e di diseguaglianze.

 

[1] Interessante al riguardo il volume di I. Krastev e S. Holmes, La rivolta antiliberale. Come l’Occidente sta perdendo la battaglia per la democrazia, Mondadori, 2020. Gli autori mettono sotto la lente il fiorire di opzioni politiche antiliberali e antidemocratiche, nella loro accezione di contestazione e di critica allo spirito di emulazione verso l’Occidente, aspetto troppo a lungo regolatore della politica internazionale che ha, altresì, animato ed ispirato l’azione di Putin e di altri capi di governo i quali sono riusciti a costruire una base ampia di consenso nei loro paesi, indirizzata contro il decadimento morale dell’Europa e dell’Occidente e sensibile ad un richiamo nostalgico verso i fasti del passato imperiale.

[2] Al riguardo è consultabile il discorso integrale al link https://www.cesvop.org/wp-content/uploads/2020/04/papa-francesco_20200412_urbi-et-orbi-pasqua.pdf

[3] E. J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, 1995. L’imponente lavoro di Hobsbawm traccia certamente una linea fondamentale nella periodizzazione e nella trattazione dei temi caratterizzanti il Novecento. La rilettura proposta è piuttosto un modello di riferimento per riconsiderare alcuni assunti di fondo in una chiave, naturalmente, nuova e aggiornata ai tempi, con evidenze postume. Non possiamo certo affermare che il terzo millennio si sia aperto con lo scontro tra capitalismo e comunismo ma certamente possiamo affermare che il primo è ancora dentro ad un conflitto che ne mette in discussione la sua capacità di tenuta, considerate le immani diseguaglianze che gli attuali modelli ad economia capitalista continuano a conoscere. Inoltre i recenti accadimenti nel cuore dell’Europa tra Russia e Ucraina consentono di ricollocare esattamente in questa parte di mondo non già un primato storico o di centralità “epistemologica”, quanto la intrinseca e geografica attualità di un rischio di guerra globale, di un riattivarsi di fratture e frizioni in grado di rimettere in discussione senza soluzione di continuità gli attuali assetti geopolitici e i rapporti di forza. Forse, riteniamo, queste tendenze e questi rischi sono rimasti tali e mai curvati realmente ben oltre il 1991, solo riassorbite sotto una apparenza storiografica e l’affermazione di una lettura politica preponderante.

[4] Per un primo inquadramento degli approcci culturali in Cina e delle prospettive per la costruzione di interessi strategici italiani si veda Limes, in particolare G. Cuscito, Il piano dell’Italia per far parte delle nuove vie della seta e Z. Wenmu, La natura della geopolitica e la sua applicazione in Cina, entrambi apparsi nel numero 11/2018; per un inquadramento, utile ai nostri scopi, del sistema delle relazioni tra Stati e aree di influenza si veda E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali, vol. III. Dalla fine della guerra fredda a oggi, Laterza, 2016.

[5] Cfr. A. Marchesi, La protezione internazionale dei diritti umani. Nazioni Unite e organizzazioni regionali, Franco Angeli, 2011.

[6] G. Amato (a cura di), La democrazia nel XXI secolo. Riflessioni sui temi di Alfredo Reichlin, Treccani, Arti Grafiche La Moderna, 2022, pp. 9-15.

[7] Sul punto è interessante la lettura dell’articolo di M. Di Maggio, Tra socialdemocrazie e PerestroJka. Le relazioni internazionali del PCI nelle carte di Alessandro Natta (1984-1988), in Studi Storici, 1/2020, pp.193-227, Carocci Editore, 2020. L’autore compie una accurata ricostruzione del dibattito interno al gruppo dirigente PCI sotto la segreteria Natta, delle occasioni di confronto interno e internazionale sui temi di più ampio respiro e sulla questione spartiacque che vede impegnata ed influente l’area dei cosiddetti miglioristi, cioè da un lato il rilancio delle relazioni con l’URSS per una concezione unitaria del movimento comunista, dall’altro il rifiuto “sia sul piano politico che su quello ideologico di ogni possibilità di rilancio del vecchio internazionalismo togliattiano e berlingueriano”. È di tutta evidenza, da una lettura approfondita dell’articolo di Di Maggio, che una parte molto organizzata del gruppo dirigente PCI spinge per osservare con un certo distacco i tentativi di riforma avviati dal gruppo dirigente gorbacioviano, mentre lavora ad una linea ormai marcatamente aderente al profilo ed ai rapporti con i partiti socialisti europei e con l’Internazionale Socialista.

[8] G. Liguori, Gorbaciov e il PCI, pubblicato il 6 settembre 2022 con il titolo Italy’s communists found fleeting hope in Mikhail Gorbachev su Jacobin, https://jacobin.com/2022/09/italian-communist-party-pci-enrico-berlinguer-mikhail-gorbachev-communist-reforms.

[9] Cfr. S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Einaudi, 2006, pp. 3-19.

[10] Ibidem, p. 10.

[11] Ivi, pp. 23 e 24.

[12] Cfr. S. Pons, Enrico Berlinguer e la riforma del comunismo in Italianieuropei, bimestrale del riformismo italiano, n. 3/2004, anche consultabile al link https://www.italianieuropei.it/it/la-rivista/archivio-della-rivista/item/749-enrico-berlinguer-e-la-riforma-del-comunismo.html

[13] Ibidem

[14] G. Liguori, Ibidem

[15] Si veda al riguardo l’articolo di Paolo Borioni apparso su “il manifesto” e consultabile al link https://ilmanifesto.it/una-fertile-stagione-che-chiamo-a-ruolo-la-socialdemocrazia.

[16] Sul punto si veda, ad esempio, Togliatti ne Il destino dell’uomo, discorso pronunciato all’interno della Conferenza tenuta a Bergamo il 20 marzo 1963, testo poi apparso su Rinascita il 30 marzo ’63. In quella occasione Togliatti traccia i lineamenti di un dialogo possibile tra comunisti e cattolici, di una iniziativa politica di carattere popolare, al fine di costruire le basi per un mondo di pace e in grado di contrastare la corsa agli armamenti. Ciò certamente a conferma di una linea di continuità profonda tra la strategia di insediamento popolare e di dialogo col mondo cattolico, in Togliatti, e la strategia del compromesso storico in Berlinguer. Nello stesso tempo i passaggi profondi sul rapporto coi cattolici si collocano oltre il richiamo allo stesso realismo togliattiano, ma prefigurerebbero una acuta e trascurata anticipazione di una rifondazione del comunismo oltre i confini dell’esperienza nata dall’Ottobre, la proposta di una rielaborazione dei paradigmi teorici e culturali per il movimento comunista internazionale. Sul punto sarebbe oltremodo utile rileggere il memoriale di Yalta per comprendere le ragioni di una interpretazione critica della rottura tra PCUS e partito comunista cinese, in una crisi dell’universalismo comunista su cui bisognerebbe riflettere per ricercare ancoraggi e riferimenti orientati allo sviluppo pacifico del socialismo, anche qui in una linea di continuità con le considerazioni sulla via italiana al socialismo e sulla democrazia progressiva.

[17] Sul punto si segnala l’interessante contributo di A. Hobel, L’enigma Gorbaciov e il suo lascito. Qualche considerazione a caldo in Marxismo Oggi, dove l’autore nel ripercorrere una guida a due fasi, tra realismo ed utopia, rintraccia in questa seconda fase i germi della più avanzata proposta globale ed universalista dei secondi anni Ottanta. L’articolo è consultabile al link https://www.marxismo-oggi.it/saggi-e-contributi/articoli/539-l-enigma-gorbaciov-e-il-suo-lascito-qualche-considerazione-a-caldo

[18] In questa luce andrebbero oggi rilette molte posizioni di Berlinguer volgarmente definite moraliste e pauperiste.

[19] Cfr. in G. Amato (a cura di), cit. il saggio di V. Termini, Spunti di democrazia nella trasformazione energetica, pp. 163-187.

[20]https://www.un.org/development/desa/pd/sites/www.un.org.development.desa.pd/files/wpp2022_summary_of_results.pdf

[21] Per approfondimenti http://www.focac.org/eng/ e http://www.sais-cari.org, si veda anche https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/forum-cina-africa-cosa-e-cambiato-18-anni-21173

Aggiungi commento


Codice di sicurezza
Aggiorna

Toogle Right

Condividi

Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti, necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy.