Nunzia Augeri

 

Nei paesi d’America Latina l’estate del 1973 era densa di sospetti e di apprensioni. Il governo di Unidad Popular, guidato da Salvador Allende, aveva introdotto la riforma agraria, la nazionalizzazione delle miniere di rame e aveva intrapreso rapporti di amicizia con paesi socialisti, Cuba in primo piano. Tutto questo, e perfino alcune misure elementari di aiuto per i meno fortunati - come il bicchiere di latte che la scuola offriva ai bambini - aveva suscitato l’allarme e risvegliato l’anticomunismo delle forze reazionarie appoggiate dagli Stati Uniti.

Lo sciopero dei camionisti in corso quell’estate in Cile, così esteso, capillare e prolungato, era assai evidentemente sostenuto da forze avverse al governo, che disponevano di grandi mezzi per fornire tutto l’aiuto organizzativo, logistico ed economico necessario, allo scopo di destabilizzare l’economia del paese. Il colpo di Stato, il giorno 11 settembre, giunse non del tutto inatteso, ma inattesi furono i modi e la misura degli avvenimenti. In America Latina non erano infrequenti l’uso delle armi e i massacri: in Messico, per esempio, ancora si piangevano gli ottocento morti della strage di Tlatelolco (ufficialmente solo 26) del 1968; ma l’agire dei militari cileni – rappresentati dall’inquietante figura di quel generale nascosto dietro grandi lenti scure – lasciò attonito il mondo per la ferocia usata contro le migliaia di oppositori politici che tutte le televisioni mostrarono radunati nello stadio di Santiago.

Gli anni seguenti non furono sereni: nel 1980, a sette anni dal sanguinoso colpo di Stato che pose fine al governo e alla vita del presidente Allende, il paese era saldamente nelle mani del generale Pinochet e della giunta militare, i quali peraltro non cessavano di perseguitare gli oppositori politici: carcere, torture, morte toccavano ancora migliaia di persone, anche giovani e giovanissimi. In economia, la giunta portava avanti con decisione le ricette economiche ultra liberiste dei “Chicago boys”: privatizzazioni, riduzione dei finanziamenti ai servizi pubblici, riduzione dei salari e taglio dei contributi per gli alimenti, aumento della spesa militare e impennata della disoccupazione. Se in un primo momento nel paese sembrò determinarsi un lusinghiero aumento del PIL, questo derivava dall’aumento delle esportazioni di rame, di cui il Cile era uno dei maggiori produttori coprendo il 36% del mercato mondiale; ma i proventi non toccavano la popolazione, ne profittarono solo pochi privilegiati. Nei primi anni 80 più del 50% della popolazione era sprofondata sotto la soglia di povertà, non riusciva neppure a nutrirsi a sufficienza, e il tasso di disoccupazione – che nel 1973 era del 4,8% - oscillava fra il 26 e il 30%.

Nel quadro delle privatizzazioni imposte dal liberismo selvaggio che vuole ridurre al minimo il ruolo pubblico in tutti i settori della vita associata, il Gobierno Nacional decise di decentralizzare il sistema scolastico, instaurando la “municipalizacion” dell’istruzione, cioè il passaggio delle funzioni amministrative – la cura delle strutture e la retribuzione dei docenti – ai singoli comuni. Si trattava solo di un primo passo verso la privatizzazione totale, giacché si prevedeva di procedere gradualmente alla vendita delle scuole, soprattutto i licei, a privati o aziende. Per lo Stato la priorità restava l’educazione di base, cioè i primi otto anni, mentre l’istruzione media superiore venne considerata un bene di mercato e come tale doveva essere pagata.

Gran parte del mondo della scuola – docenti e studenti – non accettava di buon grado la misura: fra i comuni, alcuni erano ricchi, altri poveri o poverissimi, e non potevano offrire lo stesso standard di studi a tutti i ragazzi, in città e nelle campagne, nei centri e nelle periferie. Questo approfondiva il solco – già molto ampio – fra le classi, giacché i giovani delle classi popolari, privi della possibilità di pagarsi gli studi superiori, assai difficilmente avrebbero potuto evitare il destino di povertà e di degrado cui sembravano condannati. E bisogna ricordare che nelle case, nelle famiglie, fra il popolo impoverito e affamato, nessuno aveva dimenticato i crimini del 1973, e nessuno ignorava la continua repressione.

Rispetto alla “municipalizacion” erano sorte però delle perplessità che toccavano perfino il vertice più alto, lo stesso generale Pinochet: benché lo Stato si riservasse di fissare l’impostazione culturale generale degli studi, si temeva di perdere il controllo politico del corpo insegnante e di non poter assicurare ai giovani una formazione coerente con gli ideali nazionalisti, militaristi e anticomunisti che la dittatura voleva imporre.

Si trattava di una preoccupazione molto sentita negli ambienti governativi: nell’agosto del 1979 era stato assassinato Federico Alvarez Santibañez, un dirigente del MIR (Movimiento de Izquierda Revolucionaria) che insegnava ancora in un liceo della capitale, benché dal gennaio dello stesso anno un documento riservato ne vietasse l’impiego in tutte le scuole pubbliche. Scattò l’allarme e il Ministero dell’istruzione decise di rivedere le schede relative a tutto il personale insegnante, circa 90.000 persone. Un lavoro molto importante, per il quale venne richiesta la collaborazione della famigerata Central Nacional de Informaciones (CNI), cioè i servizi segreti, responsabili dei lavori più sporchi: pedinamenti e pestaggi, attentati e sequestri, torture e assassinati. Il lavoro, iniziato nel 1979, durò vari anni e portò ad allontanare dalla cattedra circa 8.000 insegnanti, definiti “elementi contrari al Supremo Governo”, i quali peraltro mai seppero la ragione del loro licenziamento. All’interno delle scuole, professori complici del regime spiavano colleghi e alunni e li denunciavano, ben sapendo quali ne sarebbero state le conseguenze.

Ma la conseguenza più importante fu che la CNI iniziò una collaborazione sistematica con il Ministero dell’istruzione in materia di riforma del sistema scolastico nazionale: il ministro Alfredo Prieto Bafulluy si consultava quasi quotidianamente con il capo della polizia segreta generale Odlanier Mena, per controllare la posizione politica di singoli insegnanti e studenti, o per discutere le norme da introdurre nel nuovo sistema educativo, sia a livello medio che universitario. L’istruzione nazionale restò così sottoposta a una occupazione burocratico-militare destinata ad avere serie ripercussioni sulla vita degli studenti e dei docenti, e in prospettiva sul futuro del paese.

Nel novembre 1980 cominciò a entrare in vigore la riforma che affidava le scuole medie superiori ai municipi. Le prime misure coinvolgevano 300 scuole medie superiori con 3.000 insegnanti e circa 50.000 studenti, che vennero affidati a 14 diversi comuni. All’inizio non ci fu quasi alcuna opposizione, solo brevi manifestazioni improvvisate in alcuni licei di Santiago, peraltro non coordinati fra loro. Tanto bastò a mettere in allarme i servizi di sicurezza, che imposero come dirigenti scolastici dei militari di alto grado in pensione, e raddoppiarono l’attenzione e il controllo sugli studenti dei licei.

La riforma peraltro cominciò presto a mostrare delle difficoltà: nell’ottobre 1981 circa duecento insegnanti con più di vent’anni di servizio – e quindi capaci e sperimentati – presentarono le dimissioni. E quel che più preoccupava le autorità era che i municipi non fossero in grado di verificare la lealtà al regime dei nuovi insegnanti: un memorandum della CNI al ministro Prieto rendeva noto che “in alcune regioni del paese sono entrati a insegnare degli elementi seriamente dubbi sul piano politico”. A questo si aggiunsero le malversazioni dei fondi pubblici che il governo centrale versava per l’istruzione e che i municipi invece spendevano per altri scopi; oppure, soprattutto nel caso di scuole private sovvenzionate, i fondi sparivano in tasche imprecisate. Ultima difficoltà non meno importante, il caso del conflitto con le scuole cattoliche che non accettavano supinamente le trasformazioni imposte dal governo.

Intanto la crisi economica faceva scendere sulle strade grandi masse popolari, dapprima organizzate dall’opposizione politica allora diretta dall’ex presidente Eduardo Frei, ma presto quasi monopolizzate dal Partito comunista e dal MIR. In tutto il paese iniziarono le “marce della fame”, che culminarono nel 1983 con una grande ondata nazionale di proteste: i minatori proclamarono uno sciopero che incise notevolmente sulla produzione di rame; le città vennero di nuovo occupate dall’esercito, nei quartieri poveri ci furono estesi rastrellamenti, decine di persone morirono per le strade e altre migliaia finirono nelle prigioni o al confino in lontani villaggi andini.

Il malcontento non tardò a dilagare nelle scuole, dove iniziò a sorgere un movimento studentesco organizzato i cui promotori furono in primo luogo i giovani del Partito comunista cileno e alcuni militanti del MIR. Il risveglio politico dei giovani non sfuggì certo all’occhiuta polizia segreta, che giudicò necessario creare un movimento studentesco fedele ai valori e ai simboli della dittatura. Vi si impegnarono lo stesso generale Pinochet e sua moglie, la signora Lucia Hiriart. L’iniziativa del governo consisteva nell’organizzare grandi giornate di propaganda, coinvolgendo ogni volta fino a mille studenti delle scuole medie superiori, provenienti preferibilmente da famiglie contadine e di funzionari pubblici che si supponevano fedeli al regime. I ragazzi venivano condotti dalle più lontane regioni del paese al Palazzo del governo, nella capitale, per essere indottrinati sull’ideologia nazionalista e anticomunista del regime, e rendersene poi divulgatori fra i compagni.

L’azione del governo, nonostante l’impegno personale della signora Pinochet, non ebbe grande successo. Cominciò invece a organizzarsi la protesta degli studenti di sinistra, che in vari licei della capitale costituirono delle associazioni d’istituto che ben presto confluirono in due organizzazioni più ampie, il Frente Unitario y Democratico de Enseñanza Media e la Union de Estudiantes Secundarios. Si costituirono poi il Movimiento de Estudiantes Democraticos e la Organizacion de Estudiantes Democraticos. Anche i giovani democristiani si organizzarono nella Asamblea de Estudiantes Cristianos, particolarmente attenta alla difesa dei diritti umani. Intanto fra gli studenti si muovevano alacremente i partiti: in primo luogo il Partito comunista, che diventerà la maggior forza organizzata del movimento studentesco; il MIR, che fece entrare zolfo, salnitro e carbone – il materiale necessario per fabbricare esplosivi - nel prestigioso Liceo de Aplicacion; il Partito socialista e la Democrazia cristiana.

Gli studenti avevano finalmente strutture comuni e una voce unitaria: dalla fine del 1983 scoppiò una ondata di occupazioni delle scuole, di manifestazioni e scontri con la polizia, con l’inevitabile seguito di detenzioni e assassinati. In uno degli scontri, all’inizio del 1984, morì il dirigente studentesco Mauricio Maigret, di 17 anni, che viveva già da vari mesi con l’incubo di essere spiato dalla CNI. Tre mesi prima di cadere, aveva scritto: “E’ stato molto difficile, mi sono tirato indietro molte volte, ho messo in dubbio i miei pensieri, ho titubato e sperimentato la paura, ma su tutto ha vinto la coscienza che questo sistema è brutale e sanguinario, che l’unica cosa che vale la pena nella vita è lottare per un ordine più giusto, e che qualsiasi alternativa uno scelga all’interno del sistema lo trasforma in complice della miseria e del terrore”. Di converso, durante l’occupazione del Liceo femminile numero 6, la dirigente scolastica venne isolata in un’aula e tenuta sotto il tiro della pistola di uno studente del MIR, cosicché gli studenti poterono venire a patti con la polizia e abbandonare la scuola senza subire alcuna violenza.

Per le occupazioni si era precisato un modello operativo che prevedeva l’azione di tre “brigate”: una “brigata rossa” che teneva a bada gli insegnanti; una “brigata nera” che saliva sul tetto e dispiegava gli striscioni pubblicizzando l’occupazione; e una “brigata verde” che si occupava degli studenti; inoltre un piccolo gruppo era attrezzato per il pronto soccorso. Le parole d’ordine stavano cambiando, seguendo la presa di coscienza politica dei giovani studenti: non si parlava più soltanto della municipalizzazione delle scuole, ora si rivendicavano spazi di democrazia all’interno della scuola come della società, contro la dittatura militare. Dal 1984 migliaia di giovani entrarono nei movimenti politici, e centinaia si unirono alle strutture della guerriglia o di autodifesa. “Per le loro mani passarono manifestini, libelli politici, ma anche bombe rudimentali, pennelli e ciclostili, e tonnellate di illusioni” ricorda l’allora dirigente Juan Carlos Morada. E la loro azione non si limitò alle manifestazioni studentesche: inaugurarono gruppi di lavoro debitamente organizzati, che durante le vacanze scolastiche si recavano nei lontani villaggi aymara e mapuche, per aiutare gli indigeni lasciati sempre in miseria ai margini della vita nazionale.

Fra gli studenti sorgevano continuamente nuovi gruppi e associazioni e si moltiplicarono manifestazioni, cortei e occupazioni dei licei. Gli avvenimenti cileni erano conosciuti e seguiti giorno per giorno anche all’estero. Ricorda la allora liceale Claudia Reyes Allendes, figlia del giornalista e diplomatico Fernando Reyes Matta: “C’era un compagno incaricato dei rapporti con la stampa internazionale. Mio padre gli dava i contatti con giornalisti di tutto il mondo. Alcuni ragazzi erano stati in esilio e parlavano varie lingue, il che facilitava di molto il compito”.

Il 1985, iniziato con un distruttivo terremoto, proseguì con folate repressive di estrema violenza: due fratelli, studenti del Liceo de Aplicacion, furono assassinati per la strada. Lo stesso giorno, il 29 marzo, il professore comunista Manuel Guerrero fu sequestrato nella scuola dove insegnava, il Colegio Latinoamericano de Integracion, e pochi giorni dopo fu trovato con la gola tagliata, insieme con il sociologo José Manuel Parada e il giornalista Santiago Nattino. La repressione imperversava in tutte le scuole, ma non riuscì a fermare le manifestazioni e le occupazioni, mentre la discussione politica fra i diversi e numerosi gruppi studenteschi portava a precisare un programma di ulteriori rivendicazioni: sempre in prima linea la lotta contro il passaggio delle scuole superiori alle amministrazioni comunali, ma si chiedevano anche tariffe agevolate per il trasporto degli alunni, apertura di centri studenteschi democratici, e avvio delle indagini per individuare i responsabili degli assassinati di studenti.

Gli studenti concordarono inoltre di tornare a costituire la Federacion de Estudiantes Secundarios (FESES), che era sorta negli anni di Allende, e nel 1973 era stata subito disciolta dalla giunta militare. La nuova organizzazione, estesa su tutto il territorio nazionale, aveva una base di migliaia di studenti, ed era guidata da giovani dirigenti appartenenti al partito comunista, al MIR, alla Democrazia cristiana, ai socialisti e al movimento di Sinistra cristiana. Lo slogan lanciato dalla Federazione fu “Sicurezza per studiare, libertà per vivere”.

“Da quel momento non siamo stati più un coordinamento politico e siamo diventati un movimento sociale”, osserva Dago Perez, allora dirigente studentesco del MIR. E infatti si muove anche la società civile organizzata nella Asamblea de la Civilidad, che insieme con gli studenti lancia il grande sciopero del 2-3 luglio 1986: è la maggior protesta mai organizzata contro il regime e per due giorni paralizza totalmente il paese, come i servizi segreti temevano fin dal 1984. La repressione obbliga molti studenti a passare in clandestinità. Come Manuel Guerrero, figlio del professore assassinato l’anno precedente. Venne assalito da cinque uomini che lo picchiarono e gli puntarono un coltello al collo, avvertendolo: “Se continui così, finirai come tuo padre”. Il ragazzo di 15 anni deve sparire nascondendosi nelle case di vari compagni prima di riuscire ad abbandonare il paese. E per lui non è la prima volta: già a 13 anni era stato espulso dalla scuola per ragioni politiche e aveva peregrinato fra Ungheria, Italia e Catalogna. Prima di lasciare il Cile per la seconda volta, diretto in Svezia, Manuel deve accettare di muoversi con una guardia del corpo: un ragazzino tredicenne che gira con la pistola in tasca; si chiama Hector Becerra, più tardi si sarebbe arruolato nell’Esercito di Liberazione Nazionale della Colombia e nel 1999 avrebbe partecipato al dirottamento del volo 9463 di Avianca fra le città di Bucamaranga e Bogotà.

Anche Mauricio Escarate, che aveva 17 anni e faceva parte dell’organizzazione giovanile comunista, finì per rifugiarsi in Svezia. “Per quanto sembri impossibile, in quegli anni andavo in giro con l’esplosivo nella cartella”. Venne arrestato durante l’occupazione del suo liceo, che per caso fu registrata e trasmessa dalla televisione nazionale. Rimase quindici giorni in carcere: “Ero un ragazzino – ricorda – e mi nascondevo negli angoli per piangere. Un giorno, non so come, apparve una chitarra e una compagna cantò una canzone di Isabel Parra. Ancor oggi quando la ascolto mi metto a piangere”. Infine fu caricato su un autobus e trasportato a Toconao, un villaggio aymarà, dove rimase in regime di confino, con obbligo di firma due volte al giorno. Ebbe l’aiuto del sindacato dei minatori del luogo per trovare un alloggio, e la gente del paese si mobilitò per sfamarlo; il contatto con gli indigeni e con i minatori fece maturare la coscienza politica e sociale del liceale di Santiago, ma il ragazzo soffriva molto: “Credevo di diventare pazzo – ricorda – pensavo solo a ritornare”. La sua famiglia riuscì a far intervenire l’UNICEF, Mauricio venne graziato e tornò a casa, ma dopo solo una settimana ricevette un avviso minaccioso dalla polizia: “Appena compi diciotto anni, le cose cambiano”. E nel 1986, al compimento del diciottesimo compleanno, partì per il Messico, e da lì per Lund, in Svezia.

Nel settembre del 1986 ci fu un attentato alla vita di Pinochet. Lo aveva organizzato il Frente Patriotico Manuel Rodriguez, un’organizzazione armata uscita dalle fila del Partito comunista che prendeva il nome dall’eroe dell’indipendenza cilena. Venti guerriglieri, tutti giovanissimi, comandati da José Valenzuela Levi, tesero un’imboscata al convoglio di auto di Pinochet, che tornava dal fine settimana nella casa di campagna, in un punto dove la strada si stringeva fra una collina e un burrone. Condotto con fucili ed esplosivo, l’attacco uccise cinque militari della scorta e ne ferì undici, ma lasciò illeso il generale.

Fu proclamato lo stato d’assedio e venne lanciata una straordinaria ondata di repressione. Sette appartenenti al commando del Frente Patriotico furono scoperti e arrestati, fra loro Valenzuela Levi e anche una ragazza, la giovanissima liceale Esther Cabrera. Interrogati e torturati nella sede della CNI, furono poi trasferiti, legati e scalzi, in una casa abbandonata dove una pallottola alla nuca pose fine alla loro vita. Proteste e manifestazioni peraltro non cessarono, e il movimento studentesco acquisì sempre più un carattere militare: nel Frente Patriotico e nel Partito comunista molti giovani cominciarono a ricevere una precisa formazione militare, dalle tecniche di pedinamento alla fabbricazione casalinga di armi. Nelle scuole superiori pubbliche e private si formarono dei Comitati di Autodifesa, che comprendevano almeno un incaricato della logistica e un esperto di arti marziali. Camuffati da boy-scouts, gli studenti si recavano regolarmente in montagna per addestrarsi nell’uso delle armi e nelle tattiche di combattimento in città, organizzati in autentici battaglioni che contavano fino a trecento giovani. Conferma Dago Perez, sottolineando la profonda solidarietà di quei momenti: “Discutevamo e mettevamo a punto le azioni a scuola, durante la ricreazione, a volte un compagno arrivava con le armi nella cartella e tutti ne prendevamo cura, dividevamo il cibo quando qualcuno non aveva niente da mangiare, erano tempi in cui si faceva la fame”.

Intanto la situazione diventava sempre più difficile per gli studenti: non solo imperversavano la repressione poliziesca e le delazioni, ma all’interno dei partiti e dei gruppi studenteschi sorgevano divisioni e contrasti, e si infiltravano spioni al soldo della CNI, che fomentavano ulteriormente le discordie. Al processo di disgregazione non sfuggì la FESES: nell’ottobre del 1986 il suo dirigente Juan Alfaro dovette passare in clandestinità. Dapprima restò un mese rifugiato come seminarista in una casa della Congregazione della Santa Croce a Santiago; una delazione lo costrinse ad abbandonare quel rifugio e recarsi a Temuco, dove fu ospitato in una casa sicura gestita dal MIR. Da lì pochi giorni dopo partì per l’Argentina, con un viaggio attraverso le Ande analogo a quello raccontato da Pablo Neruda nella sua autobiografia.

Juan aveva 17 anni e una lunga esperienza di persecuzione: aveva appena 4 anni quando suo padre scomparve nel gorgo dei grandi massacri del 1973. L’anno dopo aveva visto sua madre, una infermiera comunista, massacrata di botte e portata via dalla polizia. Affidato alla nonna poverissima, a 7 anni guadagnava qualche soldino vendendo pettini sugli autobus. Ancora alunno delle medie inferiori era diventato un piccolo leader, subito notato dal Partito comunista: una delegazione del partito prese contatto con lui per esortarlo a entrare nel partito; aveva 13 anni. Dopo alcuni anni di carcere, la madre tornò fortunatamente a casa, e quando lui aveva 14 anni in carcere finirono entrambi, sorpresi una notte a stampare manifestini contro il governo. Uscito dalla prigionia, a 15 anni divenne uno dei dirigenti delle proteste studentesche di massa che rovesciavano per le strade migliaia di ragazzi, e centinaia nelle prigioni. All’inizio del 1986 si era recato all’Avana, dove aveva incontrato Fidel Castro che lo aveva incoraggiato: “Non abbandonare mai la lotta”. Dovette abbandonarla per salvare la vita.

Nel 1987 solo il Cile e il Paraguay restavano sotto il giogo di una dittatura, in America Latina. A poco a poco il regime si rese conto che doveva accettare qualche cambiamento, e i vertici di governo si misero al lavoro per mettere a punto un percorso gattopardesco che permettesse di cambiare tutto per non cambiare niente. Nacque così il progetto di un referendum, programmato per l’ottobre 1988, che autorizzasse Pinochet a governare per altri otto anni, ma democraticamente, con il consenso maggioritario della popolazione. L’operazione politica venne condotta anche a livello internazionale, interessando il Vaticano, allora retto dal papa polacco Giovanni Paolo II, perché la Santa Sede distogliesse la Chiesa cilena dalla difesa dei diritti umani e ne orientasse il lavoro verso l’evangelizzazione. Per quell’anno inoltre la trasformazione del sistema educativo era quasi terminata: la grande maggioranza delle scuole medie superiori del paese era stata traferita ai municipi e ad imprese private. L’interesse dei partiti di opposizione e delle organizzazioni studentesche si focalizzò totalmente sul prossimo referendum: ci furono ancora occupazioni e arresti di studenti, ma il movimento aveva ormai perso mordente.

Quando al plebiscito del 1988 vinse il “NO”, molti non sapevano se rallegrarsi o rattristarsi. Il loro sogno di abbattere il tiranno con le armi era finito: il paese entrava in un periodo di “dittatura al rallentatore”, come la definirono, che manteneva un “principio di autorità” dei militari sui civili. “Il modello della dittatura divenne ovvio e ancor oggi esiste gente che crede che si debba pagare per un diritto come l’istruzione: ci sono perfino genitori che scendono in piazza perché si mantenga questa anomalia”, commenta l’ex dirigente studentesca Lilia Concha, viceministro della cultura nel governo di Bachelet.

Nel 1989 cadeva il muro di Berlino, terminava la guerra fredda e iniziava una nuova era: in Cile da quell’anno il grande fermento studentesco si esaurì. Oggi quei liceali degli anni ottanta sono cinquantenni ben inseriti nella loro società, molti ad alto livello. Qualcuno deplora gli eccessi e l’irresponsabilità di quegli anni, le pistole in mano ai tredicenni, le bombe molotov nella cartella accanto alla merenda. Uno di loro diventato giornalista, Mauricio Weibel, ha rievocato quei giorni in un libro di memorie, “Los niños de la rebelion”, dove sottolinea come quei ragazzini, audaci fino all’incoscienza, abbiano svolto - appunto perché tali - un ruolo politico importante: tennero viva l’opposizione contro la dittatura e riuscirono a collegare le masse cittadine con gli operai, i minatori e le popolazioni indigene; e poterono farlo perché Pinochet non poté spingere più di tanto la sua ferocia contro dei (quasi) bambini. Rimane sempre in loro, incancellabile, l’amarezza per le tante sofferenze che hanno reso cupi i loro anni giovanili; e rimane in loro – doloroso come ferita che mai rimargina – il ricordo di tanti compagni, caduti adolescenti in una lotta che, pur avendo un impatto positivo sulla storia del Cile, rimase senza vittoria.

 

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