Andrea Vento *

 

Le destre tornano al potere

Funestato dalla pandemia e dai suoi devastanti effetti sanitari, economici e sociali, il gravoso 2020 latinoamericano, nella sua parte terminale registra significativi segnali di ripresa delle istanze progressiste, provenienti dalle urne di Bolivia (la vittoria di Luis Arce alle presidenziali) e dai 2 Plebisciti in Cile che aprono la strada riforma costituzionale attesa da oltre un trentennio.

Risultati positivi indotti, oltre che dalla crisi economica causata dal covid-19 e dall'inadeguatezza dei sistemi sanitari, anche dalle ricadute negative sui ceti subalterni delle politiche neoliberiste implementate negli ultimi decenni del '900 dai governi conservatori, i quali, dopo l'inedita fase progressista di inizio millennio (2003-2016), hanno iniziato a recuperare terreno fino a divenire nel 2019 schiacciante maggioranza in Sud America, imprimendo nuovo impulso a tali politiche antipopolari.

A fine 2019 rimanevano, infatti, in campo progressista solo il Venezuela e l'Argentina, mentre i restanti otto principali Stati sudamericani risultavano in mano alle destre, alcune anche estreme come il Brasile di Jair Bolsonaro e la Colombia di Ivan Duque, delfino dell'ex presidente Alvaro Uribe, il fido scudiero sudamericano di Washington. Oltre a Jeanine Áñez in Bolivia subentrata "ad interim" alla presidenza dopo la destituzione di Evo Morales nell'immediato post elezioni di fine 2019 e rimasta in carica con un governo golpista di estrema destra per circa una anno.

In questa fase dai dinamici equilibri politici, ma con un clima favorevole alle forze progressiste vittoriose con Pedro Castillo in Perù, Xiomara Castro in Honduras e Gabriele Boric in Cile e sconfitte solo in Ecuador da Guillermo Lasso, si chiude il 2021 latinoamericano, che seppur corroborato dalla decisa ripresa dell'attività economica, con una crescita media macroregionale del 6,7% (tab. 1) dopo la grave flessione del -6,8% dell'anno precedente, ha registrato la riattivazione del dinamismo sociale e delle proteste di piazza le cui radici, al di là di fattori contingenti come la crisi pandemica, affondano in fattori storici ancora persistenti, come le marcate disparità interne e una povertà che continuava ad interessare circa 1/3 dei suoi abitanti.

 

Il cambio di scenario del 2022

La prima volta della Colombia

La prima importante tornata elettorale del 2022 latinoamericano si tiene in Colombia, con le attese elezioni presidenziali che seguono le parlamentari del 13 marzo, nelle quali, in un clima di grande frammentazione partitica, pur ottenendo   solo il 17%, conquista la maggioranza relativa dei voti il raggruppamento delle forze di centro-sinistra, Pacto Historico, nato dalle lotte sociali dell'anno precedente. Al primo turno del 29 maggio esce in testa proprio il candidato della nuova formazione progressista, Gustavo Petro. L'economista, ex guerrigliero del gruppo M-19 ed ex sindaco di Bogotà, raccoglie infatti il 40% dei voti e precede l'outsider Rodolfo Hernandez col 28% e l'ex sindaco di Medellin, Federico Gutiérrez, esponente della destra, fermatosi al 24%, il quale sin da subito dichiara di appoggiare il candidato indipendente per sbarrare la strada alla vittoria delle sinistre. Già uscito sconfitto da Ivan Duque al ballottaggio del 2018, Petro, grazie al nuovo clima sociale e ad una efficace campagna elettorale, riesce a far salire l'affluenza alle urne dal 55% del primo turno, al 58% del secondo e a spuntarla al ballottaggio dell'11 giugno col 50,42% grazie anche al fondamentale contributo della candidata vicepresidente, l'afrodiscendente Francia Marquez, avvocato, attivista sociale, ambientalista e femminista. Petro, primo presidente progressista della storia della Colombia, in un'atmosfera di grandi speranze di cambiamento, si insedia alla presidenza il 7 agosto con una fitta e complessa agenda politica e con innanzi un percorso irto di ostacoli, a causa delle gravi problematiche interne al Paese (povertà, disuguaglianze, narcotraffico, guerriglia, rispetto del processo di pace, opposizione dell'oligarchia ecc..) ed alla consolidata posizione geopolitica della Colombia di fedele alleato di Washington in Sudamerica.

 

Tabella 1: tassi di variazione percentuali del Pil anni 2019-20-21-22-23 a prezzi costanti delle principali 6 potenze economiche latinoamericane. Fonte: Cepal

America Latina e principali 6 potenze economiche

Variazioni percentuale del Pil

Anni 2019-2023

 

Dati rilevati

Cepal

Dati rilevati

Cepal

Dati rilevati

Cepal

Dati preliminari

Cepal

Previsioni Cepal

aprile 23

Anno

2019

2020

2021

2022

2023

Brasile

+ 1,4

-3,9

+ 5,0

+ 2,8

+ 0,9

Messico

-0,1

-8,2

+ 4,7

+ 2,9

+ 1,1

Argentina

- 2,1

- 9,9

+ 10,4

+ 4,9

+ 1,0

Venezuela

- 28,8

-30,0

-3,0

+ 12,0

+ 5,0

Colombia

+ 3,3

-6,8

+ 10,7

+ 8,0

+ 1,5

Cile

+ 1,1

-5,8

+ 11,7

+2,3

-1,1

America Latina

e Caraibi

+ 0,1

- 6,8

+ 6,7

+ 3,7

+ 1,7

Dati 2023: Bilancio preliminare 2022 (Cepal: dicembre 2022) delle economie dell'America latina Dati 2021 e 2022: Annuario statistico 2022 della Cepal - 22 febbraio 2023 https://repositorio.cepal.org/bitstream/handle/11362/48706/S2200730

Dati 2020: Annuario statistico 2021 della Cepal https://repositorio.cepal.org/bitstream/handle/11362/47827/S2100474Dati 2019: Annuario statistico 2020 della Cepal https://repositorio.cepal.org/handle/11362/45353

 

L'affossamento del processo costituente in Cile

La stesura in Cile del nuovo testo costituzionale articolato in 338 articoli, da parte dei 155 membri della Convenzione, in maggioranza progressisti, rappresentanti dei movimenti usciti dalle lotte di piazza e indipendenti, conduce all'atteso Plebiscito nazionale previsto per il 4 settembre, per il quale, nonostante le grandi aspettative nel Paese, i sondaggi lasciavano presagire un esito incerto.

Il nuovo testo, definito da più parti come una delle proposte costituzionali più avanzate a livello mondiale, dichiarava fra le varie il Cile "uno stato sociale e democratico di diritto, plurinazionale, interculturale, regionale ed ecologico", chiudeva con l'impianto liberista dell'economia introducendo nuovi diritti sociali e stabiliva la nuova democrazia come "paritaria e inclusiva". Soprattutto tre tematiche introdotte  nel testo (il diritto all'aborto, la parità di genere nel settore pubblico col 50% dei posti riservati alle donne e la questione dei diritti dei popoli originari) non sono vengono apprezzate dall'intero popolo cileno che al referendum, a seguito di strumentalizzazioni, fake news e di un'aggressiva campagna mediatica delle destre, per il 62% si esprime in modo contrario all'approvazione della nuova costituzione. Una bruciante sconfitta, per le forze progressiste e per i movimenti popolari, riconducibile ad un testo particolarmente innovativo per i diritti sociali e l'assetto dello Stato, che a causa del meccanismo elettorale del referendum, accettare o respingere in toto, ha indotto molti cileni che condividevano l'impianto del testo, ma che divergevano su uno o pochi punti, a votare per il respingimento. Una batosta anche per il neopresidente Boric che subisce un ridimensionamento nel suo progetto politico di riforme economiche e costituzionali e viene costretto, da un lato, ad un rimpasto nella squadra di governo, a vantaggio dei moderati, e, dall'altro, ad un nuovo percorso costituente, dopo il fallimento di questo primo tentativo.

 

Il ritorno della democrazia in Brasile

In Brasile i disastri del primo mandato della presidenza Bolsonaro, che, da un lato lasciano in eredità al Paese una gestione negazionista della pandemia con 685.000 [1] morti, un sensibile aumento della povertà, un tasso di disboscamento dell'Amazzonia mai registrato prima, un inasprimento della violenza e dei rapporti sociali, un'espansione dell'agrobusiness oltre a violente repressioni delle lotte contadine, corruzione e isolamento internazionale del Paese, dall'altro, finiscono per sollevare concrete speranze di archiviazione della stagione di estrema destra, confidando nel ritorno al governo di Lula, dopo la definitiva riabilitazione giudiziaria. Con la società brasiliana fortemente polarizzata intorno alle contrapposte proposte politiche dei due principali sfidanti (liberista in campo economico e fortemente conservatrice nella visione della società e della religione quella di Bolsonaro,  orientata verso le fasce sociali deboli, per un ruolo centrale dello Stato nell'economia e più sensibile alle questione ambientali, l'altra di Lula) il 3 ottobre si svolge il primo turno delle presidenziali in contemporanea con l'elezione di 27 degli 81 senatori, della totalità dei 513 membri della Camera dei deputati e dei 27 governatori degli Stati federati. La costituzione brasiliana, entrata in vigore nel 1988 dopo la dittatura militare (1964-1985), riserva al presidente della repubblica, eletto a suffragio diretto, anche l'incarico di capo del governo.

Nell'ottica di concedere maggiori possibilità di effettivo esercizio del potere esecutivo, disponendo la contemporanea effettuazione anche delle elezioni legislative per il rinnovo di circa 3/4 dei seggi dei due rami del parlamento, la costituzione offre la possibilità al presidente di indirizzare l'azione legislativa tramite il proprio partito o la coalizione che lo ha sostenuto al primo turno. Possibilità che non sempre tuttavia si verifica e che, in caso contrario, risulta foriera di tensioni, difficili mediazioni politiche e di pretestuose deposizioni tramite voto istituzionale, come accaduto a Dilma nel 2016.

Dato in svantaggio anche di 10 punti dai sondaggi, Bolsonaro ha cercato di inasprire i toni e di alzare il livello dello scontro ricorrendo massicciamente alle fake news e di far leva sul potente apparato mediatico privato conservatore, ispirandosi alla stessa strategia utilizzata per la vittoria alle presidenziali del 2018, nel tentativo estremo di colmare il divario. Il presidente uscente, ex paracadutista e parlamentare di lungo corso, dopo aver abbassato le tasse ai ricchi, riformato le pensioni in senso regressivo, tagliato la spesa per la tutela dell'Amazzonia, in vista delle elezioni ha, anche, stanziato fondi da destinare ai sussidi per le fasce sociali più deboli, per cercare di accaparrarsi il consenso di settori sociali tradizionalmente vicini a Lula[2]. Il candidato di estrema destra ha inoltre ripetutamente espresso dubbi di regolarità del sistema elettorale con voto elettronico, sostenendo la proposta di ritorno al voto cartaceo. La continua denuncia di brogli, sommata alle gravi accuse personali lanciate contro Lula, compresa quella di essere un "ladro", è stata interpretata da vari analisti funzionale alla strategia del non riconoscimento della legittimità del voto in caso di sconfitta.

Lula, invece, si è presentato nelle vesti di possibile ricompositore delle lacerazioni sociali e istituzionali provocate da Bolsonaro cercando di creare un ampio "fronte democratico" da contrapporre alle torsioni autoritarie, estremiste e populiste del suo avversario. La scelta come candidato a vicepresidente del fervente cattolico Geraldo Alckmin, per 12 anni ex governatore dello Stato di San Paolo e suo sfidante alle presidenziali del 2006 del Partito della Social Democrazia Brasiliana (PSDB), va inquadrata nel progetto politico di Lula di ampliare la sua base  elettorale anche a settori centristi e moderatamente conservatori che, pur essendo tradizionali settori che guardano al centro-destra, non si riconoscono nelle pulsioni totalitarie di Bolsonaro, non a caso dichiaratosi nostalgico della dittatura militare. Rispetto agli ultimi sondaggi, dalle urne del 3 ottobre, alle quali accorrono il 79,04% degli aventi diritto, fuoriescono due relative sorprese: Lula sfiora soltanto la vittoria al primo turno fermandosi al 48,43%, mentre Bolsonaro recupera terreno arrivando al 43,20% ottenendo la maggioranza relativa dei seggi alla Camera, con la sua formazione politica, il Partito Liberale, che ne conquista 99, contro i 79 della coalizione "Brasile speranza", composta dal Partito dei lavoratori (Pt) di Lula, dal Partito comunista del Brasile (PCdoB), dal Partito Socialismo e Libertà (Psol) e dal Partito verde (Pv). Il risultato delle parlamentari, confermando il complessivo quadro di frammentazione partitica dello scenario brasiliano con 19 fra partiti e coalizioni che eleggono rappresentati alla Camera, non riescono ad esprimere la formazione di alcuna maggioranza parlamentare coesa, costringendo il vincitore del ballottaggio a continue mediazioni per trovare accordi con altri partiti.

Le quattro settimane che separano dal secondo e decisivo turno registrano un inasprimento del confronto con il tentativo di ogni candidato di compattare le forze della propria parte o quanto meno quelle più vicine, oltre alla continuazione della strategia destabilizzatrice di Bolsonaro di delegittimare la regolarità del voto denunciando brogli. Quest'ultimo, come blocco sociale di riferimento, può contare sulle Chiese evangeliche (in primis neo-Pentecostali), le forze armate, gli agrari, l'oligarchia bianca, i poteri forti e le forze reazionarie, mentre dalla parte di Lula si schierano le classi sociali subalterne, il ceto medio deluso dal presidente in carica, le regioni meno sviluppate del Paese come il nord-est e l'Amazzonia, i lavoratori e gli afrodiscendenti. Abbastanza netta risulta anche la frattura fra città e campagna, con la prima dalla parte di Lula e la seconda, soprattutto negli Stati centrali incentrati sull'agrobusiness, per Bolsonaro.

Al responso delle urne del 30 ottobre, nonostante l'ultimo sondaggio avesse dato Lula in vantaggio col 53%, l'ex sindacalista si aggiudica la partita di una stretta incollatura col 50,90% dei suffragi, staccando Bolsonaro di 2.100.000 voti, grazie anche al lieve aumento dell'affluenza ai seggi salita al 79,41%. Una vittoria sofferta, ma fortemente voluta, che conferma, da un lato, il consolidamento dell'estrema destra brasiliana e, dall'altro, la marcata polarizzazione che divide il Paese e che ha portato il livello dello scontro in campagna elettorale a livelli mai raggiunti tanto da aver indotto diversi analisti politici brasiliani a definirla la campagna elettorale "più sporca della sua storia" con menzogne, false accuse e offese, anche nel faccia a faccia finale. Nel suo primo discorso dopo la vittoria Lula ha cercato di rassicurare il Paese dichiarando la sua volontà di voler governare "per tutti i 215 milioni di brasiliani. Non ci sono due Brasili, c'è un unico Paese, un unico popolo, un'unica nazione" concludendo, in un clima di pacificazione nazionale, con l'affermare che "non si tratta di una vittoria mia, né del Partito dei Lavoratori, né dei partiti che mi hanno appoggiato, è la vittoria di un grande movimento democratico che è al di sopra dei partiti e degli interessi nazionali".

La vittoria di Lula chiude la nefasta parentesi della presidenza Bolsonaro e archivia definitivamente la breve stagione dei governi conservatori latinoamericani, apertasi con la destituzione di Dilma nel 2016, confermando come il Brasile rivesta, oltre a quello di potenza economica regionale, anche ruolo di guida politica nel contesto del proprio subcontinente. L'insediamento del nuovo presidente, previsto per il 1° gennaio successivo, si preannuncia un percorso non semplice per la democrazia brasiliana. Ciò alla luce sia del previsto mancato riconoscimento della sconfitta da parte di Bolsonaro che per il suo successivo trasferimento in Florida per curare sopraggiunte patologie, lasciando al vicepresidente in carica l'onere di gestire il passaggio di consegne alla futura amministrazione.

 

La destituzione di Castillo in Perù

Intanto, nel corso dell'ultimo anno e mezzo, in Perù i poteri forti, l'oligarchia nazionale e le forze reazionarie si sono contraddistinte per aver cercato di bloccare l'attività politica del presidente di sinistra, Petro Castillo, e per causarne la caduta o la destituzione.

L'ex insegnante, dopo aver trascorso un periodo estremamente difficile alla guida del Paese andino, durante il quale gli è stata resa quasi impossibile l'attuazione dell'azione di governo e dopo aver commesso anche errori di inesperienza, viene messo in stato di accusa e, successivamente, deposto il 7 dicembre 2022, tramite voto parlamentare con 101 favorevoli e 6 contrari su 130 voti, per aver tentato, il giorno precedente, di sciogliere il parlamento, in vista dell'ennesimo voto di destituzione architettato dalle opposizioni, e di instaurare un "governo di emergenza nazionale".

La vicepresidente Dina Boluarte subentra alla presidenza dando vita ad un governo di destra, benché in origine esponente del partito di sinistra Perù Libero, mentre nel Paese esplodono le proteste popolari, soprattutto da parte delle comunità amerindie dell'altopiano. Le manifestazioni di piazza, violentemente represse dalla polizia con oltre 60 morti e centinaia di feriti, sfociano nella condanna dell'operato delle forze dell'ordine e del nuovo Presidente da parte di molti governi, soprattutto latinoamericani.

Le imponenti manifestazioni dei popoli originari, approvate dall'89% della popolazione, hanno in cima alla piattaforma di rivendicazione le dimissioni di Dina Boluarte, il cui governo è considerato illegittimo anche da Messico, Argentina, Bolivia e Colombia, l'indizione di elezioni per il prossimo ottobre e una Assemblea costituente, per la stesura di un nuovo testo costituzionale che archivi quello del 1992 ereditato dalla dittatura di Alberto Fujimori. Il progetto di riappropriazione delle risorse nazionali predisposto, e solo marginalmente attuato, da Castillo, ha inevitabilmente portato fin dall’inizio il suo governo in rotta di collisione con gli interessi dell’oligarchia nazionale e del capitale transnazionale, le cui strategie destabilizzatrici sono iniziate sin dal suo insediamento, tant’è che già nei primi mesi di presidenza è stato sottoposto ad un primo pretestuoso voto parlamentare di impeachment[3].

I peruviani in lotta sono consapevoli della necessità di invertire le politiche economiche neoliberiste che, a partire dall'era Fujimori, hanno aperto la porta alla privatizzazione dei servizi pubblici, al taglio della spesa sociale, sanitaria e per la pubblica istruzione, oltre al rilascio di numerose concessioni di sfruttamento delle risorse minerarie ed energetiche a vantaggio di multinazionali straniere che hanno causato la devastazione delle terre andine e amazzoniche abitate dalle comunità amerindie.

Un modello economico che ha permeato l'intero subcontinente e che porta esclusivo beneficio alle oligarchie, ai ceti abbienti nazionali e al capitale transnazionale, contro il quale i popoli originari e le classi subalterne stanno lottando da decenni decisi a chiudere definitivamente la lunga stagione post coloniale, neoliberista e repressiva che li ha relegati al ruolo strutturale di vittime sacrificali del profitto e della rendita estrattivista.

Lo scontro interno al Perù fra questi blocchi sociali ed economici contrapposti costituisce il substrato nel quale affondano le radici i golpe istituzionali, l’instabilità politica perdurante, con l'avvicendamento di ben 6 presidenti, fra marzo 2018 e dicembre 2022, e le reiterate proteste di piazza[4].

 

2023: l'alba della nueva oleada de izquierda

L'insediamento di Lula alla presidenza del Brasile ad inizio 2023, seguito l'8 gennaio da un maldestro attacco di matrice golpista al Congresso Nazionale, in stile capital hill, da parte dei sostenitori di Bolsonaro, consacra la nueva oleada de izquierda (nuova ondata di sinistra), dopo quella di inizio millennio (tabelle 2 e 3).

L’affermazione di Lula, anche in considerazione della posizione del Messico di Lopez Obrador (Amlo), determina il definitivo spostamento a sinistra del baricentro politico latinoamericano. In Sud America, in particolare al netto del Perù post golpe,     risultano insediati presidenti progressisti nei sei principali Paesi sudamericani (Brasile, Argentina, Colombia, Venezuela, Cile e Bolivia), mentre le destre nei tre Stati di minor importanza economica e geopolitica: Ecuador, Paraguay e Uruguay.

La nuova stagione progressista, sin dalla prima riunione della Celac del 24 gennaio scorso a Buenos Aires, con l'immediato rientro del Brasile di Lula, registra una ripresa del processo di integrazione latinoamericano, precedentemente interrotto dal ritorno delle destre al governo, con l'obiettivo di creare un soggetto politico unico da contrapporre a Washington in grado di tutelare la sovranità degli Stati a sud del Rio Bravo e di ottenere garanzie di non interferenza negli affari interni. Processo che assumerà connotazioni più chiare in base all'esito delle prossime elezioni presidenziali in Argentina del 23 ottobre, per le quali, peraltro, non si ricandideranno né il Presidente e la vicepresidente in carica, i peronisti di sinistra Alberto Fernandez e Cristina Kirchner, né il liberista Mauricio Macri, leader della destra e già capo di Stato dal 2016 al 2019. Pesanti rinunce che lasciano un vuoto politico e ampi margini di incertezza sull'esito del voto, sulle quali pesa la drammatica situazione economica e sociale del Paese con l'inflazione che a maggio ha raggiunto il 114,2% su base annua[5], il tasso di interesse innalzato al 97%, il debito pubblico, fra estero e nazionale, che a dicembre 2022 ha raggiunto l'85% del Pil[6], il peso che si è svalutato di circa il 35% sul dollaro da inizio anno e la povertà è salita al 40%, arrivando ad interessare quasi 20 milioni di argentini.

Nel subcontinente latinoamericano la locuzione democrazia sovrana, a lungo declinata all'insegna del predominio economico e politico interno dei ceti abbienti e dell'assoggettamento geopolitico statunitense, viene da alcuni anni messa in discussione dalle classi subalterne e dai popoli originari che si stanno battendo per società più eque e rappresentative di tutte le istanze sociali ed etnico-culturali e per l'instaurazione di relazioni internazionali paritarie.

Lo scontro fra oligarchie nazionali e imperialismo, da un lato, e il variegato fronte di "los de abajo", dall'altro, che ha caratterizzato il percorso storico del subcontinente fin dalla sua indipendenza, non troverà, a nostro avviso, soluzione di continuità fino a quando i popoli latinoamericani non riusciranno ad emanciparsi dalla dominazione oligarchica e neocoloniale, riuscendo ad istituire forme democratiche realmente compiute e una effettiva integrazione economica e politica macroregionale.

 

Tabella 2: panoramica politica dei principali Stati del Centro America e del Messico

 

Panoramica politica

Centro America e Messico

(giugno 2023)

Stato

Presidente

Inizio mandato

Orientamento

politico

Costa Rica

Rodrigo Chaves

Robles

Maggio 2022

Centro-

centrodestra

Cuba

Miguel

Diaz-Canel

2019 - Aprile 2023

Sinistra

Rep.

Dominicana

Luis Abinader

Agosto 2020

Centro-sinistra

El Salvador

Nayib Bukele

Giugno 2019

Destra

Guatemala

Alejandro

Giammattei

Gennaio 2020

Destra

Haiti

Ariel Henri

Luglio 2021

Centro-Destra

Honduras

Xiomara Castro

Gennaio 2022

Sinistra

Nicaragua

Daniel José

Ortega

1985-90 e 2007 -

2011 - 2016 - 2021

Sinistra (?)

Panamá

Laurentino

Cortizo

Luglio 2019

Centro-sinistra

Messico

Andrés Manuel

Lopez Obrador

Dicembre 2018

Centro-sinistra

 

Tabella 3: panoramica politica dei principali Stati del Sud America

 

Panoramica politica America Meridionale (giugno 2023)

Stato

Presidente

Inizio

mandato

Orientamento

politico

Argentina

Alberto

Fernandez

Novembre 2019

Centro-Sinistra

Bolivia

Luis Arce

Novembre 2020

Sinistra

Brasile

Inacio "Lula" da

Silva

2003-2010 e

gennaio 2023

Centro-Sinistra

Cile

Gabriel Boric

Marzo 2022

Centro-Sinistra

Colombia

Gustavo Petro

Agosto 2022

Sinistra

Ecuador

Gullermo Lasso

Maggio 2021

Centro-Destra

(liberale)

Paraguay

Santiago Peña

Agosto 2023

Destra

Perù

Dina Boluarte

7 dicembre 2022

ad interim

Governo di unità nazionale (*)

Uruguay

Louis Alberto

Lacalle Pou

Marzo 2020

Destra

Venezuela

Nicolas Maduro

5 marzo 2013 e

gennaio 2019

Sinistra

 

* Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati

[1] https://www.nytimes.com/2021/03/03/world/americas/brazil-covid-variant.html

[2] Nei mesi a ridosso delle elezioni Bolsonaro ha aumentato a 600 reias la quota di sussidio mensile denominato "Auxilio Brasil" erogata circa 30 milioni di brasiliani in condizioni di difficoltà socioeconomica.

[3] https://www.lindipendente.online/2022/01/03/il-peru-sfida-le-multinazionali-ricominciando-a- nazionalizzare-il-petrolio/

[4] La perdurante instabilità politica peruviana di Andrea Vento

https://magazine.cisp.unipi.it/la-perdurante-instabilita-politica-del-peru/

[5] https://www.agenzianova.com/news/argentina-linflazione-cresce-del-1142-per-cento-su-base-annua/

[6] https://finanza.repubblica.it/MacroEconomia/AR/

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